Saggi. «Razza di classe», un volume collettivo sul razzismo negli Usa. La rivolta di Ferguson e in altre città svela drammaticamente i limiti della risposta «liberal» al razzismo di Stato e a quello che viene dal «basso»
Miguel Mellino, il Manifesto 26.11.2014
Ferguson è di nuovo in fiamme. Il verdetto del Grand Jury è arrivato: Darren Wilson, il poliziotto che uccise nell’agosto scorso il giovane africano-americano Michael Brown durante uno dei soliti controlli vessatori a cui vengono sottoposti ogni giorno migliaia di neri nelle città degli States, non sarà incriminato. Dai presidi e dalle mobilitazioni delle settimane scorse si è passati di nuovo alla rivolta; sintomo che buona parte della popolazione, e non solo di Ferguson, aveva già espresso la sua sentenza: omicidio, esecuzione, e non altro.
Quanto accaduto a Ferguson però non deve essere interpretato come un semplice episodio di violenza poliziesca che chiede giustizia, e nemmeno come un qualcosa di tipico soltanto della società americana, della sua storia particolare, della sua particolare struttura di classe. Le violenze razziste (istituzionali e non) che subiscono i neri di Ferguson, così come la realtà urbana profondamente segregata di questo sobborgo periferico di St. Louis, rimodellato negli ultimi anni dai processi di gentrificazione e di «accumulazione per spoliazione» di un capitalismo divenuto sempre più estrattivo, pur nella loro specificità americana, non appaiono poi così tanto diverse dalle logiche di comando del capitale ad altre latitudini.
Sono due delle conclusioni che si possono ricavare (sin dal titolo) da Razza di classe, un e-book uscito recentemente settimana fa a cura del collettivo Commonware. Si tratta di una raccolta di articoli e interviste in cui attivisti e intellettuali americani riescono a collocare in modo efficace i fatti di Ferguson entro una «genealogia lunga», sia in senso temporale (nella specificità della storia degli Usa), sia in senso spaziale (nei mutamenti del modo di accumulazione del capitale globale).
Macchina penale
La raccolta presenta alcune tesi comuni a tutti gli interventi. Le violenze quotidiane della polizia nei confronti dei giovani neri, messe in pratica attraverso la tecnica dello «stop and frisk» (fermo e perquisizione), vengono qui interpretate come un aspetto essenziale di una «guerra di classe» di bassa intensità condotta dallo stato contro quei gruppi e soggetti sociali divenuti mera «eccedenza», ovvero come uno degli strumenti di controllo sociale su quella parte del proletariato nero espulsa dal mondo lavoro e dalla sfera della società civile dopo il processo di ristrutturazione neoliberista. La violenza poliziesca viene a configurarsi qui, nella sua funzione minatoria, come una sorta di prosecuzione postfordista dei linciaggi, per ricordare la nota tesi di Angela Davis.
Tuttavia, la polizia viene vista soltanto come l’avamposto, insieme alle «scuole ghetto» e alle prigioni, di una «macchina penale repressiva» più estesa che, nella sua dialettica di controllo, oscillante tra abbandono (come nel caso dell’uragano Katrina) e incarcerazione di massa, deve essere interpretata come la risposta politica dello stato americano all’abolizione della schiavitù, al movimento dei diritti civili e del black power, ovvero alla minaccia posta dal lavoro nero libero e dalla mobilità del lavoro nero alla struttura di classe tradizionale della società americana, plasmata sul discorso coloniale della whiteness. Michael Brown, come tanti altri giovani neri e latinos, è stato inghiottito non da un poliziotto, ma dagli ingranaggi criminali della macchina americana della supremazia bianca.
Il testo dunque appare omogeno nel sollecitarci a pensare il razzismo come un vero e proprio «sistema», come un dispositivo centrale della stessa composizione di classe del capitalismo americano; e in quanto tale, ci viene precisato nell’introduzione, come un fenomeno che non riguarda unicamente gli apparati repressivi dello stato, ma la società intera: dalla scuola alle università, dal lavoro ai media, dallo spazio urbano al sistema penale. Ferguson non fa che mostrare la natura ideologica dell’ordine discorsivo dominante sul presunto divenire post-razziale degli Stati Uniti di Obama. Razza e razzismo sono strutture materiali, non solo simboliche.
