Nell’ultima
pagina dell’Intervista sul potere,a cura di Antonio Carioti, tu fai
cenno al ritorno alla prevalenza delle oligarchie, dopo due secoli di
lotte democratiche, come un problema molto grave del mondo in cui
viviamo.
Mi piacerebbe partire da qui per questo nostro dialogo, di
cui il tuo libro-intervista costituisce l’occasione. Anche a me sembra
che questa sia la questione politica principale del nostro tempo. Qui
c’è forse la chiave per comprendere l’incomprensibile, a iniziare dalla
fine della politica e dal trionfo della tecnica, che nasconde alla vista
il potere, le sue forme, i suoi attori. In un recente saggio apparso
suMicromega, ho definito l’oligarchia come il regime della
disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile,
cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal
cambiamento: sempre gli stessi che si riproducono per connivenze,
clientele. Le forme della democrazia vacillano, ma non sono travolte. La
sostanza, però, sta andando perduta. Questo mi pare il tempo
dell’ipocrisia democratica, addirittura su scala mondiale.
Questa
valutazione non nega quella che Michels definì la “legge ferrea delle
oligarchie”. Non si può non convenire che gruppi dirigenti esistono
sempre e hanno un ruolo decisivo nei partiti così come negli Stati
democratici di ogni tipo. Ma c’è una differenza traélites aperte al
ricambio e controllate da contropoteri forti come la magistratura
indipendente e la libera stampa, e oligarchie chiuse.
Nell’intervista
tu fai riferimento a un ritorno ai caratteri “primordiali” delle
antiche oligarchie, fondate innanzitutto su ricchezza e discendenza
aristocratica: in che modo si manifesta secondo te questo ritorno?
Luciano Canfora
Penso
soprattutto a fenomeni macroscopici e istruttivi al tempo stesso.
Facciamo un esempio. Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto (e sia
pure da una minoranza degli aventi diritto, dato l’assenteismo
patologico dell’elettorato statunitense) ma le decisioni fondamentali le
prendono altri: forze decisive e retrosceniche che possono in fondo
infischiarsene dei riti elettorali. Ai fini dell’egemonia
politico-militare è necessario un disinvolto e illegale spionaggio
informatico? Il Presidente forse ne ignora persino l’esistenza, ma esso
viene praticato, da chi ne ha il potere, senza scrupoli anche a costo di
gravi crisi con i co-siddetti alleati europei non meno che con gli
antagonisti russi o cinesi. Il Presidente predica contro il fiorente e
libero commercio delle armi, i cui effetti sono atroci? Ma la
potentissima lobby dei produttori di armi paralizza ogni decisione in
proposito. Questa è la sostanza della macrorealtà americana, questo è,
via via, il modello che si afferma per ogni dove.
Michels aveva
intuito una “legge” ma la realtà da lui studiata erapiccola cosa
rispetto a quella inquietante e brutale che è sotto i nostri occhi.
L’analisi di Michels e dei suoi maestri elitisti si riferiva a
formazioni politiche ottocentesche o protonovecentesche come i partiti
politici o più in generale la classe politica. Il problema è che essa è
stata soppiantata nel suo ruolo, pur restando al suo posto, da forze di
ben altra dinamicità, consistenza e potenza, totalmente sottratte al
“gioco” elettorale o alla “verifica” popolare. Sono queste le nuove
oligarchie. L’imperativo del momento è riuscire a squadernarne la natura
e la dominanza: prima di tentare di combatterle. Ci vorrebbe un nuovo
Marx, capace di studiare il potere economico-finanziario del tempo
presente e del prossimo venturo!
Purtroppo per ora ci dobbiamo
accontentare dei talmudisti (invero sempre meno numerosi), protesi alla
chiosa del Marx “antico”, laddove la realtà che ci sta di fronte e ci
sovrasta domanda ormai di essere “disvelata” sin dalla radice. E senza
la compiacente e reticente benevolenza dei “tecnici”, competenti certo, e
però complici dei nuovi poteri che reggono le fila degli organismi
decisivi.
Platone aveva sognato, nei libri centrali della Repubblica,
che al vertice dello “Stato ideale” giungessero dei
“filosofi-reggitori”, assurti con ascetica dedizione alla comprensione e
contemplazione del sommo bene e del giusto e perciò legittimati a
governare tutti gli altri. Al posto dei filosofi-reggitori, il nostro
onnipotente, ricco e armatissimo «primo mondo» ha collocato i grandi
conoscitoriprotagonisti della finanza. Essi sanno quello che vogliono,
ma èda temere che non vogliano né il sommo bene né la giustizia.
Dunque
la domanda da porsi, per intanto (poiché non è possibile attendere
inerti e passivamente l’avvento del nuovo “grande analista” della
modernità) è la seguente: in una situazione di questo genere quale
possibilità vi è di riappropriarsi, come cittadini comuni, del potere di
poter contare?
Gustavo Zagrebelsky
Parli di “forze
retrosceniche”. Sono sempre esistite. Che la politica “sulla scena”
delle istituzioni sia una messinscena per distogliere gli occhi del
pubblico dalla realtà del potere (che “sta nel nucleo più profondo del
segreto”, ha scritto Elias Canetti) è un’idea realistica. Un tempo, il
retroscena era visto come il luogo dell’oscurità, degli intrighi, dei
complotti, delle cose indicibili: tutte cose negative, da combattere in
pubblico, attraverso istituzioni veritiere. Pensiamo, per esempio, alla
glasnost’ di Gorbacëv che, per un certo periodo, ha coltivato
quest’idea. Oggi? Oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le
conseguenze sulla vita delle persone sono evidentissime, la matrice
anche: il predominio dell’economia sregolata e manovrata dalla finanza
speculativa. Ma è una matrice incorporea che, per ora, sembra
inafferrabile, non stanabile “sollevando un velo”. Constatiamo il
declino della politica, fino alla pantomima dei suoi riti: personaggi
inconsistenti, che talora si presentano come “tecnici”, rivelandosi così
esecutori di volontà altrui; “posti” come posta d’una lotta che,
usurpando la parola, continua a chiamarsi politica; nessun progetto
dotato d’autonomia; parole d’ordine tanto astratte quanto imperiose: lo
chiedono “i mercati”, la “Europa”, lo “sviluppo”, la “concorrenza”.
Questo degrado, che si manifesta macroscopicamente come immobilismo e
consociativismo, è la conseguenza di quello che è oggi il vero “nucleo
del potere”. Per poter essere contrastato con i mezzi della democrazia,
deve essere innanzitutto compreso, senza fermarsi solo a deplorarne le
conseguenze, scambiandole con le cause.
Tu poni la domanda cruciale:
che fare affinché ci si possa riappropriare di almeno un poco
dell’espropriata nostra capacità politica? Noi apparteniamo alla cerchia
di chi esercita una professione intellettuale. Il nostro compito
primario (non voglio dire esclusivo) è cercare di capire, non di
cambiare il mondo. Sarà pur vero, come tu dici, che non sono alle viste
nuovi Marx o Tocqueville. Ma il nostro compito, nel piccolissimo che è
alla nostra portata, è di questa natura. Il che significa innanzitutto
rifiutare il ruolo di consulenti che con tanta abbondanza questo sistema
di sterilizzazione della politica offre a chi ci sta. Sarebbe già una
bella rivoluzione.
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