Un maestro della sinistra contemporanea. Nell'"Era dell'accesso" faceva passare il sistema del leasing come la fine della proprietà privata, mandando in brodo di giuggiole gli anticapitalisti più tonti; lo stesso avviene ora con i "commons". E' normale che in Italia abbia tutto questo successo [SGA].
Jeremy Rifkin: La società a costo marginale zero. L'internet delle cose, l'ascesa del «commons» collaborativo e l'eclissi del capitalismo, Mondadori
Risvolto
In "La società a costo marginale zero", Jeremy Rifkin sostiene che si sta affermando sulla scena mondiale un nuovo sistema economico. L'emergere dell'Internet delle cose sta dando vita al "Commons collaborativo", il primo nuovo paradigma economico a prendere piede dall'avvento del capitalismo e del socialismo nel XIX secolo. Il Commons collaborativo sta trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, schiudendo la possibilità a una drastica riduzione delle disparità di reddito, democratizzando l'economia globale e dando vita a una società ecologicamente più sostenibile. Motore di questa rivoluzione del nostro modo di produrre e consumare è l'"Internet delle cose", un'infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell'energia e Internet della logistica, che avrà l'effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del mercato. Il diffondersi del costo marginale zero sta generando un'economia ibrida, in parte orientata al mercato capitalistico e in parte al Commons collaborativo, con ricadute sociali notevolissime. Rifkin racconta come i prosumers, consumatori diventati produttori in proprio, generano e condividono su scala laterale e paritaria informazioni, intrattenimento, energia verde e prodotti realizzati con la stampa 3D a costi marginali...
In "La società a costo marginale zero", Jeremy Rifkin sostiene che si sta affermando sulla scena mondiale un nuovo sistema economico. L'emergere dell'Internet delle cose sta dando vita al "Commons collaborativo", il primo nuovo paradigma economico a prendere piede dall'avvento del capitalismo e del socialismo nel XIX secolo. Il Commons collaborativo sta trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, schiudendo la possibilità a una drastica riduzione delle disparità di reddito, democratizzando l'economia globale e dando vita a una società ecologicamente più sostenibile. Motore di questa rivoluzione del nostro modo di produrre e consumare è l'"Internet delle cose", un'infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell'energia e Internet della logistica, che avrà l'effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del mercato. Il diffondersi del costo marginale zero sta generando un'economia ibrida, in parte orientata al mercato capitalistico e in parte al Commons collaborativo, con ricadute sociali notevolissime. Rifkin racconta come i prosumers, consumatori diventati produttori in proprio, generano e condividono su scala laterale e paritaria informazioni, intrattenimento, energia verde e prodotti realizzati con la stampa 3D a costi marginali...
Jeremy Rifkin nel regno fatato della buona vita
Festivaletteratura. Il sogno di una pacifica eclissi del capitalismo. «La società a costo marginale zero», il nuovo libro di Jeremy Rifkin che sarà presentato oggi al meeting letterario di Mantova
Benedetto Vecchi, 6.9.2014 il Manifesto
In una ipotetica galleria degli imprenditori che hanno sviluppato una qualche forma di innovazione, un posto inaspettato, e certamente non previsto dall’economista Joseph Shumpeter che pure alla figura dell’imprenditore ha assegnato un ruolo centrale nell’analisi del capitalismo, va di diritto a Jeremy Rifkin. Lo studioso statunitense non opera nel settore automobilistico, né in quello energetico; e neppure nell’high-tech, nella chimica, nel tessile e nella logistica. È un ibrido tra un consulente e uno studioso, che è riuscito, nella sua oramai trentennale attività, a sviluppare una piccola, agile e redditizia impresa culturale.
Rifkin, infatti, è un imprenditore di se stesso. Scrive libri, tiene conferenze e svolge consulenze per imprese e istituzioni pubbliche attorno ai trend sociali e economici che caratterizzano le società capitaliste. Ha annunciato la «fine del lavoro», irreversibili cambiamenti climatici, la crisi energetica con il conseguente sviluppo dell’energia all’idrogeno, il solare, il fotovoltaico e le biomasse, prospettando, ogni volta, trasformazioni che non sono pensabili se si rimane vincolati ai paradigmi dominanti. Ad ogni libro ha invitato il potere costituito a prendere atto che il mondo così come era stato «formato» era sul ciglio di una rivoluzione che avrebbe cambiato stili di vita, attività economiche, sistemi politici. Poco importava se le sue previsioni e i trendche metteva al centro della sua attività non sempre, anzi quasi sempre non avevano lo sviluppo prospettato. Alle critiche che accompagnano le sue analisi, Rifkin risponde che l’errore riguardava il tempo stabilito affinché si realizzasse la «rivoluzione» annunciata o che non aveva previsto fattori intervenuti successivamente, che non inficiavano le sue previsioni, perché quei fattori avrebbero reso più radicali le trasformazioni ipotizzate.
