venerdì 30 maggio 2014

Tradotto "Un'estate con Montaigne"

Leggi anche qui

Antoine Compagnon: Un’estate con Montaigne, Adelphi, pagg. 140 euro 12

Risvolto
Quando, nel 2012, il direttore di un’emittente radiofonica propone ad Antoine Compagnon di parlare dei Saggi di Montaigne in una lunga serie di trasmissioni quotidiane della durata di pochi minuti, all’illustre professore del Collège de France l’idea appare subito quanto meno stravagante. Il periodo di programmazione (dall’inizio di luglio alla fine di agosto) e l’orario (intorno a mezzogiorno) sembrano decisamente più adatti ai bagni di mare che non all’ascolto di lezioni su un grande classico della letteratura e del pensiero. La sfida è così arrischiata, e allettante, che Compagnon non osa tirarsi indietro. E il risultato è clamoroso: le trasmissioni ottengono ascolti sbalorditivi, il libro che ne raccoglie i testi, pubblicato un anno più tardi, risulta tra i più venduti dalla stagione, e i corsi di Compagnon al Collège de France registrano un’affluenza inusitata. Ma tanto successo ci apparirà tutt’altro che sorprendente non appena ci inoltreremo nelle pagine di questo incantevole vademecum, dove Compagnon, coniugando leggerezza e profondità, attraverso il commento a quaranta brevi passi dei Saggi ci condurrà all’interno di un’opera senza tempo come i temi di cui discorre, le cose della vita: dall’amore all’amicizia, dalla morte alla vanità, dalla bellezza alla malattia.


“Vi racconto Montaigne nuova star della radio”

