Nell’Italia dove la cultura vale zero euro
In un decennio sono crollati investimenti e consumi E in Europa siamo all’ultimo posto per la cura del patrimonio
SALVATORE SETTIS Repubblica 28 maggio 2014
Ultimi della classe in Europa. Questa l’impietosa conclusione di
un’accurata analisi delle spese in cultura nel periodo 2000-2011
condotta dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica della
Presidenza del Consiglio, che sarà presentata a Roma domani. La cruda
eloquenza dei numeri ci dice che l’Italia, che fino al 2009 spendeva in
cultura lo 0,9 % del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così
all’ultimo posto fra i 27 Paesi dell’Unione. Il 2012 conferma questo
dato terrificante.
Lieve
incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli
stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo. In Europa
l’Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno
33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%). Intanto altri
Paesi, dall’Olanda all’Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia,
investono nel settore oltre l’1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri
Paesi europei oscillano tra l’1 e l’1,5%. Tutt’altro che consolante la
spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito
7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%). Secondo dati del
2013, l’Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione
dei cittadini ad attività culturali: 8%, un dato davvero imbarazzante a
petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così
via.
La contrazione della
spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro
(siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011), ma
si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme.
Val d’Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le
altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che
colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario
storico dal centronord. Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e
fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime
dal colmare l’enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che
in alcune regioni (come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009
un forte crollo della spesa aggiuntiva. «Un ulteriore fattore di
differenziazione territoriale – scrive il Rapporto – è il ruolo assunto
dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni:
il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell’ambito del calo
della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance
», ma con scarsissimo beneficio per l’intero Mezzogiorno (con la
parziale eccezione della Campania), e una forte concentrazione nel
Centro-Nord. Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche
Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel
Nord, al 18 % al Centro, all’8 % al Sud: percentuale bassissima su una
spesa complessiva già assai ridotta, con effetti devastanti sul già
endemico squilibrio Nord-Sud.
«La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni
degli amministratori e dei politici – conclude il Rapporto – ma è al
tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di
restrizione della finanza pubblica». L’analisi delle dinamiche di
investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore
necessita un’offerta pubblica in grado di stimolare la
domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado
inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una
visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero
rispetto ad altre esigenze». Il Rapporto raccomanda «un solido
miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla
sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrati-
va»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell’ambito di una
governance unitaria»; l’accorta gestione delle politiche di coesione
«non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità
progettuale che richiedono»; infine, l’integrazione di risorse
pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale.
A quest’ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini
recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo
avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e
consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa
tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi. È
vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio
culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica,
stancamente ripetuta da finti esperti d’ogni colore, secondo cui
l’Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo), se poi
continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene. È
vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla
per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come
talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti
di ricerca e conoscenza territoriale, fase necessaria per
qualsivoglia “valorizzazione” che non sia vuota retorica e flatus
vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema
urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco
Tremonti- Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di
giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della
spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto
della coscienza condivisa che l’investimento nel settore, conforme
alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale
dell’orizzonte dei diritti, della costruzione dell’eguaglianza e della
dignità della persona.
Il
ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del
patrimonio culturale come “petrolio” d’Italia, e giustamente insiste
sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari
né manager , genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto
nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita
come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A
fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai
interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che
fallire. Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze
di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il
tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che
affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia?
Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l’anno di
tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i
servizi sociali potrebbero rifiorire.
SPESA IN CULTURA: ITALIA ULTIMA TRA I PAESI EUROPEI
159 29-05-2014 il sole 24 ore 12
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