In una ipotetica galleria degli imprenditori che hanno sviluppato una qualche forma di innovazione, un posto inaspettato, e certamente non previsto dall’economista Joseph Shumpeter che pure alla figura dell’imprenditore ha assegnato un ruolo centrale nell’analisi del capitalismo, va di diritto a Jeremy Rifkin. Lo studioso statunitense non opera nel settore automobilistico, né in quello energetico; e neppure nell’high-tech, nella chimica, nel tessile e nella logistica. È un ibrido tra un consulente e uno studioso, che è riuscito, nella sua oramai trentennale attività, a sviluppare una piccola, agile e redditizia impresa culturale.
Rifkin, infatti, è un imprenditore di se stesso. Scrive libri, tiene conferenze e svolge consulenze per imprese e istituzioni pubbliche attorno ai trend sociali e economici che caratterizzano le società capitaliste. Ha annunciato la «fine del lavoro», irreversibili cambiamenti climatici, la crisi energetica con il conseguente sviluppo dell’energia all’idrogeno, il solare, il fotovoltaico e le biomasse, prospettando, ogni volta, trasformazioni che non sono pensabili se si rimane vincolati ai paradigmi dominanti. Ad ogni libro ha invitato il potere costituito a prendere atto che il mondo così come era stato «formato» era sul ciglio di una rivoluzione che avrebbe cambiato stili di vita, attività economiche, sistemi politici. Poco importava se le sue previsioni e i trendche metteva al centro della sua attività non sempre, anzi quasi sempre non avevano lo sviluppo prospettato. Alle critiche che accompagnano le sue analisi, Rifkin risponde che l’errore riguardava il tempo stabilito affinché si realizzasse la «rivoluzione» annunciata o che non aveva previsto fattori intervenuti successivamente, che non inficiavano le sue previsioni, perché quei fattori avrebbero reso più radicali le trasformazioni ipotizzate.
L’Internet delle cose
La figura di imprenditore che «incarna» più che consegnare la produzione teorica legata a un contingenza senza Storia alla critica roditrice dei topi, continua ad acquisire visibilità, consentendo a Rifkin di essere il gestore di una impresa della conoscenza che fa buoni profitti. I motivi del suo successo sono da ricercare nella indubbia capacità di «annusare» l’aria che tira e di offrire prodotti che, grazie a uno spericolato movimento dialettico, riproducono e contribuiscono, allo stesso tempo, a plasmare lo «spirito del tempo». Di questa capacità è testimone il suo ultimo libro La società a costo marginale zero (Mondadori, pp. 485, euro 22) , che sarà presentato oggi al Festivaletteratura di Mantova (appuntamento alle 14.30 a Piazza Castello).
Il volume può essere considerato come un trattato riassuntivo della sua vita teorica. C’è appunto la fine del lavoro, il ruolo svolto dalle energie rinnovabili nel ridisegnare gli scenari sociali e urbanistici, la società dell’accesso come reinvenzione più che fine della proprietà privata a partire dai commons fisici e «immateriali», l’economia della collaborazione. Un insieme che porta Rifkin ad affermare che i costi per produrre un bene stanno arrivando vicini allo zero. Quella del prossimo futuro sarà una società dominata dall’«Internet delle cose». Come nel web la produzione di contenuti e di software ormai sono da considerare irrisori, dato che vedono all’opera la figura del prosumer, cioè del consumatore che è anche produttore di contenuti visto che è «connesso» sempre alla Rete, anche al di fuori dalla schermo la produzione di energie e di beni tangibili hanno visto una drastica e radicale riduzione grazie all’uso di tecnologie che eliminano gran parte del lavoro umano o perché consentono processi di autoproduzione.
La figura di imprenditore che «incarna» più che consegnare la produzione teorica legata a un contingenza senza Storia alla critica roditrice dei topi, continua ad acquisire visibilità, consentendo a Rifkin di essere il gestore di una impresa della conoscenza che fa buoni profitti. I motivi del suo successo sono da ricercare nella indubbia capacità di «annusare» l’aria che tira e di offrire prodotti che, grazie a uno spericolato movimento dialettico, riproducono e contribuiscono, allo stesso tempo, a plasmare lo «spirito del tempo». Di questa capacità è testimone il suo ultimo libro La società a costo marginale zero (Mondadori, pp. 485, euro 22) , che sarà presentato oggi al Festivaletteratura di Mantova (appuntamento alle 14.30 a Piazza Castello).
