APERTURA - Pierre Macherey il manifesto 2013.07.03 - 10 CULTURA
La riflessione che Pierre Bourdieu ha dedicato ai problemi generali
della pratica si è principalmente sviluppata attraverso tre opere: Per
una teoria della pratica (1972), Il senso pratico (1980) e Ragioni
pratiche (1994). Sono, questi, i successivi tentativi di riscrivere uno
stesso testo, arricchito di nuovi concetti, come ad esempio quello di
«campo» divenuto operativo dopo il 1980, e alimentato di nuovi
riferimenti, senza che, tuttavia, i suoi orientamenti principali ne
vengano modificati. Questi orientamenti definiscono il progetto di una
«teoria della pratica» che unisce l'intero percorso di Bourdieu e gli
conferisce, sebbene lui rifiuti questo termine, una dimensione
autenticamente filosofica.
La reticenza di Bourdieu a fare rientrare
il suo percorso sotto la categoria del filosofico si spiega con il suo
rifiuto della pretesa teoricista che, a titolo di una sorta di
platonismo latente, ha attribuito, a torto o a ragione, alla filosofia
in quanto tale e che la porterebbe, una volta estratta dalla pratica la
sua teoria, a presentare quest'ultima, la teoria, come la verità
essenziale della pratica, senza rendersi conto che questa «pratica» di
cui la teoria dice di dare la verità, non esiste se non per la teoria da
cui essa è costruita: così il principale insegnamento che può impartire
una teoria della pratica protetta da ogni deriva liturgica è,
giustamente, che quella «pratica» non esiste, o almeno quella non esiste
se non per quanti cerchino di determinarne la verità assoluta facendone
la teoria, mentre in realtà esistono solo delle pratiche, al plurale,
costruitesi e decostruitesi nella storia di cui sono allo stesso tempo i
prodotti e le condizioni, poiché sono esse che determinano gli schemi
della sua evoluzione.
Illusione filosofica
La
migliore critica dell'illusione teoricista, che pretende di pensare «la
pratica» nello stesso momento in cui ignora sistematicamente la realtà
effettiva delle pratiche, spetterebbe, finalmente, di proporla alla
sociologia che, simultaneamente, mostrerebbe la genesi di questa
illusione: ed è in nome di questa esigenza critica che Bourdieu, come si
sa, è «passato» dalla filosofia, alla quale deve la sua formazione
iniziale, alla sociologia di cui egli prevede di formulare,
contemporaneamente alle verità che la filosofia manca, la verità
dell'operazione di sviamento di queste stesse verità effettuate dalla
filosofia.
In effetti, il sociologo, come lo definisce Bourdieu,
studia le formazioni pratiche nelle quali il materiale (l'oggettivo) è
indissociabile dal simbolico (il soggettivo), secondo un processo di
stratificazione inspiegabilmente ignorato da Marx quando, seguendo il
percorso tipico del suo materialismo causalista, ha preteso di separare i
due piani delle infrastrutture e delle sovrastrutture cercando
simultaneamente di installare un rapporto di determinazione univoca dal
primo al secondo. Il sociologo, se si interroga sulle condizioni nelle
quali perviene alla conoscenza del suo oggetto, sarebbe a dire se si fa
epistemologo della sua disciplina e pratica con un massimo di conoscenza
critica il suo «mestiere di sociologo», come accade precisamente nel
caso di Bourdieu, si trova, dunque, particolarmente ben piazzato e
armato per pensare la pratica, o meglio, per elaborare e mettere in
opera un concetto di pratica adattata ai suoi interessi teorici e capace
di «informarli», nel doppio senso di istruirli e ordinarli per
permettere il loro adattamento a un contenuto proprio.
