martedì 18 febbraio 2014
Sennet sulle nuove enclosures urbane
Le città insensibili
Quei ghetti che non vediamo nelle metropoli della solitudine
Perché la paura del contatto con l’altro provoca la fuga dai quartieri “misti” E influenza sempre più i piani urbanistici
di Richard Sennet Repubblica 18.2.14
Nelle moderne forme urbane, in modo forse meno evidente, è assente
quell’esperienza che Guy Debord definisce “non rappresentabile”, cioè
quella mescolanza di popoli e di attività che possono far percepire
l’ambiente come sconosciuto, uno spazio problematico che porta una
persona a interrogarsi sul suo habitat. La città, al contrario, è
diventata una mappa sempre più chiara di funzioni distinte in spazi
segregati. Dal momento che queste divisioni, che sono burocratiche, non
producono stimoli, la nostra epoca si configura come quella in cui la
forma urbana non favorisce la vivacità dell’esperienza dei sensi.
In realtà, questa deprivazione sensoriale dovrebbe sorprenderci, visto
che il corpo è diventato un’icona della cultura moderna altamente
consapevole di sé. (...) Il corpo, oggi, è costantemente esplorato come
chiave per comprendere se stessi: le persone parlano di accettazione del
proprio corpo come passo per il raggiungimento della libertà personale.
Eppure, il nostro modo di costruire non contribuisce alla cultura della
consapevolezza corporea di sé. Visto come stanno le cose, potremmo
essere tentati di mettere sotto accusa quelli che appaiono solo come
costruttori di strutture asessuate e di spazi pubblici neutri. Gli
scrittori che pensano in termini di “corpo politico” dovrebbero
piuttosto trattare l’esistenza di spazi morti in una cultura
ossessionata dalla sensazione corporea come l’indizio di una più
generale dimensione culturale; forse l’ossessione somatica non è
esattamente quello che sembra. (...) Dare la colpa ai progettisti
professionisti per aver realizzato spazi morti è un po’ come sparare sul
messaggero che porta cattive notizie. In realtà, la cattiva notizia che
ci arriva dai portavoce dell’architettura è un’altra: e cioè che un
pubblico così avido di corpi fatti a pezzi, e di letture di argomento
sessuale – in cui si descrivono atti fino al più piccolo dettaglio
anatomico – possa sentirsi appagato da un corpo politico in cui impera
la passività.
Uno dei modi possibili di definire la passività dei sensi nella vita di
ogni giorno è “fastidio nel contatto”. A questo proposito, un paio di
incisioni realizzate da William Hogarth nel 1751 possono risultare
illuminanti per l’osservatore moderno. In Beer Street e in Gin Lane,
Hogarth cercava di rappresentare l’ordine e il disordine nella Londra
del suo tempo. Beer Street mostra un gruppo di persone sedute insieme a
bere boccali di birra in tutta tranquillità. Gli uomini si appoggiano a
vicenda le braccia sulle spalle e in alcuni casi compiono lo stesso
gesto anche con le donne. L’atto del toccare, in questa incisione,
mostra una condizione del vivere nella società: rappresenta l’ordine
sociale. Gin La ne raffigura invece una scena in cui non c’è contatto
fisico tra i corpi, dove ogni persona è catatonicamente ritirata in se
stessa e ubriaca di gin, dove la gente non ha consapevolezza fisica né
delle altre persone, né delle scale, né delle panchine o degli edifici
presenti nella strada. Questa mancanza di connessione fisica trasmette
l’idea hogarthiana di disordine nello spazio urbano.
Se oggi uno sconosciuto con una bottiglia di birra in mano vi si
avvicinasse per la strada e provasse a toccarvi l’avambraccio,
probabilmente fareste un balzo indietro per la paura - e così del resto
farei anche io. Il toccare è percepito più come una violazione che non
come un atto generatore di ordine. Questa paura del contatto fisico
trova espressioni diverse nell’ambiente costruito che ci circonda. Nel
decidere il percorso delle strade, per esempio, gli urbanisti cercano di
incanalare il traffico in modo da isolare lacomunità residenziale dal
quartiere degli affari, oppure, se il traffico attraversa zone
residenziali, fanno in modo da separare le aree ricche da quelle povere o
etnicamente diverse. Nello sviluppo della comunità, i progettisti
prevedranno la costruzione di scuole o di edifici residenziali nel cuore
della comunità stessa, piuttosto che ai margini dove le persone possono
entrare in contatto fisico con gli estranei. Sempre di più, le comunità
recintate e sorvegliate 24 ore su 24 sono presentate agli ipotetici
acquirenti come modello di vita ideale.
