Claus Offe: L’Europa in trappola, il Mulino, pp.100, euro 10
Risvolto
Come uscire dalla crisi? Paradossalmente le soluzioni sono note e, in
linea di principio, riconosciute da tutti: da un lato la mutualizzazione
del debito, dall’altro una spinta alla competitività dei paesi
periferici attraverso una riduzione del costo del lavoro. Entrambe
misure «inaccettabili» per gli elettori che, nei rispettivi paesi,
dovrebbero approvarle. Un vicolo cieco? Forse no, se riuscissimo a
trovare il senso di una solidarietà europea concepita come fare qualcosa
non per il bene dell’altro, ma per il bene di tutti. Occorre costruire –
nella cultura, nella società, nella politica – il soggetto di questo
bene comune, questo «noi europei» che ancora non siamo.
Antonio Carioti La Lettura
Il codice bloccato della sovranità nazionale
Quando ciò che è necessario è al tempo stesso impossibile,
scatta una trappola perfetta. È quella che Claus Offe descrive in un
breve, brillante saggio intitolato, appunto, L’Europa in trappola
(il Mulino, pp.100, euro 10). Ma questa coincidenza di necessità
e impossibilità non dovrebbe celare il fatto che esse si collocano
su due piani distinti. Per uscire da una crisi nel cui orizzonte
è compreso anche un catastrofico sfaldamento dell Unione europea
sarebbe necessario, secondo Offe, ridurre gli squilibri e le
divisioni che la percorrono attraverso una «mutualizzazione del
debito su larga scala e a lungo termine», per esempio attraverso
l’emissione di eurobond, da una parte, e ottenere una crescita di
competitività attraverso l’adeguamento del costo del lavoro nei
paesi periferici, dall’ altra. Questa necessità si situa, dunque,
sul piano dei mercati e della competizione globale.
Tra noi e loro
L’impossibilità è invece quella di otttenere per via democratica
che questo si realizzi. E cioè che i cittadini dei paesi più forti
accettino di farsi carico di un debito «europeizzato», rinunciando,
in nome dell’interdipendenza continentale, a un vantaggio
contingente esposto a evidenti rischi di crollo, nonché di imporre
alle popolazioni dei paesi più deboli un ulteriore abbassamento dei
livelli di vita in nome della competitività. L’impossibilità si
situa dunque, tra miopia egoistica e resistenza sociale, sul piano
della politica democratica. Per dirla altrimenti la politica
democratica è l’«impossibile» della competizione sul mercato
e viceversa. Sta tutto qui il mistero di quella «Europa politica»,
capace di fronteggiare i vincoli imposti dalla dottrina
liberista, che non ha mai visto la luce. Questa contraddizione
rende assai problematica l’idea, sostenuta da Offe pur senza
nasconderne le enormi difficoltà connesse con l’orizzonte nazionale
entro cui agiscono le forze politiche, che un processo di
«illuminazione» dei cittadini europei riesca a rimuovere quella
distinzione tra «noi» e «loro», tra le «virtù operose» del nord e il
«consumo parassitario» del sud che lavora alla disgregazione
dell’Unione europea. Senza una politica capace di opporsi con
decisione alle imposizioni della rendita finanziaria, che
prospera, appunto, grazie agli squilibri e alle divisioni,
necessità e impossibilità continueranno a coesistere e a
produrre condizioni di paralisi politica e di concorrenza tra gli
stati membri. Ma lo spazio di una siffatta politica non può che
essere quello dell’Europa, quello di un punto di vista
sovranazionale, opposto alla crescente nostalgia per gli
Stati-nazione.