È così che Razza di classe propone alcune considerazioni sulla natura del razzismo su cui occorre soffermarsi, se pensiamo alla povertà (ma anche a quello che possiamo chiamare in termini sartriani una sorta di «malafede collettiva») del dibattito italiano su questo argomento. Dal testo si evince con chiarezza quanto sia politicamente fuorviante considerare la violenza razzista come il prodotto di un «pregiudizio», di una «mancanza» o di un «deficit di cultura», per così dire, di cui sarebbero attraversati i (soli) soggetti razzisti (diversamente al resto della società illuminata). La forza delle interpellazioni razziste non sta nel pregiudizio, con buona pace del sociologo francese Pierre-André Taguieff. Ugualmente fuorvianti appaiono qui altri discorsi «progressisti» che ritornano ogni volta sulla scena pubblica italiana come i giusti corollari interpretativi di nuove aggressioni o violenze razziste: contrariamente a quanto pensano liberali e sinistra istituzionale, il razzismo non è un fenomeno che viene soltanto dall’alto, non è quindi legato soltanto alle istituzioni (alle forze dell’ordine, al meschino tornaconto dei politici di professione o alle politiche di controllo del lavoro o delle migrazioni), e non è nemmeno un fenomeno che emerge soprattutto nelle situazioni di povertà o di degrado, o in quartieri periferici disagiati o non belli dal punto di vista architettonico (come suggeriscono, per esempio, alcuni interventi di questi giorni a proposito dei fatti di Tor Sapienza a Roma).
Razza di classe ci induce invece a pensare il razzismo come un dispositivo di comando costitutivo del capitalismo moderno e delle sue modalità coloniali, sovrane e necropolitiche (e non solo biopolitiche) di amministrazione, controllo e produzione di territori, culture, saperi e popolazioni. Interessante appare qui la definizione di Ruth W. Gilmore riportata nel testo, secondo cui «il razzismo è la produzione e lo sfruttamento, legittimati in qualche modo dallo stato, di diversi gradi di “vulnerabilità a morte prematura” tra i diversi gruppi sociali, nell’ambito di geografie politiche distinte ma tuttavia densamente interconnesse».
Colonialismo globale
Il razzismo, dunque, non può essere considerato come un mero effetto secondario di altri processi: si tratta di un fenomeno che attraversa tanto la struttura di classe quanto l’ordinamento simbolico delle società statal-nazionali moderne, e cha ha avuto il suo «grado zero» nello sviluppo del colonialismo e della schiavitù, ovvero nella «colonialità» del potere capitalistico globale moderno. In quanto essenziale dispositivo moderno di gerarchizzazione (materiale e simbolica) della cittadinanza riguarda la produzione e gestione della società nel suo complesso. Ad essere razzializzati non sono solo gli «altri».
Quest’ultimo è un indispensabile punto di partenza per la costruzione di una pratica teorica e politica antirazzista davvero radicale. Anche perché le società europee non possono certo dirsi lontane da Ferguson: solo che qui la supremazia bianca si è storicamente iscritta nello stesso significante Europa durante l’espansione coloniale, mentre la funzione storica dei linciaggi viene affidata oggi non solo alla gestione poliziesca delle zone ad alta densità di popolazioni postcoloniali, ma anche alla violenza di Cie, Cara, Frontex, Triton e altri elementi delle politiche migratorie. Forse la macchina penale razzista europea andrebbe pensata come una risposta politica alla mobilità del lavoro migrante a partire dalla decolonizzazione in poi. Non è un caso che a porre la questione della razza e del razzismo sullo stesso territorio europeo siano state le lotte e le insurrezioni di gruppi e soggetti provenienti dalle ex-colonie.