di Anais Ginori Repubblica 29.5.14



PARIGI. Antoine Compagnon attraversa una serie di porte blindate con codici di accesso per arrivare nel suo ufficio. La ristrutturazione del Collège de France ha trasformato il piano in cui lavorano i professori in un luogo che assomiglia più a una banca che non a un tempio della ricerca accademica. «L’edificio in apparenza è rimasto uguale, ma dentro è irriconoscibile per chi, come me, lo frequentava da studente». Compagnon, 64 anni, veniva qui a sentire Roland Barthes, di cui poi è diventato amico, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault. Oggi tanti studenti, ma anche semplici curiosi, entrano nell’antica istituzione del quartiere latino per ascoltare lui.
Il ciclo di lezioni intorno a “Guerra e letteratura”, concluso a febbraio, ha riempito l’anfiteatro e altre due sale in cui la lezione veniva trasmessa sul grande schermo; le registrazioni sono state poi scaricate da centinaia di persone sul web. Figlio di un generale, Compagnon ha studiato al Politecnico per diventare ingegnere, prima di convertirsi alla storia della letteratura. Timido e appassionato, insegna per metà dell’anno alla Columbia University. È un accademico che sa sorprendere: in gioventù ha firmato un romanzo erotico ambientato in Italia, Ferragosto , e ha dato voce agli intellettuali conservatori nel saggio Les Antimodernes . Noto come uno dei maggiori specialisti di Proust e Montaigne, ha conquistato un’improvvisa popolarità con un libricino che ha scalato le classifiche in Francia e che ora è pubblicato da Adelphi. Un’estate con Montaigne (traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Lorenza Di Lella) all’inizio era una trasmissione radiofonica in quaranta puntate sui Saggi, l’opera monumentale del filosofo umanista.
Lei ha tentato di sfatare alcune leggende. La prima: Montaigne era un eremita?
«I Saggi vengono scritti in un periodo in cui Montaigne ha deciso di ritirarsi dalla vita pubblica. Ma è importante sapere che, prima e dopo, ha partecipato a molti avvenimenti che hanno marcato la società. È stato magistrato e mediatore tra Enrico III e Enrico di Navarra, futuro Enrico IV, aprendo la strada per l’Editto di Nantes. Montaigne non esprime solo un pensiero contemplativo, ma anche politico. È stato sindaco di Bordeaux. Nella sua esistenza, cambia più volte il rapporto tra l’ otium, l’ozio, allora qualità essenziale, e il negotium, la vita attiva che dal Rinascimento in poi prevale nella scala sociale. Montaigne si trova in uno snodo tra due civiltà».
Perché Montaigne non può essere considerato uno scrittore simbolo dell’epoca moderna, come lei suggerisce nel libro?
«La sua soggettività, il suo Io narrante, è profondamente moderno. Ma dal punto di vista della filosofia della Storia, Montaigne non crede nel Progresso. È convinto che le conquiste tecniche e scientifiche non portino miglioramenti per la società. Nel libro cito anche i suoi primi commenti sulla scoperta dell’America. La decadenza, dice, sarà accelerata sia per il Vecchio che per il Nuovo Mondo. Paradossalmente, il pensiero di Montaigne è forse più in fase con la nostra epoca. Si potrebbe dire che era già postmoderno».
Le guerre civili e di religione ne hanno segnato la riflessione?
«Montaigne ha trascorso l’età adulta circondato da conflitti civili, in cui scompare la differenza tra amici e nemici. Quello che scrive sulla sincerità è provocato dal tradimento della parola data, in un conflitto lacerante tra fede e fiducia. È in questo contesto che nasce anche l’amicizia con Étienne de la Boétie, fondamentale per la sua riflessione. Nei Saggi ci sono diversi capitoli sugli ostaggi, cosa piuttosto rara perché si tratta di un testo per lo più astratto, con pochi episodi reali».
L’aneddoto più famoso è il momento in cui Montaigne cade da cavallo. Cosa rende così importante questo racconto?
«Dopo la caduta, è svenuto per qualche minuto. È un episodio in cui Montaigne indaga già il legame tra anima e corpo, sogno e coscienza. Anticipa la soggettività moderna, per come è stata poi indagata da Descartes e da altri. L’aneddoto è anche uno spunto per parlarci della morte, tema che accompagna i Saggi. Montaigne ha rischiato di morire, ma ha perso conoscenza senza soffrire. La morte può essere dolce, spiega in un altro passaggio, come un vecchio dente che finisce per cadere».
Non è riduttivo proporre in pillole un così grande autore?
«Quando mi hanno proposto di parlare dei Saggi alla radio mi sono trovato di fronte a una doppia difficoltà. Avevo il problema concreto di come scegliere estratti rappresentativi del pensiero di Montaigne, avendo a disposizione solo qualche minuto, e l’obbligo di rivolgermi a migliaia di ascoltatori un po’ distratti, più occupati a prendere il sole in spiaggia che a interrogarsi su questioni filosofiche».
La seconda difficoltà?
«Temevo di cadere in una lettura moralista, dalla quale ho sempre cercato di tenermi a distanza. Montaigne è spesso ridotto in aforismi o in una sorta di breviario della felicità. Alla fine, questa doppia difficoltà mi è sembrata sufficiente a raccogliere la doppia sfida. Offre una lettura aperta a diverse interpretazioni. Ogni capitolo termina con una domanda. C’è una dimensione interrogativa nei Saggi che è la più convincente e attuale. I libri dovrebbero renderci perplessi, farci dubitare, e non fornirci risposte già pronte ».
La sfida era anche leggere alla radio, e poi pubblicare, i Saggi nell’edizione originale: un francese arcaico.
«Insegno Montaigne da quasi quarant’anni e sono convinto che sia preferibile mantenere l’edizione originale senza le traduzioni moderne. La perdita di senso è enorme, così come accade per la Divina Commedia. Montaigne era di madrelingua latino. Ha scelto di scrivere i Saggi in francese per rivolgersi a un vasto pubblico, soprattutto alle donne. Non voleva avere solo lettori eruditi. E a giudicare dal successo del mio libro, l’intenzione resta valida sei secoli dopo».
La sua attività accademica si divide principalmente tra Montaigne e Proust. Cos’hanno in comune?
«Sono uomini di un solo libro, i Saggi per Montaigne, la Recherche per Proust. Hanno lavorato alla loro opera omnia fino alla morte, senza poter mai mettere un punto finale. Entrambi hanno creato un genere a sé. Montaigne ha battezzato la saggistica, che si chiama così proprio per i suoi Saggi.
Proust ha mischiato per la prima volta romanzo, filosofia, saggio, creando un oggetto letterario unico. Le loro opere sono la somma della cultura di un momento storico, lo specchio di un’epoca. Volendo rintracciare degli elementi biografici, sia Montaigne che Proust avevano una madre ebrea. Alla fine, ho passato la mia vita tra due autori molto più simili di quel che si potrebbe credere».



