Risvolto
L’ultima testimonianza inedita, scritta da un protagonista, sulla seduta del 25 luglio 1943 che determinò la fine del regime fascista. Scritto a caldo, subito dopo gli avvenimenti su quadernetti di scuola elementare durante il periodo di clandestinità dell’autore, questo testo, ritrovato casualmente dopo un cinquantennio, è un documento eccezionale non solo per la rivelazione di particolari sconosciuti sull’andamento della storica seduta ma anche perché rappresenta una sorta di “esame di coscienza” di un intellettuale di forti
L’ultima testimonianza inedita, scritta da un protagonista, sulla seduta del 25 luglio 1943 che determinò la fine del regime fascista. Scritto a caldo, subito dopo gli avvenimenti su quadernetti di scuola elementare durante il periodo di clandestinità dell’autore, questo testo, ritrovato casualmente dopo un cinquantennio, è un documento eccezionale non solo per la rivelazione di particolari sconosciuti sull’andamento della storica seduta ma anche perché rappresenta una sorta di “esame di coscienza” di un intellettuale di forti
convincimenti risorgimentali e liberisti di fronte alla tragedia della guerra e alla involuzione totalitaria del regime.
Risvolto
Una testimonianza inedita sulla fine del fascismo, scritta nel periodo intercorso tra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’entrata degli alleati a Roma il 4 giugno 1944 dal legale del duca D’Acquarone e del Ministro della Real Casa. Un documento importante che rivela in dettaglio i particolari della «congiura» organizzata dagli ambienti vicini al Re, monarchici, liberali e antifascisti.
Una testimonianza inedita sulla fine del fascismo, scritta nel periodo intercorso tra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’entrata degli alleati a Roma il 4 giugno 1944 dal legale del duca D’Acquarone e del Ministro della Real Casa. Un documento importante che rivela in dettaglio i particolari della «congiura» organizzata dagli ambienti vicini al Re, monarchici, liberali e antifascisti.
Risvolto
Scritte fra il
luglio 1943 e il giugno 1944 mentre l’autore era nascosto
nell’ambasciata portoghese presso la Santa Sede per sfuggire alla
condanna a morte pronunciata contro di lui dal Tribunale Speciale di
Verona per aver votato l’ordine del giorno Grandi il 25 luglio 1943,
queste memorie, delle quali uscì una anticipazione su quotidiani
dell’epoca, non furono mai pubblicate in volume. Esse, scritte, scritte a
caldo, offrono non solo una ricostruzione minuziosa della seduta del 25
luglio ma anche una ricostruzione critica dei momenti più significativi
della storia del fascismo. Pagine suggestive e appassionati scritte dal
più significativo esponente del nazionalismo italiano.
I retroscena del 25 luglio: 70 anni fa la caduta del Duce
Il fatalismo di Mussolini, le gravi incertezze dei congiurati
di Paolo Mieli Corriere 8.7.13
I n occasione dei settant'anni dalla caduta del fascismo (25 Luglio
1943), la casa editrice Le Lettere pubblica tre importanti libri di
testimonianza incentrati sulle vicende che portarono alla
defenestrazione di Benito Mussolini. Tutti e tre a cura di Francesco
Perfetti, lo storico che li ha portati alla luce. I primi due, Gran
consiglio, ultima seduta di Alberto De Stefani e Memorie di un
condannato a morte di Luigi Federzoni, sono stati scritti da personaggi
che erano stati al fianco del Duce fin dall'inizio dell'avventura
fascista anche se poi, nel 1943, non ebbero dubbi a provocarne la
caduta.