Il testo sarà pubblicato nel sito www.commonware.org
Il nodo razziale di un Paese ancora fermo agli Anni 70
di Mario Platero Il Sole 26.11.14
Il giorno dopo, nel dibattito sulla sentenza di Ferguson e sugli incidenti di lunedì notte, ci sono tre tematiche dominanti su cui riflettere. Fra queste la componente economica e sociale è quella di cui si parla meno. Se ne dovrebbe parlare di più perché è alla radice del malessere che riesplode con puntualità preoccupante: se il tasso di disoccupazione americano è al 5,8%, quello per la popolazione nera è all’11,5% e per i teenager afroamericani arriva addirittura al 24%. Gli afroamericani poveri vivono ghettizzati, crescono in famiglie disfunzionali, in un ambiente dove prevale la cultura delle gang, della violenza e della droga.
Il fatto che ci sia un presidente afroamericano alla Casa Bianca e che molti neri siano ormai parte del “mainstream” e benestanti non ha cambiato un tessuto sociale che porta un poliziotto bianco a uccidere per paura un diciottenne disarmato. Con un interrogativo di fondo: come mai Barack Obama, il presidente afroamericano, ben conscio del “racial profiling” per un nero, per averlo provato lui stesso, non ha messo a punto un progetto economico e sociale per affrontare alla radice il problema razziale americano? Questo dovrebbe essere l'interrogativo di fondo su cui riflettere: perché Obama non dedica gli ultimi due anni del suo mandato a un progetto di emancipazione degli afroamericani?
Invece nei talk show si soffia sul fuoco della tensione. Il tema che prevale è la polemica sulla decisione del Gran Giurì di non incriminare Darren Wilson per l’omicidio di Michael Brown. Come ha detto con eloquenza Benjamin Crump, uno dei due avvocati della famiglia Brown, Mike è il simbolo della vulnerabilità dei giovani afroamericani a Los Angeles, a New York, a Cleveland, a Philadelphia e in molte altre grandi città americane dove l’essere neri equivale a essere colpevoli. Città dove giovani come Mike muoiono ogni giorno uccisi dalla polizia solo perché sono neri o perché abitano in ghetti degradati. L’ultimo caso è di due giorni fa a New York riguarda Akai Gurley, 28 anni, andava a farsi le treccine, aveva preso le scale, ma un poliziotto, una matricola, lo ha visto all’improvviso si è spaventato, aveva il dito sul grilletto e ha sparato accidentalmente uccidendolo sul colpo. Akai lascia due bambine ed è morto solo perché era nero.
Nel caso di Brown la famiglia continua a rifiutare il fatto che la reazione di paura di Wilson poteva essere giustificata da un attacco ingiustificato al poliziotto e dal fatto che Mike aveva rubato poco prima in un negozio. Ma oggi si parla di Mike e non si parla di Akai. Dietro il simbolo Mike ci sono gli Al Sharpton gli attivisti civili di pasta molto diversa da quella di Martin Luther King, che invece del pacifismo stimolano la resistenza e il conflitto.
C’è anche un terzo aspetto: lavorare per il recupero di un rapporto più sano con la polizia. Trovare una soluzione per diminuire il numero dei ragazzi uccisi per nulla. Una di queste è stata proposta ieri, la legge Michael Brown: vuole obbligare i poliziotti a indossare sempre una videocamera. Forse un’iniziativa utile. Ma non risolutiva. Colpisce come il dibattito il giorno dopo sia soprattutto su questo: sulle carte del Gran Giurì, sulle ingiustizie, sui rapporti con la polizia, sicuramente una delle più violente del mondo. Ma nel 2014 non si può essere fermi al 1970. Soprattutto quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama. Non sappiamo se lo farà, ma un progetto da costruire coi repubblicani per affrontare il problema razziale americano dovrebbe diventare una priorità per Obama. E una proposta nuova, possibile, con investimenti massicci in educazione e in addestramenti, in assistenza sociale per le famiglie in maggiore difficoltà potrebbe diventare uno dei grandi successi della sua amministrazione. Strano in effetti che con molti afroamericani alla Casa Bianca - oltre a Barack Obama ci sono da Valerie Jarrett, Susan Rice e naturalmente Michelle Obama, ancora non sia pensato seriamente anche a questo.