Quanto è pop (e best-seller) un Montaigne in Francia
di Elisabetta Ambrosi il Fatto 30.5.14

Scena n. 1: spiaggia dell’Adriatico, rumore di bambini selvaggi, radiolina accesa su Juve-Milan, trofeo Berlusconi. Scena n. 2: Côte Azur, poetico rumore di onde, radiolina che trasmette una voce pacata che, in francese arcaico, parla di tristezza, crudeltà, codardia, educazione dei fanciulli, morte e persino cannibalismo. Sta tutta in un’immagine la differenza tra noi e la Francia. Perché se in Italia può succedere persino che il Pd vinca, non potrà di sicuro mai accadere quanto avvenuto oltralpe, nel paese delle biblioteche e dell’educazione alla lettura (e dove gli intellettuali sono portati in palmo di mano). E cioè che un professore della Columbia University, Antoine Compagnon, intrattenga per un’estate intera i radioascoltatori su una delle maggiori radio pubbliche francesi, France Inter, commentando ogni giorno qualche pagina degli Essais di Montaigne. E che la trasmissione – Une été avec Montaigne – diventi non solo popolare, ma si traduca in un omonimo libro che ha scalato le vette della classifiche vendendo oltre centomila copie e che ora esce anche in Italia per Adelphi (che per un decimo delle copie probabilmente farebbe carte false).
SE VI IMMAGINATE una trasmissione pop, tutta frizzi e lazzi, oppure qualcosa di scabroso, magari con la lettura dei passi in cui Montaigne si lamenta del suo pene piccolissimo, rimarrete delusi. Il guaio, si fa per dire, è che le quaranta puntate della trasmissione sono come minuscole lezioni universitarie. A tratti persino un po’ noiose. Come quando, ad esempio, commentando le riflessioni del filosofo francese sul cannibalismo, Compagnon spiega: “Gli indios sono selvaggi non nel senso che sono crudeli, ma perché vicini allo stato di natura”. Oppure quando, chiosando il capitoletto Des monstres et prodiges – dove Montaigne racconta il suo incontro con Marie, un ermafrodito che avrebbe scoperto di avere anche un membro virile dopo un intenso sforzo fisico – l’accademico nota, provocando qualche sbadiglio (ma non sopra le Alpi), che “non c’è migliore esempio di questo per descrivere i complessi rapporti che intercorrono tra mente e corpo”.
Come si spiega allora il successo di una trasmissione, e di un libro, su un filosofo cinquecentesco? “Forse, ipotizzo, perché Compagnon è un intellettuale atipico, estraneo al conformismo culturale di certa sinistra”, commenta lo scrittore Giuseppe Scaraffia, che ha scritto e condotto programmi culturali per la Rai. “Tra l’altro è l’autore di due cose che da noi lo farebbero subito sminuire: un romanzo erotico e un saggio sui grandi reazionari. In breve, da noi Dante continua a leggerlo Benigni, in Francia Montaigne lo legge e lo spiega un intellettuale fuori da schemi e schieramenti”.
“In Francia c’è molta più attenzione e rispetto per i prodotti culturali ed essere minoritari non significa essere privi di valore”, spiega a sua volta Marino Sinibaldi, ideatore e conduttore di Fahrenheit su Radio Tre. “Al contrario qui c’è una fondamentale ambiguità nella nostra divulgazione culturale. Abbiamo paura di fare una cosa alta perché i media italiani sono molto più restii ad accettarla. Così si paga volentieri il prezzo di apparire divulgativi, perché non farlo equivale a consegnarsi all’irrilevanza”.
INSOMMA Un’estate con Montaigne da noi sarebbe davvero un esperimento impensabile? “Noi stiamo provando a fare un esperimento non dissimile, attraverso Wiki Radio”, continua Sinibaldi. “Una puntata giornaliera che all’ora di pranzo, le due, racconta in modo narrativo un evento accaduto proprio nel giorno in cui si va in onda, dal colpo di stato in Cile alla nascita di Amnesty International”.
Più scettico, invece, Scaraffia. “Si potrebbe fare, in teoria, se non si pensasse subito solo agli ascolti, un accorgimento che si usa soltanto per i membri della parrocchietta e non per i poveri classici che, non facendo parte di nessuna lobby, sembrano non avere niente da dare in cambio. In pratica, mi permetto di dubitarne, almeno per il momento. Mentre vedo all’orizzonte qualche stridula imitazione di Compagnon fatta da qualche intellettuale molto impegnato a restare in riga”.