Alberto De Stefani era stato praticamente l'unico parlamentare eletto in
una lista fascista alle elezioni del 1921 (gli altri seguaci di
Mussolini erano stati portati in Parlamento dai Blocchi nazionali,
insieme a liberali, nazionalisti, democratici, ex combattenti). «Il
deputato d'assalto», lo definì Alberto Mario Perbellini sul «Resto del
Carlino» e lui fece sua questa «qualifica». Ma De Stefani fu soprattutto
un economista di grande spessore. All'indomani della marcia su Roma
(ottobre 1922), Mussolini lo volle con sé al governo come ministro delle
Finanze e del Tesoro. De Stefani, per non deludere colui che gli aveva
dato una così grande prova di fiducia, da quella postazione mirò a
quello che era stato l'obiettivo delle grandi personalità della Destra
storica: il pareggio del bilancio. Pareggio che ottenne nell'estate del
1925, poco prima di essere estromesso dal ministero per divergenze con
il capo del fascismo, dissensi che datavano dai tempi dell'uccisione di
Giacomo Matteotti. De Stefani tornò allora all'insegnamento
universitario e alla collaborazione con il «Corriere della Sera», salvo
essere richiamato in servizio dallo stesso Mussolini alla guida di un
comitato per la riforma burocratica. Quel comitato, però, ebbe vita
breve (1928-1929). Dopodiché l'economista venne incluso, non senza
problemi, nel Gran consiglio del fascismo (1930). Negli anni Trenta De
Stefani fu contrario alla guerra d'Etiopia e, quando l'Italia strinse
un'alleanza con Tokyo in vista di un nuovo conflitto, lui — in contrasto
con l'opzione giapponese — accettò di diventare consulente del governo
cinese. Non c'è da stupirsi, perciò, che nel luglio 1943 sia stato tra i
firmatari dell'ordine del giorno di Dino Grandi, destinato a provocare
il crollo del regime mussoliniano.
Diversa la biografia di Luigi Federzoni. Era stato, nel 1910, insieme a
Enrico Corradini, uno dei fondatori dell'Associazione nazionalista
italiana. In ottimi rapporti con Vittorio Emanuele III, nel 1922, al
momento della marcia su Roma, Federzoni aveva avuto un ruolo
importantissimo nel tenere Mussolini al corrente — quasi in tempo reale —
delle decisioni del sovrano. Il Duce lo compensò affidandogli il
ministero delle Colonie (ma lui avrebbe voluto gli Esteri) e poi, per
premiarlo della fedeltà dimostrata ai tempi dell'affaire Matteotti, nel
1924 lo spostò agli Interni, dove rimase fino al 1926. Ma anche lui,
come De Stefani, negli anni Trenta non fece nulla per nascondere il suo
dissenso ed ebbe cariche sostanzialmente onorifiche: presidenza del
Senato prima (1929-1939), poi dell'Accademia d'Italia (1938-1943). Fu
tra i pochissimi che nel 1938 si opposero apertamente alle leggi
razziali e probabilmente per questo perse la presidenza del Senato.
Anche in questo caso non è perciò una sorpresa trovare il suo nome tra
quelli dei congiurati del luglio 1943. Pur se, a suo dire, non si
dovrebbe assolutamente parlare di congiura. «Prima di tutto», scrive in
Memorie di un condannato a morte, «niente "fellonia" né tampoco
"agguato", "imboscata" ecc.: parole altrettanto gonfie di fragore quanto
vuote di senso, con le quali ci si vorrebbe squalificare… Grandi
preavvisò Mussolini fin dalla mattina del 22 circa la nostra iniziativa,
e poi gli inviò, a mezzo di Scorza, il nostro ordine del giorno».
Perciò, prosegue, non si può dire che ci fu colpo di Stato; si ebbe
invece l'«esercizio legittimo di una potestà statutaria del sovrano,
esercizio suffragato, sebbene non ce ne fosse bisogno, dal non meno
legittimo voto del Gran consiglio».
De Stefani è di parere diverso. Il fatto che Mussolini non avesse
sollevato un'eccezione di costituzionalità in merito all'ordine del
giorno Grandi, «benché non potesse essergli sfuggito» che
quell'iniziativa era «incostituzionale», aveva comportato che egli
stesso avesse «legalizzato» in qualche modo «l'iniziativa rivoluzionaria
e il colpo di Stato del Gran consiglio». Del resto Mussolini era da
tempo «uscito dai propri limiti legali, avocando a se stesso con un atto
rivoluzionario la rappresentanza del fascismo e il diritto di
interessarsi, eccedendo i propri poteri, di questioni riguardanti i
supremi interessi della patria». Questa lettura della seduta del Gran
consiglio del 25 Luglio 1943, «che tende a sottolineare una dimensione
rivoluzionaria e incostituzionale» e ad «avallare l'idea che in quella
sede fosse stato realizzato un colpo di Stato», osserva Perfetti, «è in
contrasto con le affermazioni fatte, in più sedi, da altri firmatari
dell'ordine del giorno Grandi», i quali, al contrario, «hanno sempre
rivendicato la correttezza giuridica dell'iniziativa e negato per essa
ogni retropensiero di natura eversiva». Primo tra tutti Dino Grandi nel
suo celeberrimo libro 25 Luglio, a cura di Renzo De Felice, edito dal
Mulino.