di Mario Platero Il Sole 26.11.14
Il giorno dopo, nel dibattito sulla sentenza di Ferguson e sugli incidenti di lunedì notte, ci sono tre tematiche dominanti su cui riflettere. Fra queste la componente economica e sociale è quella di cui si parla meno. Se ne dovrebbe parlare di più perché è alla radice del malessere che riesplode con puntualità preoccupante: se il tasso di disoccupazione americano è al 5,8%, quello per la popolazione nera è all’11,5% e per i teenager afroamericani arriva addirittura al 24%. Gli afroamericani poveri vivono ghettizzati, crescono in famiglie disfunzionali, in un ambiente dove prevale la cultura delle gang, della violenza e della droga.
Il fatto che ci sia un presidente afroamericano alla Casa Bianca e che molti neri siano ormai parte del “mainstream” e benestanti non ha cambiato un tessuto sociale che porta un poliziotto bianco a uccidere per paura un diciottenne disarmato. Con un interrogativo di fondo: come mai Barack Obama, il presidente afroamericano, ben conscio del “racial profiling” per un nero, per averlo provato lui stesso, non ha messo a punto un progetto economico e sociale per affrontare alla radice il problema razziale americano? Questo dovrebbe essere l'interrogativo di fondo su cui riflettere: perché Obama non dedica gli ultimi due anni del suo mandato a un progetto di emancipazione degli afroamericani?
Invece nei talk show si soffia sul fuoco della tensione. Il tema che prevale è la polemica sulla decisione del Gran Giurì di non incriminare Darren Wilson per l’omicidio di Michael Brown. Come ha detto con eloquenza Benjamin Crump, uno dei due avvocati della famiglia Brown, Mike è il simbolo della vulnerabilità dei giovani afroamericani a Los Angeles, a New York, a Cleveland, a Philadelphia e in molte altre grandi città americane dove l’essere neri equivale a essere colpevoli. Città dove giovani come Mike muoiono ogni giorno uccisi dalla polizia solo perché sono neri o perché abitano in ghetti degradati. L’ultimo caso è di due giorni fa a New York riguarda Akai Gurley, 28 anni, andava a farsi le treccine, aveva preso le scale, ma un poliziotto, una matricola, lo ha visto all’improvviso si è spaventato, aveva il dito sul grilletto e ha sparato accidentalmente uccidendolo sul colpo. Akai lascia due bambine ed è morto solo perché era nero.
Nel caso di Brown la famiglia continua a rifiutare il fatto che la reazione di paura di Wilson poteva essere giustificata da un attacco ingiustificato al poliziotto e dal fatto che Mike aveva rubato poco prima in un negozio. Ma oggi si parla di Mike e non si parla di Akai. Dietro il simbolo Mike ci sono gli Al Sharpton gli attivisti civili di pasta molto diversa da quella di Martin Luther King, che invece del pacifismo stimolano la resistenza e il conflitto.
C’è anche un terzo aspetto: lavorare per il recupero di un rapporto più sano con la polizia. Trovare una soluzione per diminuire il numero dei ragazzi uccisi per nulla. Una di queste è stata proposta ieri, la legge Michael Brown: vuole obbligare i poliziotti a indossare sempre una videocamera. Forse un’iniziativa utile. Ma non risolutiva. Colpisce come il dibattito il giorno dopo sia soprattutto su questo: sulle carte del Gran Giurì, sulle ingiustizie, sui rapporti con la polizia, sicuramente una delle più violente del mondo. Ma nel 2014 non si può essere fermi al 1970. Soprattutto quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama. Non sappiamo se lo farà, ma un progetto da costruire coi repubblicani per affrontare il problema razziale americano dovrebbe diventare una priorità per Obama. E una proposta nuova, possibile, con investimenti massicci in educazione e in addestramenti, in assistenza sociale per le famiglie in maggiore difficoltà potrebbe diventare uno dei grandi successi della sua amministrazione. Strano in effetti che con molti afroamericani alla Casa Bianca - oltre a Barack Obama ci sono da Valerie Jarrett, Susan Rice e naturalmente Michelle Obama, ancora non sia pensato seriamente anche a questo.