La sapienza (un po’ zen) di Montaigne
di Alessandro Piperno Corriere La Lettura 1.6.14

Montaigne è il santo patrono degli scrittori confidenziali. Avete presente i cantanti confidenziali: Sinatra, Bennet, Sammy Davis Jr.? Straordinari entertainer che cantano, recitano, dicono battute e, nel frattempo, trovano anche il tempo di confessarsi. Ebbene, gli scrittori confidenziali si comportano allo stesso modo. Sto pensando a Sterne, a Diderot, al Baudelaire dei Salons , a Sainte-Beuve e, per venire ai nostri tempi, a Bellow e Kundera.
Chi tra essi non si è ispirato, più o meno esplicitamente, a Montaigne?
La sua storia è esemplare. Impegnato in politica in anni di pestilenze e guerre di religione, a un certo punto della sua vita si seppellisce nella biblioteca del suo castello per dedicarsi unicamente alla meditazione e alla lettura. È da questa vertiginosa immersione in se stesso che vengono fuori i Saggi .
Montaigne è il primo grande moralista che non conosce la sentenziosità dei suoi epigoni. Per questo lo sentiamo così affettuosamente vicino. Ci piace il tono disinvolto, lo stile blasé che lui stesso definisce «indisciplinato, scucito, audace». Non sorprende che l’anno scorso un libro di Antoine Compagnon, che raccoglieva alcune lezioni su Montaigne scritte per la radio France Inter, sia diventato un bestseller in Francia. Una quarantina di brani commentati con maestria. Prelibati assaggi (è proprio il caso di dirlo) che pongono una serie di questioni più o meno capitali.
Antoine Compagnon è uno dei massimi critici francesi contemporanei. I suoi scritti proustiani hanno nutrito un’intera generazione di studiosi. A suo tempo, Il Demone della teoria mise ordine nel mare magnum della critica francese. I parigini sfidano le intemperie per seguire le sue lezioni al Collège de France su argomenti dotti come l’uso della preposizione «chez» nella Recherche proustiana.
I divulgatori sono pericolosi (così come, per ragioni inverse, lo sono gli ermetici oracolari); ma se c’è un autore che, a dispetto di certe schifiltosità accademiche, si presta alla diffusione parcellizzata — «in pillole», si direbbe oggi —, quello è Montaigne. E se c’è un critico che può permettersi un’operazione tanto arbitraria, beh, quello è Compagnon. Non a caso, dunque, Un’estate con Montaigne risulta un libro così felice.
Compagnon usa Montaigne in un modo non troppo diverso da quello in cui Montaigne usa i classici. Sebbene talvolta possa sembrarlo, Montaigne non è un erudito, tanto meno un pedante. Lui non chiede ai classici di essere istruito, più che altro, se ne lascia ispirare. L’uso dei classici non è passivo. È personale e arbitrario. Non sono i classici a cambiarci, siamo noi a cambiare i classici. O quanto meno, a renderli conformi alle nostre esigenze. Il libro di Compagnon ha il pregio di non attualizzare Montaigne. Dopotutto, parliamo di uno scrittore del Rinascimento. Un gentiluomo scettico e conservatore. Tuttavia Compagnon mostra come la sapienza universale di Montaigne si esprima nella capacità di sospendere il giudizio e di sospettare qualsiasi verità acquisita e classificata.
È autentica la modestia di Montaigne? Bah, ne conoscete di autentiche? Come nota Giacomo Debenedetti, l’understatement di Montaigne è, anzitutto, una scelta stilistica. Compagnon, d’altra parte, rincara la dose: la modestia è un modo di alzare le mani di fronte all’inaffidabilità di qualsiasi cosa. È patetico pensare di poter esercitare un qualche controllo sulle nostre vite. E, del resto, ci è impossibile dominare le passioni. In un curioso paradosso, questa consapevolezza drammatica nelle mani esperte di Montaigne può diventare rasserenante. «I mali dell’anima, consolidandosi, tendono a occultarsi: più si è malati e meno li si avverte. Ecco perché occorre portarli spesso alla luce e, con mano impietosa, metterli a nudo e sradicarli dal nostro petto».