D'altro canto, fa notare Perfetti, lo stesso De Stefani rigetta la
categoria del «tradimento», richiamando l'attenzione sul fatto che
l'ordine del giorno Grandi era un «documento tattico» che offriva a
Mussolini un'opzione per il superamento della crisi. De Stefani mette
poi in evidenza come le critiche alla degenerazione del fascismo fossero
condivise anche da coloro che non avevano sottoscritto il documento. È
significativo, prosegue Perfetti, l'accenno di De Stefani al fatto che
Roberto Farinacci avesse svolto, in quella stessa seduta del Gran
consiglio, una critica argomentata che «aveva investito tutta la
politica del Duce assai più brutalmente dei commenti che Dino Grandi
fece nel proprio ordine del giorno, dai quali esulava la critica della
capacità politica del Duce, evidente invece nei discorsi di Farinacci».
Altrettanto significativo è il riferimento al fatto che, a un certo
punto, quasi tutti fossero preda di una sorta di «nostalgia del Capo»,
tanto che si ebbe la tentazione di «far confluire l'ordine del giorno
Grandi in quello del segretario del partito», con una «decisione di
compromesso che avrebbe lasciato le cose al punto in cui erano».
Secondo De Stefani, Mussolini aveva «già da quella notte sentito salire
in se stesso la necessità storica della sua esclusione». E questo
spiegherebbe perché sia stato così remissivo nel corso di quella
lunghissima nottata: «L'ingresso del Duce nella sala del Gran
consiglio», scrive De Stefani, «è stato silenzioso; un'accoglienza di
attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l'impressione di
chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza
sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e
non vuole sottrarvisi; la macchina era stata messa in moto e avrebbe
continuato a muoversi; non era più in nostro potere di arrestarne la
implacabilità; noi stessi ne eravamo lo strumento; della nostra libertà
si era impadronita quella misteriosa macchina che gli uomini dicono
fatalità; la sua logica ci dominava e noi avevamo perduto la nostra
libertà». E ancora: «Il Duce è stanco: s'abbandona sul suo scranno per
cercarvi un sostegno al suo abbandono; ordina al segretario del partito
di fare l'appello; siamo tutti presenti, anche coloro che soggiornavano
fuori di Roma e che non avevano ricevuto l'invito; anch'essi erano
tornati per un misterioso richiamo interiore; molti di noi avrebbero
potuto essere legittimamente assenti, ma ognuno aveva sentito qualche
cosa in sé che lo aveva fatto tornare; le risposte all'appello sono
monotone, impersonali, hanno un timbro unico e sono date a mezza voce…
La nostra personalità sembrava scomparsa, eravamo tutti lì per adempiere
lo stesso dovere; nessuno aveva qualche cosa da esprimere di suo, di
particolare che non fosse comune anche agli altri, o che anche gli altri
non avrebbero detto».
Il libro di De Stefani prova poi a spiegare perché Mussolini non fece in
quell'occasione alcun «intervento apprezzabile», limitandosi a «qualche
spunto difensivo, qualche punto di vista frammentario sull'origine
confessionale dello Statuto, sull'esercizio effettivo del comando
supremo, sull'impopolarità delle guerre». Con quell'«inerzia», secondo
De Stefani, Mussolini avrebbe «dimostrato» la sua «lealtà monarchica»,
sacrificando ad essa «se stesso e il regime». Perfetti obietta essere
molto più probabile che Mussolini ritenesse che il re non gli avrebbe
tolto il sostegno. Proprio per le circostanze in cui vennero scritte
(cioè a ridosso degli eventi), sostiene Perfetti, «queste pagine
finiscono per assumere, ben più di quanto sarebbe potuto accadere con un
testo elaborato a posteriori, un valore documentario e di testimonianza
intima e individuale, che travalica la rivelazione di particolari
inediti sullo svolgimento della seduta, i quali, pure, non mancano».