Ferguson, la rabbia e la legge nell’America che si incendia
La decisione frutto di un istituto superato e non rappresentativo
di Sabino Cassese Corriere 26.11.14
Non c’è dubbio che il poliziotto bianco Darren Wilson abbia sparato all’afroamericano Michael Brown, causandone la morte. Ma il diritto permette alla polizia e anche a privati, in alcune circostanze, di far ricorso alle armi. In questo caso, il Grand jury ha accertato che non vi è una «probable cause» (un ragionevole fondamento) per accusare il poliziotto di uno di cinque delitti, che vanno dall’omicidio volontario premeditato all’omicidio colposo. Così l’accusatore della Contea di St. Louis, Missouri, Usa, ha comunicato le conclusioni raggiunte da una giuria popolare composta di nove bianchi e di tre afroamericani. La conseguenza è che, salvo che emergano nuove prove, non vi sarà un regolare processo a carico dell’accusato.
Anche nei Paesi di più antica e consolidata civiltà giuridica permangono istituti che sono divenuti, col progresso dei tempi, incomprensibili. Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, che hanno insegnato al mondo la democrazia e la giustizia, conservano istituti che confliggono con i principi ormai comunemente accettati di democrazia e giustizia. L’istituto del Grand jury è uno di questi. Esso ha funzioni accusatorie e di investigazione, come in una sorta di udienza preliminare. Davanti ad esso non si svolge un processo in contradditorio; le sue decisioni bloccano, anzi, un esame aperto, contenzioso. La giuria si riunisce senza quelle garanzie di pubblicità che — come scrisse Jeremy Bentham — consente al pubblico di giudicare i giudici. I giurati, scelti mediante sorteggio e tenuti al segreto, si riuniscono senza la presenza di un giudice professionale, non rappresentano un campione della società e non sono preparati per svolgere funzioni investigative. La sua attività non consiste nel decidere, oltre ogni ragionevole dubbio, se è stato commesso un delitto, ma solo nell’accertare se sia probabile che sia stato commesso un crimine. Ma le conclusioni del Grand jury impediscono lo svolgimento del processo vero e proprio.
I difetti del sistema sono stati attenuati finora dalla circostanza che, nella grandissima maggioranza dei casi, la giuria popolare segue le indicazioni dell’accusa e consente lo svolgimento del processo penale.
Nel caso di Ferguson, accusa e giuria sapevano che la questione era molto controversa, sia per l’aspetto razziale, sia perché non era in discussione la responsabilità dell’accusato. La giuria ha lavorato intensamente per tre mesi. Si è deciso di rendere pubblici tutti gli atti: chiunque può leggere in Rete i 24 volumi in cui sono raccolti, insieme con le foto, le testimonianze di 60 persone, le risultanze dell’autopsia. Resta la domanda: perché non lasciar svolgere un regolare processo?
La conclusione è che una persona è stata uccisa. Nessuno ha dubbi sul responsabile. Questo non è stato né condannato, né assolto. Semplicemente, non viene accusato. La giuria popolare con funzione di accusa fu abolita in Francia da Napoleone. Negli Stati Uniti resiste ancora alle molte proposte di abolizione, tutte fondate sulla osservazione che ha perduto quella funzione di garante dell’indipendenza dell’accusa che doveva avere in origine. C’è ora solo da sperare che le procedure investigative aperte dal Dipartimento federale di giustizia, divisione dei diritti civili, per accertare se la polizia locale seguisse pratiche che comportano discriminazione razziale, possano condurre a un risultato meno ingiusto.
