L’‘affare Necaev’ è uno degli episodi più misteriosi e tragici, più ricchi di conseguenze della storia del movimento rivoluzionario russo. Tutti i problemi del terrorismo, della lotta clandestina, della disciplina di gruppo, del tradimento, delle ‘mani sporche’, della violenza ‘necessaria’ contro i propri compagni, problemi che sarebbero poi ricomparsi sempre più spesso fino a oggi, appaiono qui in una luce cruda e còlti, per così dire, alla loro scaturigine, cioè nella vicenda dei due grandi personaggi che in una certa misura ‘inventarono’ – o per lo meno rielaborarono in modo decisivo – quei problemi.
Nel 1869 faceva irruzione nella vita del glorioso, e ormai anziano, capo dell’anarchismo, Bakunin, un giovane di ventidue anni, Sergej Necaev, che arrivava dalla Russia accompagnato da voci disparate, secondo cui, volta a volta, era il più radicale e puro dei nuovi rivoluzionari o un abietto mistificatore pronto a qualsiasi bassezza. E da allora a oggi Necaev ha continuato a essere un enigma fascinoso, interpretato in modi opposti: da Dostoevskij (nei Demoni) a Engels, a Camus e agli storici più recenti, i ritratti di Necaev che ci sono stati offerti sono innumerevoli e incompatibili. Ma si può dire che soltanto con questo straordinario libro di Michael Confino si sia giunti per lo meno ad avere in mano i dati essenziali di quello che fu il momento culminante dell’azione di Necaev: l’incontro con Bakunin, storia appassionante di una sorta di innamoramento del vecchio per il giovane rivoluzionario, cui seguirà alla fine una atroce delusione, storia intrecciata in pochi mesi convulsi a complotti internazionali e a grottesche vicissitudini private, mossa da relazioni psicologiche di una ambiguità e di una paradossalità clamorose, quali appunto solo Dostoevskij (e Conrad) hanno saputo intuire. Michael Confino ha raccolto per la prima volta tutti i testi, in buona parte da lui stesso scoperti, che riguardano l’affare Bakunin-Necaev, dalle lettere dei due protagonisti (quelle di Bakunin sono fra le pagine più rivelatrici che egli abbia mai scritto) alle testimonianze di amici, nemici e compagni, includendo il celebre Catechismo del rivoluzionario, breve testo anonimo che ha avuto una larghissima influenza sul movimento rivoluzionario.
Anche su questo testo, attribuito da alcuni a Bakunin e da altri a Necaev, le analisi di Confino sono illuminanti. Abilmente articolato fra documenti e commenti, questo libro riesce a farci vivere quasi giorno per giorno una vicenda che coinvolge, turba e provoca molto profondamente. Il gioco che qui si svolge davanti a noi può avere, a seconda della prospettiva, il carattere della assoluta purezza o della assoluta abiezione – o, ed è ben peggio, quello di una mescolanza sottile delle due cose: ricostruendo questa oscura storia, Confino ci pone di fronte a problemi enormi di psicologia e di politica, che finalmente possiamo affrontare, grazie alla ricchissima documentazione, nel loro contesto reale.
Ideologie. Il catechismo del rivoluzionario russo: distruggere tutto, anche se stessi
Per Sergej Necaev il combattente non doveva avere né case né amori Storia del più feroce teorico del nichilismo: voleva cambiare il mondo, ma fu un assassino e tradì anche l’amico Bakunin
di Pietro Citati Corriere 23.1.14
Il
catechismo del rivoluzionario, un piccolo libro composto nel 1869,
probabilmente da Sergej Necaev, (a cura di Michael Confino, traduzione
di Giséle Bartoli, Adelphi pp. 268 e 9,30), è uno degli scritti capitali
del nichilismo russo. Ho letto pochi testi animati da uno spirito di
distruzione così feroce, spietato e assoluto, che occupa completamente
la mente e il cuore di chi scrive, e si incide in una forma memorabile,
che prescrive l’imitazione dei lettori. Secondo Necaev, bisognava
distruggere tutto: lo stato, l’aristocrazia, la borghesia, la chiesa, i
kulaki, gli stessi contadini, se la loro esistenza possedeva una
qualsiasi forma. I rivoluzionari dovevano raccogliersi e concentrarsi:
fare propaganda nei bassifondi, tra i pezzenti, i ladri e i briganti che
occupavano il vasto mondo sotterraneo della Russia, scagliandoli contro
il potere. Non doveva restare più niente: nessuna organizzazione
sociale e politica, come poi pensò il comunismo sovietico, doveva
prendere il posto del mondo distrutto.
