lunedì 6 aprile 2020

Nuovi volumi delle corrispondenze di Stendhal

Stendhal: Il laboratorio di sé. Corrispondenza, A cura di Vito Sorbello, Aragno, Torino, Vol. IV (1822-1830), pagg. 557, Vol. V (1831-1832), pagg. 687, Vol. VI (1833-1834), pagg. 637, Vol. VII (1835-1837), pagg. 635,
Vol. VIII (1838-1842), pagg. 569, € 35 ciascuno (I volumi I, II e III delle lettere sono stati pubblicati nel 2016 sempre da Aragno)

Stendhal turista a caccia di felicità
Corrispondenze. Le lettere dello scrittore sono un monumento di fatti e aneddoti sull’Italia: dalle considerazioni sul diffondersi del colera del 1831, al pedinamento della polizia di Firenze, fino ai soggiorni a Roma e Napoli
Scaraffia Domenicale 5 4 2020
«Mi preme annunciarvi che l’autorità pontificia allarmata dal progredire del colera ha sottoposto a una quarantena di quattordici giorni tutti i bastimenti provenienti dai porti della Francia», scriveva Stendhal nell’estate del 1831. Per poi concludere: «A Vienna il terrore è al culmine». Malgrado il suo amore per l’Italia era dubbioso sull’efficacia di un cordone sanitario affidato a soldati italiani. «I medici migliori pensano che non ci siano cure; il malato ha cinque possibilità contro una di andarsene ad patres. Ah! Se non ci fossero le atroci sofferenze, ho sempre desiderato una morte veloce».
Per il momento però si limitava a morire di noia in un «un buco abominevole», Civitavecchia, dove era stato nominato console, ma si annoiava tremendamente. La sua carica lo metteva a contatto con un mondo marinaresco e commerciale che non gli interessava. Come se non bastasse, aveva accanto a sé un infido cancelliere, Lysimaque Tavernier, che, mentre lo chiamava «padre mio», faceva la spia sulle sue numerose assenze e gli faceva ogni tipo di dispetti. Quella carica, inutile negarlo, era una resa. «Ero convinto di potere vivere della bellezza come unico cibo, ma è impossibile». La sua massima per resistere alle infinite punture di spillo e ai labirinti della burocrazia era «fregarsene decisamente di tutto», sintetizzata in S.F.C.D.T. («Se foutre carrément de tout»).
Ma neanche la sua salute era ottima. Le malattie immaginarie si mescolavano a quelle reali, il timore di prendersi il colera gotta, curato con l’oppio. Costretto a usare gli occhiali, sentiva con ansia avvicinarsi i cinquant’anni. Non bastava a rassicurarlo la sua relazione con una giovane e avvenente nobildonna, Giulia Rinieri de’ Rocchi, che l’aveva stupito due volte. La prima baciandolo di sua iniziativa - «So bene e da molto tempo che sei vecchio e brutto» - e la seconda rifiutando cortesemente la sua proposta di matrimonio. Doveva ammetterlo, in campo amoroso «le mie vittorie non mi hanno dato un piacere comparabile alla metà della profonda infelicità causata dalle mie sconfitte».
I pettegolezzi che arrivavano per lettera dalla Francia lo ristoravano per un momento, ma poi si ritrovava solo in quella misera cittadina. Meglio allora rifugiarsi nell’oasi solitaria della memoria. «Mi diverto a scrivere i bei momenti della mia vita; in seguito farò probabilmente come con un piatto di ciliegie, scriverò i momenti brutti, i torti che ho avuto, e la disgrazia che ho avuto di dispiacere sempre alle persone a cui volevo piacere».
In realtà due terzi del suo tempo andava ai viaggi nel «paese della caccia alla felicità» e ai soggiorni romani, amareggiati però dalla diffusa ipocrisia. «Quando si arriva a Roma da Napoli, si ha l’impressione di entrare in una tomba. Sono rari i contrasti così dolorosi. Si passa dalla città più allegra a quella più triste del mondo». Abituato a esprimersi liberamente nei salotti di Parigi, turbava con la sua audacia i romani che, nel timore di compromettersi, si allontanavano da quel parlatore pericoloso. Nei salotti una congiura del silenzio sembrava gravare sul suo ultimo libro, Il rosso e il nero, ritenuto immorale. Nessuno era al corrente del frammento Il lago di Ginevra, scritto poco dopo l’uscita del romanzo, poche pagine di un lirismo sommesso, in cui un diciottenne è estasiato dalla «sublime bellezza» del lago di Ginevra. Un incanto che neanche la grettezza del suo compagno di viaggio riesce a incrinare.