Ferguson in fiamme “Anche le vite dei neri meritano giustizia” E interviene Obama
Violenze per l’assoluzione dell’agente che uccise Brown Il presidente: intollerabile ma chi protesta va ascoltato
di Federico Rampini Repubblica 26.11.14
FERGUSON «MOLTI americani sono sconvolti — dice Barack Obama — perché hanno l’impressione che la giustizia non sia uguale per tutti. Bisogna scegliere i modi costruttivi di rispondere, non con attacchi criminali. Bisogna dare più attenzione alle proteste civili che si stanno svolgendo in queste ore. Sono pronto a lavorare con loro per assicurare che la legge e l’ordine siano applicati in modo imparziale. Non è solo il problema di Ferguson, è il problema di tutta l’America».
«Io chiamo la Guardia nazionale, schiero migliaia di soldati per proteggere le vostre case, i vostri negozi. Scuole chiuse tutta la settimana ». Questo invece è un proclama da stato d’assedio, lo lancia il governatore del Missouri, Jay Nixon, con 2.200 soldati in arrivo nella cittadina di Ferguson. L’annuncio marziale Nixon lo dà circondato da uomini in tuta mimetica, come dal fronte di guerra. Troppo tardi? Molti lo accusano di avere lasciato volutamente la piazza ai violenti, la prima sera del verdetto.
“Burn this bitch down, Bruciate questa fottuta città”. L’urlo del patrigno di Michael Brown risuona al ritmo di rap, è diventato l’inno delle bande di giovani che di notte fronteggiano la polizia di Ferguson, assaltano negozi, incendiano auto, sotto le telecamere venute da tutto il mondo, coi riflettori degli elicotteri che piovono dall’alto, l’odore acre dei lacrimogeni che brucia la gola. L’altra Ferguson è quella del giorno, quando alla luce del sole sfilano le manifestazioni pacifiche, il sindaco raduna tutti i pastori afroamericani, e risuona dai leader religiosi l’appello alla riconciliazione: «Basta violenza, basta distruzione e dolore».
Colui che uccise il 9 agosto Michael Brown, 18 anni, nero e disarmato, non sarà processato. Non c’è motivo d’incriminare l’agente di polizia Darren Wilson, 28 anni, bianco: «Mi dispiace molto per la perdita di una vita, ma ho fatto semplicemente il mio lavoro, non è stata un’esecuzione». Mentre il pubblico ministero Bob Mc-Culloch annunciava le conclusioni del Grand Jury di contea, la mamma di Michael esplodeva in un pianto convulso, abbracciata dagli amici e circondata da centinaia di simpatizzanti. Gli schermi tv, i display degli smartphone e dei tablet si sdoppiavano: da una parte Barack Obama e il suo appello a «esercitare in modo civile il diritto di protesta, la libertà di manifestare pacificamente, perché quel che accade a Ferguson indica sfide più grandi che dobbiamo affrontare come nazione»; dall’altra le fiamme e le colonne di fumo, il dolore dei familiari di Brown ma anche quello dei piccoli commercianti afroamericani del quartiere, «i cui sogni sono stati bruciati negli assalti», dice il capitano nero della polizia Ron Johnson. Da New York a Washington, da Chicago a San Francisco, da Atlanta a Baltimora le proteste non violente sono dilagate in centinaia di città americane. Gli striscioni e le T-shirt di chi è sceso in piazza lanciano le stesse grida: «Siamo tutti Michael Brown», «Anche le vite dei neri hanno valore», «Ho le mani alzate, non mi sparate».
