Risvolto
Agli inizi del 1960, in un’Italia in piena ripresa economica,
quell’italiano anomalo ritratto da Geminello Alvi come «astutamente
pratico, e però appassionato fino alla mistica come fu Adriano
Olivetti», decide di costruire il Centro di calcolo elettronico, la
fabbrica destinata alla produzione delle macchine del futuro – i
computer – e sceglie di affidare l’incarico a Le Corbusier. Siamo
davanti a un episodio importante dell’architettura moderna: due
personalità eccezionali, per la forte carica utopica e creativa delle
loro opere, che per lungo tempo hanno dialogato da lontano tra loro,
decidono di sperimentare insieme la progettazione di uno stabilimento
industriale d’avanguardia, la nuova fabbrica a «misura d’uomo» capace di
ricreare al suo interno «le condizioni di natura». Il progetto, che
verrà elaborato dopo l’improvvisa scomparsa di Adriano (27 febbraio
1960), purtroppo non sarà mai realizzato a causa della crisi finanziaria
della Società, costretta a vendere il suo ramo di produzione
elettronica all’americana General Electric nel 1964. Il volume, dopo una
prima parte introduttiva dedicata alla politica industriale di Adriano
Olivetti e i suoi rapporti con Le Corbusier dagli anni ‘30 al 1960, si
sofferma sulla lettura diacronica del progetto, ricostruendo in modo
puntuale, grazie ai numerosi documenti inediti, la genesi del processo
ideativo e l’articolazione nel tempo. Nella terza e ultima parte,
attraverso il confronto costante con altre opere e scritti
dell’architetto svizzero, vengono poi messe in luce idee, soluzioni e
forme a partire dalle quali il progetto stesso si è andato via via
strutturando, creando continui legami con la natura e il mondo, con le
sue stesse opere e il suo immaginario. Il leitmotiv che sembra dare
forma alla Usine Verte (fabbrica verde), modello scelto per il
Centro di calcolo elettronico, è quello di un grande organismo
architettonico in sintonia con il territorio e il paesaggio, soluzione
questa che può rappresentare un paradigma di grande efficacia per tutti
coloro che oggi, su basi nuove, si pongono il problema dell’integrazione
fra ambiente e produzione in modo positivo per l’uomo e la natura.
Nel 1960 l’urbanista lavorava a una nuova sede per l’azienda. Di quell’idea restano solo i disegni
Olivetti e Le Corbusier
L’ingegnere, l’architetto e quel progetto incompiuto per la grande utopia
di Francesco Erbani Repubblica 28.1.14
di Francesco Erbani Repubblica 28.1.14
Adriano
Olivetti morì alla fine di febbraio del 1960 e uno degli articoli
commemorativi di più intensa partecipazione lo firmò Le Corbusier. «Egli
desiderava realizzare il sogno di una nuova società sulla terra e non
lo rimandava a scadenze imprecisate», scriveva l’architetto. La morte,
improvvisa e prematura (l’ingegnere non aveva sessant’anni), giunse
mentre fra Olivetti e il progettista prendeva corpo l’intesa per
costruire la sede del nuovo Centro di calcolo elettronico, cioè dello
stabilimento in cui sarebbero stati alloggiati i progenitori dei
computer, le macchine alle quali l’azienda d’Ivrea lavorava dalla metà
degli anni Cinquanta e che avrebbero aperto le porte all’informatica.
Una rivoluzione, suggellata dall’incontro fra due persone che si erano
avvicinate più volte nei decenni, si erano cercate e studiate, ma che si
erano solo sfiorate, nonostante la sintonia su che cosa dovesse fare
un’industria, su come dovesse esser costruita e dovesse riflettere un
certo tipo di organizzazione sociale.