Il volume può essere considerato come un trattato riassuntivo della sua vita teorica. C’è appunto la fine del lavoro, il ruolo svolto dalle energie rinnovabili nel ridisegnare gli scenari sociali e urbanistici, la società dell’accesso come reinvenzione più che fine della proprietà privata a partire dai commons fisici e «immateriali», l’economia della collaborazione. Un insieme che porta Rifkin ad affermare che i costi per produrre un bene stanno arrivando vicini allo zero. Quella del prossimo futuro sarà una società dominata dall’«Internet delle cose». Come nel web la produzione di contenuti e di software ormai sono da considerare irrisori, dato che vedono all’opera la figura del prosumer, cioè del consumatore che è anche produttore di contenuti visto che è «connesso» sempre alla Rete, anche al di fuori dalla schermo la produzione di energie e di beni tangibili hanno visto una drastica e radicale riduzione grazie all’uso di tecnologie che eliminano gran parte del lavoro umano o perché consentono processi di autoproduzione.
Il movimento dei makers
Sul primo aspetto, Rifkin si limita a constatare che la tecnologia informatica non solo sta riducendo su scala planetaria il lavoro operaio e che tale riduzione ha cominciato a coinvolgere anche il «lavoro della conoscenza», della cura, della logistica e dei servizi a causa di software derivanti dall’Intelligenza artificiale. La seconda tendenza, invece, si basa sulla possibilità di produrre energia da soli (fotovoltaico, solare e bio masse) grazie al miglioramento dei componenti (pannelli, batterie per l’accumulo, materiali per la distribuzione dell’energia che riducono la dispersione energetica) e sulle ormai famose stampanti 3d, che hanno fatto ridere non pochi commentatori italiani, quando sono stati evocate maramaldescamente da Beppe Grillo.
Ma al di là delle esternazioni del guitto del populismo postmoderno in salsa italica, il «movimento dei makers» è una realtà che non può essere liquidata con una scrollata di spalle, perché rappresenta la diffusione virale di quell’attitudine altera e conflittuale verso i principi della proprietà intellettuale. E se per i contenuti «immateriali» questo significa rifiuto del copyright e dei brevetti, per i makers produrre in proprio coincide con una critica alla società delle merci che sarebbe sciocco relegare a folklore. Al di là della futuristica idea che sarà possibile sviluppare un dispositivo che, come accade nella serie di Star trek, produca dalla materia inerte tutto ciò che serve a vivere, tra i makers è forte la tensione ad autogestire la produzione e a prospettare soluzioni all’assenza di lavoro, come testimoniano alcune piccole imprese e il più diffuso movimento di recupero delle fabbriche dismesse.
L’aspetto poco convincente del libro di Rifkin non sta nell’elevare i prototipi (le sedie, le mura), costruiti con stampanti 3d o le esperienze di autogestione energetica su base locale, a elementi semplificativi di una sorgente società postcapitalista, dove l’economia di mercato è ridotto a un residuo del passato, mentre fiorisce l’economia della collaborazione. Rifkin la fa, cioè, troppo semplice, dato che prospetta un’evoluzione pacifica che vedrà l’insieme delle norme che regolano la produzione della ricchezza dissolversi come neve al sole.
Dire che la proprietà privata è un retaggio del passato, così come sostenere che il lavoro salariato può essere superato mettendosi in proprio sono desideri scambiati con la realtà. La realtà attuale, tra politiche di austerità, diffusione a macchia d’olio della disoccupazione, guerre feroci combattute per acquisire il controllo delle fonti petrolifere o di materie prime indispensabili per l’industria hightech, parla un altro linguaggio di quello tranquillizzante di Jeremy Rifkin. Un limite, quello di Rifkin, dovuto non solo al fatto che i suoi sono cattivi desideri, ma perché nel volume è rimosso il nodo degli assetti di potere e dei rapporti di forza che continuano ad assegnare alla proprietà privata e al lavoro salariato un potere performativo della realtà stessa. In altri termini, a Rifkin sfugge la dimensione del Politico: non arte della mediazione, come recita la vulgata dominante, ma un agire teso alla trasformazione, appunto, dei rapporti di forza.