Secondo i benpensanti era lui il proprio peggiore nemico con il suo vizio di scherzare su tutto, di rovesciare le opinioni comuni e deridere l’autorità. Persino nella taverna Lepri di via Condotti quell’uomo dal fisico appesantito sotto il frac all’ultima moda scandalizzava gli artisti, demolendo le glorie consacrate, davanti a una stracciatella e a un bicchiere di Orvieto. Solo un piccolo gruppo beveva, affascinato, ogni parola della scintillante conversazione «piena di audacia, di fuoco e di brio». Tra loro però c’erano anche le spie della polizia che guardava con sospetto quel console cui Metternich aveva rifiutato l’autorizzazione per la sede di Trieste.
Nella sua vita, Stendhal aveva assistito a un’accelerazione inedita della storia. La monarchia era affondata, lasciando posto alla rivoluzione, rimpiazzata due volte da Napoleone e dai Borboni per poi approdare a Luigi Filippo. La rapidità degli avvicendamenti aveva reso più sgraziati i tradimenti di chi di volta in volta abbandonava gli sconfitti per i vincenti. In quella società ambigua, che cercava di mascherare con l’ipocrisia e la retorica il proprio opportunismo, Stendhal era un perfetto estraneo e non perdeva occasione per predire l’imminenza di una rivoluzione destinata a spazzare via il mediocre regno di Luigi Filippo, cui doveva peraltro la sua carica.
In questa scintillante, magnifica corrispondenza, un vero monumento letterario, intessuta di pensieri e di aneddoti e ottimamente curata da Vito Sorbello, si annidano perle come il resoconto di un pedinamento della polizia a Firenze. Vediamo così in un verbale lo scrittore uscire dalla locanda alle 9,30, sostare due ore al Gabinetto Vieusseux, un’ora agli Uffizi, comprare qualche libro francese e tornare al Vieusseux. Per poi passare ai bagni di via delle Terme, tornare di nuovo al Gabinetto e cenare in una trattoria con un giovane sconosciuto alla spia. Dopo il pasto si era seduto a un caffè di piazza del Duomo per poi ritirarsi nella sua locanda. Un’ultima sosta al Viesseux e poi era andato a dormire. «Avendo il sorvegliante fatto balenare il sospetto che potesse accorgersi di essere oculato, fu creduto conveniente di sospendersi per ora la vigilanza». La polizia non poteva sapere che in realtà Stendhal andava a Firenze nella speranza di vedere Giulia Rinieri.
Stava cominciando quelli che sarebbero diventati i Ricordi di egotismo, mai finiti come non riusciva a finire Una posizione sociale o l’incantevole Paul Sergar, anch’esso rimasto allo stato di frammento, in cui il passato si ripresenta sotto mentite spoglie. Il padre di Paul non somiglia infatti a quello maldestro del narratore ma all’amatissimo nonno. È rimasta la matrigna «bella e cattiva» che calunnia Paul e trasforma la sua infanzia in un periodo tristissimo. Lui «aveva un carattere appassionato e ombroso: la sua immaginazione ne fece una tragedia e aumentò molto la sua infelicità», spingendo a pensare al suicidio.
Ben lontano dall’egoismo, l’egotismo di Stendhal era lo scudo trasparente che opponeva alle insidie del tempo e alle tentazioni dell’ambizione. Era la consapevolezza della superiorità delle gioie dell’arte, dell’amore e della bellezza ai miraggi della carriera e degli onori. Non aveva niente a che fare la pomposa celebrazione di sé di quel «puzzone» di Chateaubriand, «il re degli egotisti».
Continuava a prendersela con Dio che non esisteva o era cattivo. «La vita di per sé non è né bene né male. È il luogo del bene e del male a seconda che li vogliate. È un canovaccio da ricamare con seta rossa o lana nera».
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