Ma anche quel momento durò
pochissimo. Appena un contatto, prima che Olivetti morisse. Le Corbusier
continuò a lavorare per l’azienda di Ivrea insieme a Roberto, il figlio
di Adriano, e mise a punto il progetto di un grande stabilimento che
sarebbe dovuto sorgere a Rho, in una zona di campagna a nord-ovest di
Milano, lungo l’autostrada per Torino. Lo stabilimento non fu mai
costruito, ma restano i progetti, i disegni e i calcoli. E resta, come
un seme culturale, il dialogo a distanza di due intelligenze
novecentesche che credono nell’innovazione, nel senso di comunità che
parte dalla fabbrica e si estende a un territorio e a una città
concepiti sulla misura dell’uomo.
Questa avventura è raccontata da
Silvia Bodei in un libro che esce da Quodlibet e che s’intitola Le
Corbusier e Olivetti. La Usine Verte per il centro di calcolo
elettronico (Bodei ha studiato i documenti della Fondazione Adriano
Olivetti, dell’Archivio storico Olivetti e della Fondazione Le
Corbusier). La Usine Verte è la “fabbrica verde” di cui Le
Corbusier
parla in un libro del 1945,Le trois établissements humains, che le
olivettiane Edizioni di Comunità pubblicano nel 1961 (I tre insediamenti
umani). L’architetto, così sensibile alla “società macchinista”,
immagina che alla “fabbrica nera”, simbolo di una fatica alienante, si
sostituisca la “fabbrica verde”, «che ristabilirà intorno al lavoro le
“condizioni di natura”». Per cui «sole, spazio, verde, apporteranno qui,
come nei quartieri residenziali, le influenze cosmiche, la risposta al
respiro dei polmoni, le virtù dell’aria, come la presenza di
quell’ambiente naturale che accompagnò la lunga e minuziosa elaborazione
dell’essere umano». È il modello di fabbrica che concepisce Olivetti.
Per
Olivetti non è una scoperta che matura sul finire della vita. L’idea di
una fabbrica che incorpori il paesaggio circostante e che contribuisca a
creare nuovo paesaggio è costante lungo gli anni Trenta e poi negli
anni Cinquanta. Dagli oggetti prodotti in serie – le calcolatrici, le
macchine per scrivere – fino alla pianificazione di una regione,
Olivetti traccia un assetto sociale fondato sullo spirito comunitario,
che procede dal design della portatile MP1 (Aldo Magnelli), della
Lettera 22 (Marcello Nizzoli) o dell’elaboratore Elea 9003 (Ettore
Sottsass), all’urbanistica. E nella catena la fabbrica è un punto di
cerniera. Questo pensiero sorregge l’incarico a Luigi Figini e Gino
Pollini di ampliare lo stabilimento di Ivrea, fino ai nuovi edifici di
via Jervis, è replicato invitando Ignazio Gardella a realizzare la
mensa, e continuato con le case per gli impiegati (ancora Figini e
Pollini) e con le altre abitazioni (Nizzoli e Annibale Fiocchi). La
catena – qui accennata per grandi linee – prosegue con la pianificazione
territoriale della Val d’Aosta, del borgo rurale La Martella a Matera
(Ludovico Quaroni, Federico Gorio, Piero Maria Lugli e altri), del
quartiere romano di San Basilio (Mario Fiorentino).
Già negli anni
Trenta, comunque, il riferimento a Le Corbusier è costante. Il pan de
verre, le grandi pareti vetrate adottate da Figini e Pollini recano la
matrice del maestro svizzero e traducono il principio della trasparenza
sociale, capace, scrive Bodei, «di dare un’immagine di dignità al lavoro
operaio e comunicazione continua con il contesto e il paesaggio
circostante». Comunicazione continua che ispira, vent’anni dopo, lo
stabilimento di Pozzuoli, progettato da Luigi Cosenza e raccontato da
Ottiero Ottieri in Donnarumma all’assalto.
«Così di fronte al golfo
più singolare del mondo», dice Olivetti facendo risuonare l’eco di Le
Corbusier, «questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, nel
rispetto della bellezza dei luoghi, e affinché la bellezza fosse di
conforto nel lavoro di ogni giorno».