Una sola cosa esisteva sulla
terra, un solo pensiero, una sola passione: la rivoluzione, che
escludeva ogni altra passione, interesse e sentimento. La rivoluzione si
introduceva in tutte le classi della società, medie ed infime, nella
bottega del mercante, in chiesa; e via via si allargava, insinuandosi
nella casa signorile, nel mondo burocratico, militare, letterario, nella
polizia segreta, e persino nel Palazzo d’Inverno, cioè nel luogo dove
il potere si concentrava. La rivoluzione aveva una prodigiosa ubiquità:
era dovunque, e si impadroniva di tutto. Gli uomini, secondo Necaev,
vivevano di pregiudizi. Solo la rivoluzione non conosceva pregiudizi:
perché, per affermarsi, usava ogni mezzo possibile — la forza, la
violenza, la menzogna, l’inganno, la mistificazione, — e li usava contro
i potenti e contro gli stessi compagni, che la preparavano.
Nel
Catechismo Necaev descriveva stupendamente il carattere dei
rivoluzionari. Anzi del rivoluzionario: perché non gli interessava il
carattere del partito, del gruppo, del comitato segreto, ma
esclusivamente quello del singolo, che agiva da solo e compiva una serie
di azioni distruttive, immaginate e inventate nella sua mente sovrana.
Dagli studenti e dai seminaristi affiliati, il rivoluzionario esigeva
una sottomissione totale, una incondizionata partecipazione all’impresa,
i cui scopi restavano loro completamente sconosciuti. Egli creava un
piccolo circolo, composto da quattro o cinque persone: questo circolo
generava un secondo circolo; il secondo ne generava un terzo, e così
via, senza fine, attraverso il vasto corpo della Russia, senza che si
potesse mai risalire al nucleo originario.
«Il rivoluzionario —
diceva Necaev — non ha interessi propri, affanni privati, sentimenti,
legami personali, proprietà. Non ha neppure un nome». Egli era
spaventosamente duro verso sé stesso, come se fosse un pezzo di ferro o
di legno. Ma era molto più duro verso gli altri: tutti i sentimenti
terreni, che ammorbidiscono l’animo, come l’amicizia, l’amore, la
gratitudine, l’onore, dovevano essere soffocati dall’unica, fredda
passione per la causa. Per lui esisteva soltanto un’unica gioia: il
successo della rivoluzione. Due sole inclinazioni variavano la freddezza
della sua anima. La prima era l’odio, che provava non soltanto verso il
governo e le classi dirigenti, ma verso gli stessi giovani che aveva
trascinato con sé: per loro non aveva che avversione e disprezzo. La
seconda era la mistificazione. Mentre abitava la società, egli si faceva
passare per ciò che non era: tutte le sue parole non erano che menzogne
ed inganno.
Il tempo precipitava verso la guerra all’ultimo sangue.
«Quando si deve fare la rivoluzione?» si chiedeva un amico di Necaev,
Tkacev. «Adesso, rispondeva, perché fra poco sarà troppo tardi». Anche
Necaev credeva nell’assoluta imminenza della rivoluzione, che sarebbe
accaduta tra pochi giorni. O almeno fingeva di crederci, quando, a
Locarno, parlava con Bakunin, raccontando dei comitati immaginari che
tendevano le loro fila nella Russia zarista.
