Così ora sono diventato cittadino americano con la “macchia” del Pci
Sull’iscrizione
al partito negli Anni ’70-’80 un lungo interrogatorio Un anacronismo
mentre Obama rivoluziona la politica migratoria
di Federico Rampini Repubblica 21.11.14
NEW YORK Pochi giorni prima che Barack Obama annunciasse la nuova,
storica apertura all’immigrazione, ho ricevuto la cittadinanza
americana. A differenza dei cinque milioni di immigrati senza documenti,
a cui Obama ieri sera ha annunciato che non potranno più essere
espulsi, io sono diventato americano entrando dalla porta principale.
Avevo avuto la Green Card, residenza permanente, nel 2006. In base alla
legge, automaticamente dopo cinque anni maturavo il diritto a chiedere
la naturalizzazione (che non implica l’addio alla cittadinanza italiana:
Italia e Usa consentono la “doppia cittadinanza”). Cinque anni di Green
Card, e questa fabbrica di nuovi cittadini che è l’America, ti spalanca
le porte per sempre.
Con una piccola complicazione, nel mio caso. La mia procedura è durata
il doppio rispetto a quella dei miei figli. L’iter per ottenere la
cittadinanza è semplice. La documentazione sul tuo status d’immigrato
legale la spedisci per posta ordinaria. Lo U.S. Citizenship and
Immigration Service ti convoca entro poche settimane per le impronte
digitali e la fotoscansione dell’iride. Altra breve attesa, e arriva il
momento dell’“ interview”, il colloquio. Nel 99% dei casi è una
formalità di cinque minuti: un test elementare di lingua inglese, alcune
domande sulla Costituzione e lo Stato di diritto. Prima di arrivare al
colloquio, però, bisogna riempire un questionario. Come tutti i
candidati, ho dichiarato «di non avere evaso le imposte, non avere
commesso reati, non avere praticato la poligamia, il gioco d’azzardo
illegale, non essere un prostituto né uno sfruttatore di prostitute, non
essere un narco-trafficante». Né di essermi reso colpevole di
«genocidio, tortura, persecuzione religiosa, guerriglia armata». Poi la
domanda fatidica, per me. Sono mai stato iscritto a un partito
comunista? Dopo tanti “No”, una croce sul “Sì”.
Da quel momento la pratica ha avuto un iter diverso. I tempi si sono
fatti più lunghi. Ho superato l’esamino di inglese, Costituzione,
diritti-doveri del cittadino. Ma a quel colloquio ne è seguito un altro,
ben più approfondito. Stavolta non davanti a un semplice impiegato ma a
un dirigente, in una stanza separata. Il funzionario Hernandez, di
origine ispanica, trentenne. Molto cortese, ha cominciato a interrogarmi
sul mio passato comunista. Facile ricordare le date della mia
iscrizione al Pci: dal mio arrivo in Italia per l’Università (1974) alla
morte di Enrico Berlinguer (1984). Più difficile condensare la storia
di quegli anni e di quel partito. Spiegare che non eravamo bulgari, non
prendevamo ordini da Leonid Breznev. Che nelle contrapposizioni della
guerra fredda ci fu un “eurocomunismo”, uno scisma dalla Chiesa
sovietica. Che l’attuale presidente della Repubblica italiana
apparteneva a quel partito là, e tuttavia venne invitato a Washington
dal Dipartimento di Stato. Che Berlinguer disse di «sentirsi più al
sicuro da questa parte dell’Alleanza atlantica» (tra i mal di pancia
della base).
Tutto questo ho dovuto riassumerlo in modo comprensibile a un
funzionario pubblico trentenne, nell’America del 2014. Non tutto sulla
difensiva, sia chiaro. Alla domanda su cosa mi avesse «spinto a
diventare comunista», ho potuto spiegare: grosso modo le stesse
aspirazioni di giustizia sociale per cui Obama ventenne faceva il
militante di quartiere a Chicago. Hernandez prendeva appunti, faceva
domande, chiedeva precisazioni sulle date. Quando ho creduto di avere
finito, ha detto: «Lei è disposto a ripetere tutto questo sotto
giuramento? Significa che, in caso di falso, avrà commesso un reato». Ho
alzato la mano destra per il giuramento. Ho ricominciato daccapo. Lui
ha trascritto tutto. Ha stampato la mia deposizione, me l’ha fatta
rileggere e firmare. L’ha aggiunta ordinatamente a un grosso faldone sul
mio “caso”, che mi è apparso solo a quel punto nella sua dimensione:
chili di incartamenti.
Il 7 novembre alle 10 del mattino sono stato convocato per la Oath
Ceremony. Se ne svolgono in tutte le città d’America, ogni mese,
affollatissime. Nell’aula di tribunale della U.S. District Court, al
numero 500 della Pearl Street, Downtown Manhattan, eravamo in duemila
per il giuramento finale. Tanti ispanici, asiatici, africani.
Accompagnati dai familiari, coi vestiti della festa. La giudice ha fatto
un bel discorso: «Siamo una nazione di immigrati, mio marito ha
acquisito la cittadinanza da adulto come voi. Da oggi avete tutti i
diritti e tutti i doveri degli americani. Vi ricordo il più importante:
il diritto di voto, per far pesare la vostra volontà in questa
democrazia». In coro abbiamo pronunciato il giuramento. Applausi e
qualche lacrima.
Ho ripensato al mio iter un po’ più lungo, al suo anacronismo.
Burocrazie e tecno-strutture hanno le loro pesantezze, tendono a
combattere ancora la penultima o terzultima guerra. Oggi i pericoli più
seri per la sicurezza degli Stati Uniti non vengono da ex iscritti a
partiti comunisti scomparsi. Neppure, credo, da quello cinese:
l’indomani del mio giuramento partivo al seguito di Obama per Pechino.
Dove con la Cina ha raggiunto un accordo importante per la riduzione dei
gas carbonici. Un collega inglese, corrispondente dell’ Independent, ha
scherzato: «Ti hanno dato il passaporto Usa giusto in tempo, ora da
americano puoi chiedere l’asilo politico in Cina». No, da
italianoamericano, come adesso vengo definito, resto in ammirazione
verso questa fabbrica di cittadini unica al mondo. In cui Obama annuncia
un nuovo livello di apertura, cancellando l’incubo dell’espulsione
dalle vite di cinque milioni di onesti lavoratori.
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