Sul primo aspetto, Rifkin si limita a constatare che la tecnologia informatica non solo sta riducendo su scala planetaria il lavoro operaio e che tale riduzione ha cominciato a coinvolgere anche il «lavoro della conoscenza», della cura, della logistica e dei servizi a causa di software derivanti dall’Intelligenza artificiale. La seconda tendenza, invece, si basa sulla possibilità di produrre energia da soli (fotovoltaico, solare e bio masse) grazie al miglioramento dei componenti (pannelli, batterie per l’accumulo, materiali per la distribuzione dell’energia che riducono la dispersione energetica) e sulle ormai famose stampanti 3d, che hanno fatto ridere non pochi commentatori italiani, quando sono stati evocate maramaldescamente da Beppe Grillo.
Ma al di là delle esternazioni del guitto del populismo postmoderno in salsa italica, il «movimento dei makers» è una realtà che non può essere liquidata con una scrollata di spalle, perché rappresenta la diffusione virale di quell’attitudine altera e conflittuale verso i principi della proprietà intellettuale. E se per i contenuti «immateriali» questo significa rifiuto del copyright e dei brevetti, per i makers produrre in proprio coincide con una critica alla società delle merci che sarebbe sciocco relegare a folklore. Al di là della futuristica idea che sarà possibile sviluppare un dispositivo che, come accade nella serie di Star trek, produca dalla materia inerte tutto ciò che serve a vivere, tra i makers è forte la tensione ad autogestire la produzione e a prospettare soluzioni all’assenza di lavoro, come testimoniano alcune piccole imprese e il più diffuso movimento di recupero delle fabbriche dismesse.
L’aspetto poco convincente del libro di Rifkin non sta nell’elevare i prototipi (le sedie, le mura), costruiti con stampanti 3d o le esperienze di autogestione energetica su base locale, a elementi semplificativi di una sorgente società postcapitalista, dove l’economia di mercato è ridotto a un residuo del passato, mentre fiorisce l’economia della collaborazione. Rifkin la fa, cioè, troppo semplice, dato che prospetta un’evoluzione pacifica che vedrà l’insieme delle norme che regolano la produzione della ricchezza dissolversi come neve al sole.
Dire che la proprietà privata è un retaggio del passato, così come sostenere che il lavoro salariato può essere superato mettendosi in proprio sono desideri scambiati con la realtà. La realtà attuale, tra politiche di austerità, diffusione a macchia d’olio della disoccupazione, guerre feroci combattute per acquisire il controllo delle fonti petrolifere o di materie prime indispensabili per l’industria hightech, parla un altro linguaggio di quello tranquillizzante di Jeremy Rifkin. Un limite, quello di Rifkin, dovuto non solo al fatto che i suoi sono cattivi desideri, ma perché nel volume è rimosso il nodo degli assetti di potere e dei rapporti di forza che continuano ad assegnare alla proprietà privata e al lavoro salariato un potere performativo della realtà stessa. In altri termini, a Rifkin sfugge la dimensione del Politico: non arte della mediazione, come recita la vulgata dominante, ma un agire teso alla trasformazione, appunto, dei rapporti di forza.
Una radicale deregulation
Discorso difficile, certo, ma fin troppo evidente quando nel volume sono affrontati il tema dei commons e della proprietà intellettuale. Sul secondo aspetto, Rifkin ha un punto di forza dalla sua. Auspicare la formazione di un sistema misto dove il regime della proprietà intellettuale convive con la diffusione delle licenze creative commons non è molto distante da quanto sostiene l’organismo dell’Onu sulla «World Intellectual Property». Rifkin tuttavia non fa cenno al fatto che l’industria dei Big data è potuta prosperare grazie proprio a software open source.
Dettagli, forse, ma tutto diventa meno contingente se nel discorso sui commons viene ignorato il fatto che sono prodotti all’interno di un regime salariato. La riappropriazione dei commons non può quindi essere svolta senza la critica a quel regime, che ha una appendice nei sistemi politici. Il rischio con Rifkin è di trovarsi invischiati in una prospettiva di deregulation radicale, dove i commons più che espressione di una cooperazione produttiva collettiva sia l’esito di un individuo che sceglie sì di vivere in società, ma solo perché persegue con ostinazione il proprio benessere individuale. La società a costo marginale zero più che a un regno della libertà sembra avvicinarsi a una distopia dove la miseria del presente è elevata a sistema.