Ma cos'è
pensare la pratica nell'articolazione del materiale e del simbolico come
lo fa il sociologo? Si tratta semplicemente di sviluppare la conoscenza
di questa articolazione, strutturandone quanto più precisamente
possibile le procedure, correndo il rischio di reificarle? O si tratta
di ben altra cosa, cioè di saper situare se stessi nel punto in cui
questa articolazione funziona, sarebbe a dire pensare la pratica
considerandola in quanto pratica, in modo da pensarla dentro la pratica,
senza uscire dall'ordine della pratica né pretendere di esercitare su
di essa uno sguardo sovrastante e disimpegnato, il quale troverebbe in
questo disimpegno le sue garanzie teoriche?
È alla seconda
prospettiva che, di certo, vanno le preferenze di Bourdieu: lui si è
costantemente interessato a pensare la pratica in quanto tale, cioè come
pratica nella sua pratica, invece di cercare di estrapolarla con
l'obiettivo di pensarla, sarebbe a dire non più «in pratica», ma «in
teoria», proiettandola in una specie d'astrazione dove, svuotata di ogni
contenuto, funziona a vuoto, esposta ad alternative irrisolvibili come
quelle della libertà e della necessità, dell'individuale e del
collettivo, della coscienza e della regola, alternative intrappolate che
permetterebbero appunto di contrastare una conoscenza della pratica
allo stato pratico.
Allora, come accedere a un sapere di ciò che è la
pratica allo stato pratico? Bisognerebbe rinunciare ai benefici che si
possono aspettare da una spiegazione teorica per rimettersi interamente
alla pratica affinché essa, direttamente, dica che tipo di pratica sia?
Per uscire da questa difficoltà Bourdieu, all'inizio di Per una teoria
della pratica, riformula la distinzione spinoziana dei modi di
conoscenza spiegando che «il mondo sociale può essere oggetto di tre
modi di conoscenza teorica», che lui definisce «fenomenologica»,
«oggettivista» e «prassiologica».
La conoscenza in tre mosse
L'approccio
fenomenologico del mondo sociale è quello che stabilisce con esso una
relazione di prossimità e di familiarità basata su di una sorta di
intuizionismo che gli permette presumibilmente di avvicinarlo a nudo nel
suo vissuto esistenziale, nella sua esperienza primaria di cui questo
approccio si propone semplicemente di dare una descrizione quanto più
fedele possibile. L'approccio oggettivista è quello che, al contrario,
taglia ogni legame con il vissuto e la soggettività nella quale è
immerso, impegnandosi a fare emergere le strutture latenti in azione
nella vita sociale che essa dirige all'insaputa dei suoi agenti, quindi
senza comunicazione con l'esperienza cosciente che essi stessi fanno
spontaneamente. Infine, l'approccio prassiologico, rifiuta le
alternative dei precedenti, effettua una qualche sorta di reinserimento
della teoria nella pratica e dell'oggettivo nel soggettivo,
interessandosi alle condizioni nelle quali il sistema di relazioni che
comanda l'esistenza del mondo sociale è assimilato da quelli che ne
realizzano la riproduzione sotto forma di disposizioni acquisite o
habitus che contano per essi come una seconda natura.
I tre approcci
così come sono definiti si situano dialetticamente gli uni in rapporto
agli altri in una relazione di superamento, in base alla quale la
seconda si dà come obiettivo quello di determinare ciò che, per
definizione, è eluso dalla prima, movimento riprodotto per suo conto
dalla terza: «Nella misura in cui si costituisce in opposizione
all'esperienza primaria, apprensione pratica del mondo sociale, la
conoscenza oggettivista si trova sviata dalla costruzione delle teoria
della conoscenza pratica del mondo sociale di cui essa produce almeno in
senso negativo l'assenza, producendo la conoscenza teorica del mondo
sociale in opposizione ai presupposti impliciti della conoscenza pratica
del mondo sociale». Sarebbe a dire che, per risolvere l'opposizione
oggettivo-soggettivo, altrimenti detto, per sfuggire al dilemma
Lévi-Strauss/Sartre, la sociologia deve elaborare una «teoria della
conoscenza pratica del mondo sociale» capace di comprendere come, le
leggi alle quali questo obbedisce, funzionino in pratica, governando
dall'interno e non dal di fuori, le operazioni degli agenti che fanno
esistere concretamente questo mondo sociale sotto la stessa forma in cui
si presenta nella loro propria esperienza pratica che è, allo stesso
tempo, quella della soggettività oggettivata, dell'individuale
socializzato, e dell'oggettività soggettivata, del sociale
individualizzato.