All'epoca in cui mise su carta queste notazioni, De Stefani era
rifugiato in un monastero, dove sarebbe rimasto dall'ottobre del 1943
fino al luglio del 1947, per sottrarsi ai tempi di Salò alla condanna a
morte in contumacia inflittagli nel processo di Verona per essere stato
tra i firmatari dell'ordine del giorno Grandi. E per sfuggire, nel
dopoguerra, alla detenzione nel corso dei mesi del processo intentato
contro di lui presso la sezione speciale della Corte di Assise di Roma,
con l'accusa di aver «concorso ad annullare le libertà costituzionali,
distruggere le libertà popolari e di aver commesso altri reati connessi
con l'instaurazione e il mantenimento del regime fascista». Procedimento
che si concluse il 17 settembre del 1947 con un'assoluzione piena
dell'illustre imputato. Il dispositivo con cui gli si rendeva la libertà
conteneva addirittura un elogio: «Giova ripetere che l'opera sua fu
oltremodo proficua alla patria e che meritò la stima e la considerazione
dei suoi avversari politici, i quali tuttora lo tengono in gran conto, e
pertanto non resta che proclamare l'innocenza di lui, assolvendolo con
la formula più completa e restituendolo alla tranquillità della sua
famiglia, di cui seppe conservare la nobile tradizione, e all'Italia che
di uomini della sua statura morale e intellettuale ha assolutamente
bisogno nel periodo della sua ricostruzione». Con il che De Stefani fu
riammesso nella vita pubblica (anche se mai ne approfittò per tornare
all'attività politica), in quella universitaria e alla scrittura, a cui
si dedicò fino all'anno della sua morte, il 1969.
Il libro di Federzoni è più aggressivo. «Dettate, spesso,
dall'indignazione e percorse da una vena di profonda amarezza», scrive
Perfetti, le Memorie di un condannato a morte, «al di là del valore
documentario su alcuni episodi e particolari della storia del ventennio,
sono anche una sorta di esame di coscienza di una personalità
rappresentativa, prima ancora che del movimento nazionalista del quale
fu uno degli esponenti più significativi e autorevoli, di tutto un mondo
cresciuto nel culto del Risorgimento e della tradizione incarnata dalla
Destra storica».
Nelle Memorie l'autore accentua il «tema della contrapposizione tra il
fascismo estremista, rivoluzionario, repubblicano e la Corona»,
rivelando che, quando era ministro dell'Interno, raccolse voci di un
progettato tentativo di rapimento di Vittorio Emanuele III, presentato
come «strumento del ventennale ricatto» di Mussolini nei confronti del
sovrano. Quello del 1922, dopo la marcia su Roma, era stato un «falso
compromesso» con il re, non si era trattato «di un atto di adesione
sentita», bensì di «una transazione suggerita dall'opportunità per
conquistare il potere». Federzoni sostiene che l'intervento dell'Italia
nella Seconda guerra mondiale era stato frutto di un'«iniziativa
personale di Mussolini». «Nelle stesse sfere direttive della politica
del regime, soltanto qualcuno dei consueti fanatici di mestiere, privi
di qualsiasi autorità morale, aveva auspicato con l'incoscienza bruta
quell'avventura ancor più rischiosa delle precedenti».
Fra i vecchi componenti dell'organo supremo del regime «non pochi
l'avevano francamente avversata (la guerra), e Mussolini, proprio perché
sapeva come essi la pensavano, si era ben guardato dal riunire il Gran
consiglio medesimo prima di prendere la fatale decisione». Per conoscere
«tempestivamente, ad esempio, il mio sentimento in proposito», scrive
Federzoni, «gli erano bastate l'insistenza certo stucchevole con cui gli
avevo espresso, ufficialmente e privatamente, il mio plauso per la
dichiarazione di non belligeranza, e le motivazioni da me addotte per
deprecare l'intervento; come non aveva ignorato che ero stato uno di
coloro che avevano maggiormente sostenuto Galeazzo Ciano nell'ultimo
tentativo di stornare quel folle divisamento, e — fra gli uomini
investiti di uffici pubblici importanti — uno dei pochissimi che avevano
sistematicamente declinato, avanti e durante la guerra, i ripetuti
inviti a recarsi in Germania per conferenze, congressi culturali e altre
manifestazioni filonaziste».