Quel che accadde davvero il 9 agosto scorso a Ferguson, non si saprà mai. Il procedimento del Grand Jury prevede una segretezza eccezionale. Il magistrato Mc-Culloch, regista e manovratore del Grand Jury (9 bianchi, 3 neri), prima ancora di annunciarne il risultato aveva attaccato i media incolpandoli di ricostruzioni distorte. La sua verità alternativa è affidata soprattutto al racconto dello stesso Wilson. Che intercetta Brown quel 9 agosto, all’inizio, solo perché cammina per strada invece di stare sul marciapiedi. Poi gli vede dei sigari in mano, lo sospetta autore di un furto commesso poco prima in una tabaccheria. A quel punto la ricostruzione di Wilson diventa drammatica. Il controllo d’identità diventa colluttazione. L’altro è più grosso, più alto e più forte, lo terrorizza. «Mi urla che sono una femminuccia e non avrò il coraggio di sparargli, mi sbatte la portiera della mia auto addosso, mi strappa l’arma di mano». A un certo punto Wilson — che il giorno dopo l’assoluzione è una star e rilascia la prima intervista tv — lo descrive come L’Incredibile Hulk, gigante dei fumetti e del cinema, che gli si avventa addosso anche quando è già crivellato di colpi. 12 pallottole, alla fine, prima che Brown giaccia crivellato al suolo dove rimarrà a lungo, abbandonato dalla polizia. Ma non c’è nulla che basti a incriminare l’agente. Il magistrato Mc-Culloch era sospetto dall’inizio, le sue sentenze sono sempre dalla parte della polizia: per convinzioni di destra e per ragioni biografiche, suo padre era poliziotto e fu ucciso da un nero.
Obama ha un’altra indagine in corso, quella federale affidata al suo segretario alla Giustizia Eric Holder, che potrebbe mettere sotto accusa l’intera polizia di Ferguson (95% bianchi su una popolazione al 60% nera) per abusi contro i diritti civili. Ma il primo presidente afroamericano vuole anche mandare un messaggio ai suoi, perché sia netta la presa di distanza dalle «reazioni negative che fanno spettacolo in tv», un’esplosione di rabbia che lui giudica fin troppo prevista e perfino coreografata anche dalle autorità locali. Di certo non ha più illusioni di essere il primo presidente di un’America post-razziale. E se negli anni Sessanta le rivolte avvenivano nei quartieri poveri, Ferguson è un sobborgo del ceto medio, abitato da neri che inseguivano il loro American Dream.
La decisione frutto di un istituto superato e non rappresentativo
di Sabino Cassese Corriere 26.11.14
Non c’è dubbio che il poliziotto bianco Darren Wilson abbia sparato all’afroamericano Michael Brown, causandone la morte. Ma il diritto permette alla polizia e anche a privati, in alcune circostanze, di far ricorso alle armi. In questo caso, il Grand jury ha accertato che non vi è una «probable cause» (un ragionevole fondamento) per accusare il poliziotto di uno di cinque delitti, che vanno dall’omicidio volontario premeditato all’omicidio colposo. Così l’accusatore della Contea di St. Louis, Missouri, Usa, ha comunicato le conclusioni raggiunte da una giuria popolare composta di nove bianchi e di tre afroamericani. La conseguenza è che, salvo che emergano nuove prove, non vi sarà un regolare processo a carico dell’accusato.
Anche nei Paesi di più antica e consolidata civiltà giuridica permangono istituti che sono divenuti, col progresso dei tempi, incomprensibili. Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, che hanno insegnato al mondo la democrazia e la giustizia, conservano istituti che confliggono con i principi ormai comunemente accettati di democrazia e giustizia. L’istituto del Grand jury è uno di questi. Esso ha funzioni accusatorie e di investigazione, come in una sorta di udienza preliminare. Davanti ad esso non si svolge un processo in contradditorio; le sue decisioni bloccano, anzi, un esame aperto, contenzioso. La giuria si riunisce senza quelle garanzie di pubblicità che — come scrisse Jeremy Bentham — consente al pubblico di giudicare i giudici. I giurati, scelti mediante sorteggio e tenuti al segreto, si riuniscono senza la presenza di un giudice professionale, non rappresentano un campione della società e non sono preparati per svolgere funzioni investigative. La sua attività non consiste nel decidere, oltre ogni ragionevole dubbio, se è stato commesso un delitto, ma solo nell’accertare se sia probabile che sia stato commesso un crimine. Ma le conclusioni del Grand jury impediscono lo svolgimento del processo vero e proprio.