* * *
Prima di
lasciare la Russia, Necaev aveva compiuto un delitto. Ivanov, suo
compagno politico, era un uomo agiato, che più volte gli aveva dato
denari. Alla fine, gli disse che aveva perduto qualsiasi fiducia in lui,
e non l’avrebbe più finanziato. Allora Necaev mentì: disse ai compagni
che Ivanov era un agente della polizia segreta russa e si accingeva a
denunciare l’organizzazione alla giustizia. Il 21 novembre 1869, i
cinque compagni della Narodnaja Rasprava attrassero Ivanov, di notte,
nel parco dell’Accademia dell’Agricoltura di Mosca e lo uccisero.
Dimenticarono di avere una pistola: lo colpirono coi pugni e le pietre, e
finirono per strangolarlo. L’uccisione avvenne in un clima sinistro e
farsesco, che Dostoevskij raccontò mirabilmente in un capitolo dei
Demòni.
Inseguito dalla polizia russa, Necaev fuggì in Svizzera, a
Locarno. Lì viveva Michael Bakunin, famoso profeta della rivoluzione
anarchica. Da trent’anni era lontano dalla Russia; la gioventù di Mosca e
di Pietroburgo era per lui una terra incognita; si sentiva vecchio,
debole, impotente; era pieno di rimpianti, e sognava disperatamente la
patria che aveva lasciato nella giovinezza. Continuava a descrivere il
suo programma. Secondo lui, il popolo russo conservava nella memoria
l’ideale dell’antico comune libero. Ogni villaggio sentiva l’urgenza di
un cambiamento assoluto, e nascondeva in fondo all’animo il desiderio di
impadronirsi di tutta la terra dei nobili e dei kulaki.
Quando
Necaev arrivò a Locarno, Bakunin lo accolse con profondissima
ammirazione, credendo in lui come in un’immagine ritrovata della sua
giovinezza. «Sono ammirevoli — diceva — questi giovani fanatici-credenti
senza Dio, eroi senza frasi fatte». Venerava la sua passione
rivoluzionaria, la sua energia scatenata, la sua volontà, il suo
disinteresse, la sua instancabile alacrità, la sua abnegazione assoluta,
il suo fascino. Non aveva mai incontrato — disse — nessun giovane così
prezioso e santo; e lo riteneva capace di riunire intorno a sé, non per
sé ma per la causa, tutte le forze rivoluzionarie della Russia.
A
Locarno, si ripeté quello che era accaduto a Mosca: la forza della
rivoluzione rivelò di non essere altro che mistificazione e inganno.
Necaev aveva una sconfinata fiducia nella propria infallibilità, e un
totale disprezzo per gli altri esseri umani, anche se erano suoi amici e
compagni. Cercava di carpire i segreti di Bakunin e degli altri
rivoluzionari; rimasto solo nelle loro camere, apriva i cassetti,
leggeva la corrispondenza; se veniva presentato a un amico, la sua prima
cura era di seminare discordie, pettegolezzi, intrighi; e cercava di
sedurre le mogli e le figlie, violando ogni amore ed amicizia.
Bakunin
fu profondamente offeso. «Dunque voi mi avete sistematicamente
mentito», scrisse a Necaev. «Dunque la vostra impresa era marcia di
menzogne… Credevo incondizionatamente in voi, ma voi mi stavate
ingannando… Ora basta. I nostri rapporti passati e i nostri mutui
obblighi sono finiti. Li avete distrutti voi stesso». Quando vide la
rivoluzione incarnata in un essere umano, Bakunin si accorse di avere
davanti a sé un mostro spaventoso; e rimpianse tutti gli anni che aveva
dedicato al suo ideale impossibile.
Bakunin Il lato oscuro del rivoluzionario
Chi abbraccia la lotta armata non mostra mai la propria personalità: dalla sua figura devono guardarsi gli amici prima che gli avversari
di David Bidussa
il Sole24ore domenica 15.6.14
Nel 1972 Franco Venturi, ripubblicando venti anni dopo la prima edizione La storia del populismo russo – il testo sul movimento rivoluzionario russo più noto e documentato nella storiografia internazionale del secondo dopoguerra – inserisce una lunga premessa in cui torna sulla figura Sergey Necvaev («un revenant che non si riesce a esorcizzare» scrive l'autore). In particolare Venturi si sofferma su Il catechismo del rivoluzionario, un normario stringato (10 pagine in tutto) che ci consegna la fisionomia del terrorista, una figura per il quale gli altri individui, compresi i propri compagni, sono solo mezzi per conseguire il fine.