Sulle iniziative di Le Corbusier
in Italia si è svolta una grande mostra al Maxxi di Roma alla fine del
2012 (curata da Marida Talamona) e dei rapporti fra Olivetti e il
progettista si sono occupati Giorgio Ciucci e Paolo Scrivano. Silvia
Bodei approfondisce l’indagine. Nel 1934 sono documentati i primi
contatti fra l’architetto e l’imprenditore che vorrebbero costruire
fabbriche non alienanti in territori che siano spazi di comunità. I due
sembra si scambino colpi di fioretto. Le Corbusier, sapendo
dell’intenzione di Olivetti di realizzare un quartiere per i dipendenti,
«con grande disinvoltura e autorità», sottolinea Bodei, si propone di
essere lui il progettista. Ma – è la replica di Olivetti – sono stati
già designati Figini e Pollini, che Le Corbusier conosce bene e dai
quali è considerato un nume tutelare. Due anni dopo Le Corbusier e
Olivetti s’incontrano a Ivrea per visitare l’area dell’intervento. Le
Corbusier insiste: avanza una serie di obiezioni a Figini e Pollini,
vuole avere comunque un ruolo in quel progetto. Ma la resistenza dei due
giovani architetti, pur di fronte al venerato maestro, è ferma. E
Olivetti è d’accordo.
Seguirà un silenzio lungo quasi vent’anni. Nel
1953 Le Corbusier si rifà vivo con l’ingegnere di Ivrea, vuole importare
nel proprio studio i metodi comunitari olivettiani. Adriano è intanto
impegnato più di prima sul fronte urbanistico (dal 1950 presiede l’Inu,
l’Istituto nazionale di urbanistica), le Edizioni di Comunità pubblicano
Lewis Mumford. E inoltre procede con straordinaria efficacia la
sperimentazione sui calcolatori elettronici. Nel 1957 vengono realizzati
i primi elaboratori (Elea 9001 ed Elea 9002) e l’anno successivo, sotto
la guida di Mario Tchou, nasce l’Elea 9003, primo calcolatore al mondo
interamente transistorizzato. L’Olivetti è diventato un gigante in
continua espansione. Ed è in questo contesto che viene redatto un
documento, di cui c’è solo una versione dattiloscritta,
intitolatoRagioni che dispongono a favore della scelta dell’Arch. Le
Corbusier per la progettazione del nuovo stabilimento elettronico
Olivetti. Il testo, spiega Bodei, «mette in evidenza che l’opera
dell’architetto è stata la principale fonte d’ispirazione nella
realizzazione degli stabilimenti dell’impresa dal 1936 in poi». E questo
sia per la filosofia generale, sia per i dettagli progettuali.
L’incarico
viene affidato a Le Corbusier, che il 10 febbraio del 1960 scrive ad
Adriano ringraziandolo e confermandogli che lo appassionano «i temi
relativi alla civiltà macchinista», soprattutto quando sono fondati «sul
valore umano e sul binomio Uomo- Natura e finalizzati alla ricerca
dell’armonia». Sembra di sul bordo di un futuro radioso. O di un
precipizio. Il 27 febbraio Olivetti è ucciso da un infarto mentre un
treno lo porta in Svizzera. Le Corbusier prosegue lo stesso il lavoro,
ma nel 1961 Mario Tchou muore in un incidente stradale, per alcuni
misterioso, e nel 1964 l’Olivetti è costretta a cedere il ramo
elettronico alla General Electric. L’azienda di Ivrea e l’Italia perdono
il primato conquistato. E dello stabilimento di Le Corbusier restano i
disegni, il fermento culturale e molto rammarico.
L’utopia di Olivetti e Le CorbusierFabbrica a misura d’operaio, ambizione sfumata negli Anni 60
di Vittorio Gregotti Corriere
L’utopia di Olivetti e Le CorbusierFabbrica a misura d’operaio, ambizione sfumata negli Anni 60
di Vittorio Gregotti Corriere
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