Sono parecchi gli inquieti, i nichilisti, i disperati che hanno cercato nei Saggi , se non proprio consolazione, almeno un’oasi di pace: da Flaubert che, in una lettera a un’amica, consiglia di leggere Montaigne come terapia, a Zweig che, durante l’esilio, elegge Montaigne a inseparabile fratello. Per non dire di Gide, per cui Montaigne è una vera ossessione. Montaigne è utile soprattutto ai tormentati, i quali forse vedono in lui il fratello maggiore che ce l’ha fatta. Uno che è riuscito a esorcizzare la morte, a farsi carico dell’insensatezza del tutto, a dare gusto all’istante in fuga. Guai a scambiare tale savoir vivre per dabbenaggine o per insipienza. Montaigne conosce i suoi nemici. Con chi ce l’ha? Compagnon non ha dubbi: «Il bersaglio polemico di Montaigne sono gli agitatori, tutti quegli apprendisti stregoni che promettono alla gente un domani migliore». Per questo «è meglio che i potenti non si prendano troppo sul serio, che non aderiscano interamente alla propria funzione, che sappiano conservare un certo senso dell’umorismo e dell’ironia». Montaigne t’invita al distacco, ma non nel modo ottuso e radicale degli stoici. Il suo distacco non esclude intimità, comprensione, edonismo, ricerca di felicità. Montaigne comprende ciò che qualsiasi nevrotico ossessivo conosce bene: che la salute spirituale sta nella parzialità, nell’assenza di completezza, nella fuga dall’assoluto. «Coloro che pretendono di arrivare al fondo delle cose — scrive Compagnon sulla scorta di Montaigne — ci ingannano, perché all’uomo non è dato di conoscere il fondo delle cose. E la varietà del mondo è tale che ogni sapere è fragile e necessariamente opinabile».
Tempo fa, in un bel corsivo su «Il Foglio», Anna Maria Carpi si chiedeva come mai lei, a dispetto di tanti altri, non traesse alcuna consolazione dalla lettura di Montaigne. Un bellissimo articolo, nel quale Carpi nota giustamente come nei Saggi la disperazione sia stata semplicemente abolita, al pari di ogni slancio romantico. Per tutta risposta, sarei tentato di chiamare in causa certi passi in cui Montaigne lascia intravedere gli abissi in cui si dibatte. Ma sarebbe disonesto e fuorviante. Perché Anna Maria Carpi ha ragione: non c’è niente di più lontano da Montaigne dello slancio romantico, del perseguimento di ideali irrealizzabili. La sua coscienza è tutto fuorché infelice. Compagnon stesso scrive: «L’etica del vivere che Montaigne si prefigge è al tempo stesso un’estetica, un’arte di vivere nella bellezza. Saper cogliere il momento presente diventa un modo di stare al mondo, modesto, naturale, semplicemente e pienamente umano». Una delle sentenze più famose di Montaigne recita: «Quando io ballo io ballo, quando io dormo io dormo». Come a dire, io sono qui. Dentro la cosa che faccio. Non scrivo per pubblicare. Scrivo per scrivere. Non penso per avere risposte. Penso per pensare. La nostalgia è pericolosa, l’ambizione è pericolosa. Qualcuno potrebbe prenderla come una massima zen. Ma il punto è un altro: Montaigne, a differenza degli scrittori disperati che lo veneravano, sapeva come non prendere troppo seriamente la propria disperazione. 

Nessun commento:

Posta un commento