Con quella precisazione Venturi rende omaggio a uno storico Michael Confino (1926-2010), che pochi anni prima ha pubblicato quel testo (ma già aveva dedicato pagine alle ricerche di Confino sulla trasformazione economica del mondo rurale russo).
Nel 1973 Confino raccoglie in volume altri documenti insieme al Catechismo, facendoli precedere da un saggio critico di grande qualità. La prima edizione esce in Francia per Maspero, casa editrice di nuova sinistra, in una collana che si chiama «Bibliothèque socialiste» (diretta da un grande storico del socialismo europeo, Georges Haupt). E suscita una discussione accesa. In Italia esce per Adelphi nel 1976, passa sotto silenzio o comunque ne discutono solo gli specialisti.
Peccato, perché negli anni in cui la lotta armata ha un peso nella definizione dello stato d'animo collettivo, non sarebbe stato fuori luogo prenderlo in mano e analizzarlo con attenzione. Non lo fanno né la sinistra né la destra. Forse sarà possibile oggi, con questa nuova ristampa che significativamente non aggiunge niente a quella edizione del lontano 1976 (il saggio di Confino ha la stessa freschezza di allora).
Di che si tratta dunque? L'episodio copre un tempo di un anno scarso. Nel 1869 irrompe nella vita del glorioso, ma ormai anziano capo dell'anarchismo, Bakunin, un giovane di ventidue anni, Sergej Necvaev, che arriva dalla Russia accompagnato da voci disparate: secondo alcuni il più radicale e puro dei rivoluzionari, per altri un abietto mistificatore.
Bakunin ne rimarrà affascinato, a differenza di Alexander Herzen da subito diffidente, e solo dopo alcuni mesi uscirà da questa sua convinzione sanzionando la rottura con con una lettera drammatica, lunga, tormentata che spedisce a Necvaev il 2 giugno 1870 (pagg. 133-187). In quella lettera scrive Bakunin: «Vi siete messo a giocare al gesuitismo come un bambino gioca alle bambole». Non senza rimproverare se stesso: «credendo incondizionatamente in voi mi sono dimostrato uno stupido» (pagg. 174 e 180).
In mezzo ci sono questioni di soldi, di fiducia malriposta, di violenza, di doppiezza, di uso della malafede. In breve tutta la gamma delle sensibilità su cui lavora il "terrorista", figura votata a non dare mai mostra integrale della propria personalità. A giocare con gli avversari, ma anche pronto a servirsi e a sfruttare le debolezze dei propri compagni.
Una fisionomia che Dostoevskij riproduce ne I demoni non solo in rapporto al tema della violenza, ma soprattutto rispetto al tema della finzione. Un mondo, quello del terrorista, fondato sulla finzione, ritenuta vera attraverso l'ambiguità (per esempio Piotr Verchovenskij, uno che finge come molti altri). I rivoluzionari di Dostoevskij non sono superiori alla società che contestano, ma una copia conforme. Aspetto che Camus descrive con precisione ne L'uomo in rivolta: lì Necvaev è la figura che sancisce il divorzio tra rivoluzione e amicizia, un sentimento che, da Cromwell in poi, ha fondato l'etica dei rivoluzionari. Con Necvaev il vincolo di protezione reciproca che aveva salvato i rivoluzionari si dissolve: ciò che ora va protetto è la rivoluzione, anche a costo della vita dei propri compagni. Essa va salvaguardata non solo da loro, ma anche contro di loro. Essa diviene la cosa che vale di più e per la quale tutto è lecito.
È la partita che si gioca nell'estate di 150 anni fa. Una storia appassionante e inquietante. Confino ha il merito di darci una radiografia, ma soprattutto di illustrarci il costrutto concettuale ed emozionale (sbaglieremmo a pensare che ci sia solo freddezza in Necvaev) di ciò che ora è il rivoluzionario in missione. Una figura da cui devono guardarsi gli amici, prima ancora che gli avversari.
Nessun commento:
Posta un commento