Dal punto di vista urbanistico, la paura del contatto si traduce in
paura del contatto fisico con gli estranei. È facile sentir parlare di
quanta capacità di sopportazione sia necessaria per gestire il contatto
con esseri umani “esterni”. Un modo più mirato per comprendere questa
paura è quello di risalire alle sue origini, rintracciabili
nell’evoluzione di un’altra esperienza corporea nello spazio: il
movimento.
Un importante punto di partenza per questa storia congiunta del contatto e del movimento è stata l’apparizione, nel 1628, del
De motu cordis del fisico William Harvey, un lavoro che analizza il
cuore presentandolo come una gigantesca macchina che pompa sangue in
tutto il corpo. Secondo Harvey, il meccanismo della circolazione è ciò
che permette al corpo di crescere e di rimanere sano fino alle sue
estremità inferiori – una visione che ha sfidato sia le vecchie credenze
mediche sul calore innato del sangue che quelle religiose sul cuore
come sede dell’anima. Questa nuova comprensione del corpo si è rivelata
rivoluzionaria, modificando non solo le pratiche dei medici ma anche
quelle di altre figure professionali.
Prima fra queste, la progettazione urbanistica. Gli urbanisti hanno
infatti adottato le scoperte di Harvey sulle virtù del movimento,
ritenendo che la circolazione desse vita al corpo politico urbano così
come al corpo umano. Tali convinzioni si sono quindi espresse nei piani
delle villes circulatoires del XVIII secolo, come Karlsruhe in Germania
e, in particolare, nel piano L’Enfant per Washington DC, elaborato da
Ellicott. Per descrivere le strade, i progettisti parlavano di vene e
arterie. La scoperta di Harvey che la circolazione del sangue unifica il
corpo in un sistema totale è stata adattata a una visione di coerenza
sistematica della città: l’insediamento più lontano lungo il perimetro
deve essere collegato al centro città attraverso ciò che l’urbanista
Manuel Castells chiama “lo spazio di flussi”. (...) Queste credenze sul
movimento sistematico nell’ambiente costruito hanno determinato una
rottura significativa con le vecchie credenze barocche sulle virtù del
movimento. Quando Papa Sisto V pianifica la Roma barocca, immagina il
movimento lungo le strade della città come se si trattasse di percorsi
verso destinazioni precise: le strade diventano vie di pellegrinaggio in
direzione dei sette luoghi sacri della Roma cristiana. Il Piano
L’Enfant per Washington, al contrario, non è pensato solo in termini di
pellegrinaggio verso i luoghi del potere. Non tutte le strade principali
sfociano infatti in edifici monumentali. Si tratta invece di una
visione più democratica, in cui le persone sono libere di muoversi
nell’intera città e non sono costrette a dirigersi ineluttabilmente
verso i luoghi e i santuari del potere.
È stato durante l’esplosione urbanistica del XIX secolo che i
progettisti hanno elaborato la discontinuità tra il movimento e lo
spazio e hanno continuato a usare il vecchio immaginario harveyiano
delle strade come arterie e vene. A poco a poco, però, il movimento ha
assunto una forma più direzionale: l’allontanamento dal centro è
diventato più importante del movimento verso il “cuore” della città. La
direzionalità è apparsa, ad esempio, nel grande piano stradale del
barone Haussmann, elaborato tra il 1850 e il 1860 per la città di
Parigi. Quando Robert Moses concentrava la sua pianificazione stradale
sul modo in cui lasciarsi alle spalle New York City con tutti i suoi
problemi, faceva leva sull’impulso tipico della grande espansione
urbanistica avvenuta all’epoca del grande capitalismo: quello di fuggire
dai centri di diversità della città, densi e incontrollati.
Velocità significava che la gente “perdeva il contatto” con il luogo:
questa non è solo una metafora. Perché in effetti le tecnologie della
velocità hanno de-sensibilizzato e placato il corpo in movimento. Alla
guida di un’automobile, il piede compie micro-movimenti, gli occhi si
spostano solo a tratti dalla strada che si ha davanti allo specchietto
retrovisore. La stessa velocità diminuisce la stimolazione sensoriale
dei luoghi che si vedono passare. Guidare è come guardare la
televisione, perché le rappresentazioni scorrono rapide davanti a un
corpo immobile, o in una posizione fissa per ore e ore come davanti allo
schermo del computer. In questa condizione, il contatto con gli altri,
in particolare il contatto con l’ignoto, il non programmato, si
affievolisce, e viene sostituito dalla mera visualizzazione dello
schermo. Il moderno corpo politico è segnato dalla perdita delle
capacità sensoriali causata dalla circolazione sempre più rapida di
beni, di servizi e di informazioni.
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