Traduzione di Fabrizio Denunzio
MEMORANDUM
Una fertile presa di posizione nel campo politico
TAGLIO MEDIO - Fabrizio Denunzio il manifesto 2013.07.03 - 10 CULTURA
L'articolo che Pierre Macherey, con
l'abituale generosità che lo distingue, ha gentilmente dato a «il
manifesto», è molto utile per dissolvere i dubbi che ciclicamente
vengono sollevati sullo statuto epistemologico e politico delle scienze
sociali e sul rapporto - che si vorrebbe subalterno - che queste hanno
con una disciplina egemonica come la filosofia, o meglio, la filosofia
politica. Dubbi che Macherey deve aver avuto ben presenti dal momento
che ha scelto strategicamente di lavorare in un dispositivo sociologico
come quello di Pierre Bourdieu.
Darò solo tre brevi indicazioni di
lettura per mostrare come il filosofo francese, in questo breve e
intenso articolo, sottragga la sociologia alla subalternità alla quale
la filosofia la vuole storicamente costringere, la restituisca alla sua
dignità epistemologica, e la immetta nel campo delle lotte politiche.
Innanzitutto,
la filosofia. Lì dove i sociologi sanno che i tre modi di conoscenza
avanzati da Bourdieu per relazionarsi al mondo sociale rappresentano
altrettante correnti socio-antropologiche - l'approccio fenomenologico è
quello etnometodologico e interazionista di Harold Garfinkel, quello
oggettivista è quello strutturalista di Lévi-Strauss, quello
prassiologico è quello bourdieusiano sul campo della ricerca algerina
del popolo cabilo - Macherey li fa derivare direttamente da Spinoza. Con
questo gesto l'immaginazione, la ragione e la scienza intuitiva
spinoziane, elementi di una complessa ontologia, si ritrovano al centro
di una sociologia che non ha mai smesso di riferirsi ai principi di
rilevamento quantitativo dei dati per dimostrare le proprie asserzioni.
Poi,
l'epistemologia. Quando Macherey insiste su quanto Bourdieu prescriveva
ai ricercatori in scienze sociali, cioè di oggettivare sempre la
posizione soggettiva nel campo di analisi, quindi di riflettere
continuamente sul modo in cui si costruisce l'oggetto di riflessione, in
realtà dimostra che la sociologia non ha bisogno di nessuna nuova
fondazione del suo statuto epistemologico, è sufficiente quello datole
da Bourdieu: articolare l'oggettivo e il soggettivo, il materiale e il
simbolico, tutto ciò che, debitamente intessuto, dà vita alle formazioni
sociali.
Infine, le lotte politiche. Cos'è tutto questo insistere di
Macherey sulla pratica? Nient'altro che la valorizzazione di quel
vecchio vizio dei sociologi di voler essere presenti sul campo, lì dove i
fatti avvengono. Ora, dal momento che, come ha insegnato Bourdieu,
questi campi non sono mai neutri, piuttosto, sono contrassegnati da
forze e da conflitti, essere sul campo, in pratica, significa prendere
posizione. Innanzitutto, contro quei meccanismi di potere simbolico che
arbitrariamente assegnano i significati ai fenomeni, alle cose e alle
scienze e li vogliono unici e irrevocabili.
L'entusiasmo di Macherey
per la prassi bourdieusiana, allora, non è altro che l'entusiasmo per
una sociologia che non ha ridotto il mondo sociale ad un qualcosa di
astratto da utilizzare per gli esercizi intellettuali più arditi delle
élite culturali, ma ne ha fatto il luogo, molto concreto e molto «basso»
in cui gli agenti sociali, si devono impegnare in una lunga lotta
«cognitiva» per comprendere cosa li condiziona e cosa li può liberare
occupando la posizione oggettiva che gli è stata assegnata dalla storia.
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