Impietosi sono i giudizi sui suoi compagni d'avventura. Achille Starace è
presentato come un «arcipotente e inconcludente fanciullone, con i suoi
divieti capricciosi, con le sue futili imposizioni». Farinacci è «un
can da pagliaio». Roberto Forges Davanzati, «un puro in ogni senso di
questa parola». Alfredo Rocco, un «estremista del fascismo», «il più
zelante e impaziente propugnatore» della fusione tra nazionalisti e
fascisti (alla quale lui, Federzoni, dice di non essere stato
favorevole… anche se ci sono prove del contrario). E che avrebbe ceduto
«per il suo temperamento dialettico all'ambizione di conferire una
sistemazione teoretica al caos empirico del pragmatismo mussoliniano e
alle molteplici e contrastanti esigenze "storiche" del regime».
Tutto vero, ma anche Federzoni era poi rimasto al fianco di Mussolini…
Certo, spiega l'autore di Memorie di un condannato a morte, «dopo che
era stato incautamente impegnato l'onore dell'Italia nel malaugurato
cimento, mi ero sentito vincolato anch'io al dovere della disciplina
patriottica e avevo sperato sinceramente che al mio Paese potessero
essere risparmiate l'onta e la sventura della disfatta». Ma Mussolini
«non si era mai potuto ingannare circa il mio stato d'animo in quel
tempo, sicché mi faceva spedire di quando in quando dal suo ministro
della Cultura Popolare copie fotografiche di articoli e informazioni di
giornali britannici, che mi indicavano come uno degli italiani
profondamente contrari all'alleanza tedesca e alla guerra». Gli articoli
della stampa inglese erano regolarmente accompagnati con una formula
burocratica: «D'ordine superiore, si trasmette per notizia». Questa,
scrive Federzoni, «era una cortesia che aveva sapore di monito». Perciò
«se fra noi dissenzienti e lui ci fu tradimento, fu il suo; fu quello
con cui egli premeditò di imbottigliare anche noi, a nostra insaputa e
nostro malgrado, nella responsabilità della guerra».
E venne la seduta del Gran consiglio. «Quella notte non finiva mai»,
racconta sua figlia, Elena Federzoni Argentieri, «alle quattro di
mattina si sentì il rumore delle chiavi ed era papà che tornava esausto.
Raccontò alla mamma i fatti principali, le disse che Grandi era andato
direttamente a riferire al ministro della Real Casa Acquarone, perché
informasse il re, poi si addormentò tranquillamente, mentre la mamma
poverina non riuscì a trovare sonno. Il giorno dopo, 25 Luglio, quasi
tutti i firmatari dell'ordine del giorno Grandi vennero a casa nostra a
Roma per stendere il verbale della seduta. Papà raccomandò la massima
prudenza perché la vendetta di Hitler non si sarebbe fatta attendere;
consigliò soprattutto coloro che avevano partecipato al Gran consiglio
per la prima volta di non fidarsi di nessuno e di sparire. Quelli che
gli dettero retta ebbero la vita salva, gli altri purtroppo no». Tra
questi ultimi, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini.
Lui, Federzoni — aiutato dall'allora sostituto alla segreteria di Stato
vaticana (nonché futuro papa Paolo VI) monsignor Montini —, trovò
ospitalità nell'ambasciata del Portogallo. Successivamente si trasferì
in Brasile, dove, sotto falso nome, rimase fino alle elezioni del 18
aprile 1948, che segnarono la definitiva vittoria del democristiano
Alcide De Gasperi sui socialcomunisti guidati da Palmiro Togliatti e
Pietro Nenni.