Tuttavia la costruzione europea resta politicamente ostaggio
delle sovranità nazionali. Ne è un chiaro esempio quel tavolo
diplomatico intergovernativo che è il Consiglio europeo. A loro
volta le sovranità nazionali sottostanno ai vincoli comunitari
che i rapporti di forza tra i diversi paesi hanno prodotto e che
riproducono così una asimmetria e una gerarchia di fatto tra le
sovranità nazionali stesse. È quanto di più distante si possa
immaginare da un processo democratico di integrazione, per non
parlare di federalismo. Qui sta il problema, intorno al quale da
Ulrich Beck a Jurgen Habermas cresce l’allarme, dell’«Europa
tedesca». Non è un mistero che Berlino abbia tratto i maggiori
vantaggi dal contesto europeo, dall’architettura dell’Unione, dalle
sue lacune e dagli errori stessi commessi nel corso della sua
edificazione. Soprattutto dall’aver configurato quello che doveva
costituire uno spazio di cooperazione come uno spazio
concorrenziale in cui il surplus degli uni comporta il deficit
degli altri. Questa constatazione spinge Offe a sostenere la
seguente posizione: «quanto più un attore (uno stato membro e la sua
economia) ha beneficiato (grazie a tassi di interesse più bassi
e tassi di cambio esterni dell’euro più favorevoli) degli errori
commessi collettivamente, tanto più dovrebbe concorrere all’onere
di compensare chi ha maggiormente sofferto di quegli errori». Si
tratta non solo di un imperativo morale – aggiunge Offe – ma anche di
un concreto interesse di lungo termine a salvaguardare un accordo
che ha arrecato al paese o ai paesi «vincenti» tanti vantaggi. Si
parla, è chiaro, della e alla Germania, cui spetterebbe la
«maggiore responsabilità correttiva» degli squilibri che
affliggono il veccio continente. Fatto sta che gli «errori» e le
«distrazioni» sono piuttosto scelte consapevoli e caparbiamente
perseguite dalle oligarchie finanziarie e dai catechismi
economici adottati dai governi degli stati membri dell’Unione. Le
cui classi dirigenti sono assai poco propense a rivedere dei
principi che regolano i rapporti di classe e la distribuzione della
ricchezza entro gli stessi confini nazionali. Non si può
pretendere alcuna lungimiranza né dalle forze politiche che
vivono opportunisticamente dell’immediatezza del consenso e del
sostegno di poteri forti, né da una dottrina, quella del liberismo,
che si considera eterna e priva di alternative. Le une e l’altra
vivono nella dimensione di un presente che non può fare altro che
riprodursi nei medesimi termini.
Il necessario impossibile
Per uscire da questa impasse, dall’«impossibilità del necessario», servirebbe una netta affermazione della ratio sovranazionale
sull’ottica nazionale e sempre più pericolosamente
nazionalista. Ossia uno scarto dell’agire politico dal codice
«nazione vs. nazione» al codice «classe sociale vs.
classe sociale». Per illustrare in maniera chiara e inequivoca
questo scarto Offe ricorre al seguente esempio: «due tedeschi, uno
dei quali minacciato dalla disoccupazione, hanno probabilmente meno
in comune, sul piano degli interessi socioeconomici, di due
europei minacciati dalla disoccupazione, uno dei quali tedesco».
Non ci vuol molto a cogliere in questa formulazione la
rivendicazione di un punto di vista internazionalista e di
classe. Laddove questo «in comune» tratteggia un concetto di
«solidarietà» non più fondato su un principio etico, ma sul
riconoscersi collettivamente entro una condizione negativa che
deve essere rovesciata. Esistono molteplici strumenti di
divisione, talvolta ricatti, talaltra promesse, efficaci nel
dividere le vittime della crisi nei diversi paesi e unire, al
contrario, i suoi beneficiari. Ma vi sono anche delle evidenze ben
percepibili. Per esempio il fatto che il surplus commerciale
della Germania non vada affatto a finire nelle tasche dei lavoratori
tedeschi, elevandone il livello di vita e di consumo, magari
a vantaggio di economie meno competitive, ma ad ingrossare
profitti e rendite finanziarie. Tuttavia è difficile
immaginare che il passaggio di «codice» auspicato dal sociologo
tedesco possa affermarsi attraverso una ripresa spontanea di
«illuminismo» politico. Più realisticamente è una rottura della
pace sociale nei paesi «vincenti» (dove non sono tutti a vincere)
così come nei paesi «perdenti» (dove non sono tutti a perdere) la sola
chance per riequilibrare e democratizzare la costruzione
europea. Cominciando dal demolire riti e miti di unità nazionali in
evidente precipizio verso chiusure identitarie e nazionalismi
confliggenti.
Nessun commento:
Posta un commento