Per Rifkin l’Internet delle cose è la piattaforma contro la crisi
Tra i «prosumers», la conoscenza condivisa e il boom delle stampanti 3D il saggista scommette sull’abbattimento del costo marginale dei prodotti
11 ott 2014 Libero UGO BERTONE
L’economista Jeremy Rifkin ha una grande qualità: riesce a vedere, anche nel bel mezzo di una crisi che non offre per ora vie d'uscita, il bicchiere mezzo pieno. La conferma arriva dalla sua ultima opera, già best seller in Cina (400 mila copie vendute in poche settimane), La società a costo marginale zero, (Mondadori pp 402, euro 22) destinata a sicuro successo anche in Europa. Con pieno merito, perché il pensatore Usa non solo riesce a guardare oltre il braccio di ferro tra austerità e stimoli monetari che riempie, senza alcun frutto, le cronache della politica e dell'economia ma si cimenta, tra i primi, nella ricerca di una soluzione al morbo più pericoloso, la «stagnazione secolare«, ovvero una paralisi che minaccia la crescita ma ancor di più le prospettive delle nuove generazioni, sottoposte ogni giorno a messaggi sempre più drammatici: la miscela di concorrenza globale e rivoluzione digitale, che ha messo e metterà sempre più a rischio i posti di lavoro e ha ridimensionato i redditi dei lavoratori, rischio di mettere ai margini una quota crescente di cittadini. Così si spegne la merce più preziosa, ovvero la fiducia che spinge gli investimenti ed il lavoro, generando recessione e depressione.
Ma, ribatte Rifkin, il problema porta con sé la soluzione. Il mondo va già verso «il costo marginale zero della produzione». Le imprese, infatti, sono sempre alla ricerca di nuove tecnologie che incrementino la produttività e riducano il costo marginale di produzione di prodotti e servizi in modo da abbassare i prezzi, conquistare sempre più clienti e assicurarsi sufficienti profitti per i loro investitori. Ma in questo modo sta maturando un nuovo paradigma che riesce a portare il costo marginale praticamente vicino allo zero. Prendiamo, ad esempio, il caso dell'editoria: grazie all' elettronica uno scrittore può ormai mettere i propri libri ad un prezzo molto basso su Internet, scavalcando editori, stampatori, grossisti, distributori e rivenditori. Chi se ne avvantaggia? Amazon, si potrebbe rispondere pensando al potere contrattuale del colosso dell'e-commerce. Non è così, risponde Rifkin. «Dalle viscere della seconda Rivoluzione Industriale» scrive «sta prendendo forma una nuova, potente piattaforma tecnologica in grado di spingere a tappe forzate la contraddizione del capitalismo verso la fase finale: la fusione tra l’Internet delle telecomunicazioni, la neonata Internet dell’energia, i prodotti della stampa 3 D e l’Internet della logistica destinate a confluire nella grande infrastruttura intelligente del XXI˚ secolo, l'Internet delle cose».
Sembra un'utopia, ma non lo è. Basti pensare ai prosumers (che sta per consumers proattivi) che « hanno cominciato a produrre e condividere la propria musica attraverso i servizi di file sharing, i propri video su YouTube, le loro conoscenze su Wikipedia, le loro news sui Social Media e persino i propri e-book attraverso il web. il tutto praticamente gratis». Dall'economia della conoscenza alle attività manifatturiere o dei servizi il passo è più breve di quel che non si possa immaginare. Presto, scrive l'autore, l'economia permetterà a milioni di persone di creare e condividere la propria energia rinnovabile. Anzi, il futuro è già tra noi, anche in Italia. Pochi giorni fa Stmicrolectronics, la società italo-francese, ha annunciato di aver messo in commercio le prime board (4 già sul mercato, altre 6 arriveranno a fine anno) , ovvero schede da 10 a 20 dolalri l'una capaci di dialogare con Arduino, l'hardware italiano che consente agli artigiani digitali di produrre un po' di tutto, nel campo della robotica o degli oggetti intelligenti. Per intenderci Stm ha messo a disposizione delle botteghe artigiane i segreti dei sensori degli smartphone, iPad compresi. E' un buon esempio del confronto che si profila negli anni a venire, secondo Rifkin: da una parte i Big decisi a difendere i propri margini d i profitto, dall'altra la pressione dirompente di centinaia di milioni di prosumers. Espulsi ( o nemmeno presi in considerazione) da un sistema economico che non si rivela all'altezza di rispondere alle attese di qualità di vita dei cittadini.
Rifkin imbraccia la causa dell'uomo, ma non nasconde il rischio che le cose vadano in un altro modo. Torna d'attualità il conflitto drammatico che, tra il '700 e l'800, caratte-
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