Il terzo personaggio — autore di La congiura del Quirinale — è Enzo
Storoni, figlio di un importante deputato liberale ed esponente
anch'egli del mondo che faceva riferimento a Luigi Einaudi e a Benedetto
Croce. Fu legale di fiducia del duca Pietro d'Acquarone e tale rimase
anche dopo che questi assunse l'incarico di ministro della Real Casa. Fu
proprio dal duca d'Acquarone, ricostruisce Perfetti, che Storoni nella
primavera del 1943 ricevette l'incarico di predisporre «un promemoria da
far pervenire al re sulla situazione politica e sulle possibilità di
uscire dal conflitto». A fine maggio, Storoni aveva assistito ad un
colloquio tra Vittorio Emanuele e l'ex presidente del Consiglio d'epoca
prefascista, Ivanoe Bonomi, cui «era stato sottoposto il promemoria e
che sostenne la necessità dell'intervento della Corona, dell'arresto di
Mussolini e di avviare segretamente trattative con gli anglo-americani
per uscire dalla guerra». E fu sempre lui, Storoni, a consegnare il 20
luglio al duca d'Acquarone un secondo promemoria «destinato pur esso al
re, ma elaborato insieme al conte Alessandro Casati sulla base di
conversazioni con altri personaggi di rilievo del mondo liberale, dal
giornalista e senatore Alberto Bergamini al marchese Pietro Tommasi
Della Torretta, allo stesso Bonomi: un promemoria, questo, che
illustrava le riserve dei liberali su una soluzione della crisi
affidata, come sembrava propendesse il sovrano, a un "gabinetto
d'affari" o apolitico». Una sorta di governo tecnico che, a parere di
Storoni, dai fascisti sarebbe stato considerato «un intruso e un nemico»
e, nello stesso tempo, «non avrebbe avuto una sicura capacità di
udienza presso le potenze alleate».
Interessanti sono i giudizi di Storoni — un liberale intransigente al
pari di Leone Cattani, Niccolò Carandini, Franco Libonati — sull'opera
degli antifascisti, «coraggiosa ma forzatamente modesta». Fino a tutto
il 1942, riferisce, non c'era stato «nemmeno il più esile collegamento
tra monarchia e antifascismo». I nemici di Mussolini, tutti
antipatizzanti nei confronti del re, sottovalutarono (anzi, non presero
neanche in considerazione) l'avversione al regime che andava maturando
in casa Savoia. Soprattutto dopo la caduta della Tunisia e lo sbarco
alleato in Sicilia.
Questo spiega perché il sovrano e il suo entourage tenevano in
scarsissimo conto l'opinione dei liberali con i quali avevano mantenuto
un qualche contatto. Non furono dunque questi ultimi a spingere Vittorio
Emanuele III all'azione. Anzi, si può affermare «senza tema di
smentita» che «artefice unica del colpo di Stato sia stata la
monarchia». Fu poi «la forza degli eventi, più che la capacità d'azione
degli uomini» ad accelerare il processo che portò al 25 Luglio, e la
riprova è nel fatto che in merito alla destituzione di Mussolini «il
progetto e i modi dell'attuazione di esso furono frutto di affrettata
improvvisazione».
Interessanti sono le pagine del Memoriale di Storoni dedicate alla
formazione del governo Badoglio. I ministeri più importanti in quel
momento erano tre: Esteri, Interni e Cultura popolare. Ma per quel che
riguarda gli uomini ai quali questi dicasteri furono affidati, Raffaele
Guariglia era lontano da Roma e, per arrivare da Ankara, «tardò cinque
giorni, cinque giorni fatali»; Bruno Fornaciari, ex prefetto fascista,
legato al regime da relazioni e amicizie, «aveva le mani legate, tanto
che dopo poco si dovette sostituirlo»; Guido Rocco «dichiarava
candidamente di non conoscere nulla della stampa italiana e sembrava
persino ignorare l'esistenza della radio che ai nostri giorni è uno
strumento essenziale per il governo», talché, «circondato da funzionari
che lo avevano seguito dal ministero degli Esteri, si limitò a istituire
la censura preventiva e a sopprimere praticamente ogni propaganda
radiofonica». Non male per il primo governo postfascista.
Solo Leopoldo Piccardi, l'unico dei ministri ad aver avuto in tempi
precedenti rapporti con gli uomini dell'opposizione, «cercava in tutti i
modi, nonostante le tremende difficoltà del momento, di imprimere un
indirizzo politico al suo ministero, mantenendo rapporti continui con i
politici». Gli altri «oscillavano tra la preoccupazione di non mettersi
in vista e lo zelo di farsi perdonare un passato troppo recente». Del
resto quei nomi furono scelti a corte, su indicazioni estemporanee, da
parte di persone che si sentivano domandare dal re: «Lei conosce il
tale?» oppure «Qual è, secondo lei, il migliore funzionario del
ministero talaltro?».
Dopo il 25 Luglio del 1943, Storoni fu commissario all'Alimentazione nel
gabinetto Badoglio. Di quell'esperienza ricorda il grande caos. Ex
ministri, piccoli e grandi personaggi del fascismo ancora in
circolazione, anche se «gli inconvenienti che ne derivarono furono gravi
ma non fatali». «Se molti prefetti fascisti tardarono a essere rimossi,
se molte nomine furono sbagliate, se troppi fascisti furono lasciati in
libertà, se la stampa fu soffocata e la radio totalmente ignorata, se
molti altri inconvenienti si verificarono, tutto ciò non ebbe
un'influenza decisiva sul corso degli eventi… Bisogna tener presente che
non si trattava di un cambiamento di governo, ma della caduta di un
regime che per vent'anni aveva intessuto una rete fittissima di
interessi e di complicità, ed era ben difficile spezzarla d'un colpo».
In seguito all'armistizio, Storoni si diede alla clandestinità, braccato
dai nazisti. Per poi tornare al governo da sottosegretario
all'Industria con delega al Commercio estero, nel gabinetto guidato da
Ferruccio Parri (giugno-dicembre 1945) e sottosegretario al Commercio
estero nel primo governo presieduto da Alcide De Gasperi (dicembre
1945-luglio 1946). Fu una personalità di spicco del Partito liberale,
scrisse su «Risorgimento Liberale» e sul «Mondo» di Mario Pannunzio.
L'interesse del memoriale di Storoni, osserva Perfetti, non riguarda
soltanto la genesi e lo svolgimento del colpo di Stato e il ruolo della
monarchia in questa contingenza; esso ricostruisce bene «il clima di
incertezza che travolse, all'indomani del 25 Luglio, "le nascenti classi
politiche", preoccupate della volontà di far uscire il Paese dalla
guerra, confuse dalle voci contraddittorie su trattative in corso con
gli Alleati e spinte, quasi inconsapevolmente, ad attribuire a Badoglio
le più varie responsabilità». Tutte negative, ovviamente. E ingiuste,
come quella di voler «ingigantire di proposito l'inesistente pericolo
dei tedeschi», così da poter «svolgere una politica reazionaria».
Il giudizio di Storoni su Badoglio è invece assai meno ostile perché,
scrive Perfetti, l'autore fu ben consapevole delle difficoltà del
compito affidato al maresciallo e del fatto che la principale
preoccupazione del capo del governo, peraltro condivisa totalmente con
il sovrano, riguardava, appunto, la reazione tedesca non solo al
cospetto della liquidazione del fascismo, ma soprattutto di fronte
all'armistizio. A proposito del quale nel libro vengono poste in
evidenza «le difficoltà e le ambiguità» del contesto in cui si svolsero
le trattative con gli Alleati. Pochi si resero conto del fatto che —
come sostenevano Badoglio e Vittorio Emanuele III — «il pericolo di una
reazione tedesca particolarmente efferata era reale». E che
l'apprensione per quel pericolo accompagnò «lo svolgimento di trattative
nel corso delle quali le due parti in causa, italiani e alleati,
parlavano un linguaggio diverso». In altre parole, gli anglo-americani
(e i partiti antifascisti) non valutarono che quel tipo di reazione da
loro provocata avrebbe allungato anziché accorciare la guerra. Guerra
che sarebbe durata per altri venti, terribili mesi.
Com’era grigio il velluto del Gran Consiglio
Nella notte tra il 24 e il 25 luglio Mussolini fu sfiduciato dal gruppo che lo aveva portato al potere e che aveva ignorato per anni. Nelle memorie di De Stefani il dramma psicologico dei gerarchi
Com’era grigio il velluto del Gran Consiglio
Nella notte tra il 24 e il 25 luglio Mussolini fu sfiduciato dal gruppo che lo aveva portato al potere e che aveva ignorato per anni. Nelle memorie di De Stefani il dramma psicologico dei gerarchi
Nessun commento:
Posta un commento