I difetti del sistema sono stati attenuati finora dalla circostanza che, nella grandissima maggioranza dei casi, la giuria popolare segue le indicazioni dell’accusa e consente lo svolgimento del processo penale.
Nel caso di Ferguson, accusa e giuria sapevano che la questione era molto controversa, sia per l’aspetto razziale, sia perché non era in discussione la responsabilità dell’accusato. La giuria ha lavorato intensamente per tre mesi. Si è deciso di rendere pubblici tutti gli atti: chiunque può leggere in Rete i 24 volumi in cui sono raccolti, insieme con le foto, le testimonianze di 60 persone, le risultanze dell’autopsia. Resta la domanda: perché non lasciar svolgere un regolare processo?
La conclusione è che una persona è stata uccisa. Nessuno ha dubbi sul responsabile. Questo non è stato né condannato, né assolto. Semplicemente, non viene accusato. La giuria popolare con funzione di accusa fu abolita in Francia da Napoleone. Negli Stati Uniti resiste ancora alle molte proposte di abolizione, tutte fondate sulla osservazione che ha perduto quella funzione di garante dell’indipendenza dell’accusa che doveva avere in origine. C’è ora solo da sperare che le procedure investigative aperte dal Dipartimento federale di giustizia, divisione dei diritti civili, per accertare se la polizia locale seguisse pratiche che comportano discriminazione razziale, possano condurre a un risultato meno ingiusto.
Ferguson in fiamme “Anche le vite dei neri meritano giustizia” E interviene Obama
Violenze per l’assoluzione dell’agente che uccise Brown Il presidente: intollerabile ma chi protesta va ascoltato
di Federico Rampini Repubblica 26.11.14
FERGUSON «MOLTI americani sono sconvolti — dice Barack Obama — perché hanno l’impressione che la giustizia non sia uguale per tutti. Bisogna scegliere i modi costruttivi di rispondere, non con attacchi criminali. Bisogna dare più attenzione alle proteste civili che si stanno svolgendo in queste ore. Sono pronto a lavorare con loro per assicurare che la legge e l’ordine siano applicati in modo imparziale. Non è solo il problema di Ferguson, è il problema di tutta l’America».
«Io chiamo la Guardia nazionale, schiero migliaia di soldati per proteggere le vostre case, i vostri negozi. Scuole chiuse tutta la settimana ». Questo invece è un proclama da stato d’assedio, lo lancia il governatore del Missouri, Jay Nixon, con 2.200 soldati in arrivo nella cittadina di Ferguson. L’annuncio marziale Nixon lo dà circondato da uomini in tuta mimetica, come dal fronte di guerra. Troppo tardi? Molti lo accusano di avere lasciato volutamente la piazza ai violenti, la prima sera del verdetto.
“Burn this bitch down, Bruciate questa fottuta città”. L’urlo del patrigno di Michael Brown risuona al ritmo di rap, è diventato l’inno delle bande di giovani che di notte fronteggiano la polizia di Ferguson, assaltano negozi, incendiano auto, sotto le telecamere venute da tutto il mondo, coi riflettori degli elicotteri che piovono dall’alto, l’odore acre dei lacrimogeni che brucia la gola. L’altra Ferguson è quella del giorno, quando alla luce del sole sfilano le manifestazioni pacifiche, il sindaco raduna tutti i pastori afroamericani, e risuona dai leader religiosi l’appello alla riconciliazione: «Basta violenza, basta distruzione e dolore».
Colui che uccise il 9 agosto Michael Brown, 18 anni, nero e disarmato, non sarà processato. Non c’è motivo d’incriminare l’agente di polizia Darren Wilson, 28 anni, bianco: «Mi dispiace molto per la perdita di una vita, ma ho fatto semplicemente il mio lavoro, non è stata un’esecuzione». Mentre il pubblico ministero Bob Mc-Culloch annunciava le conclusioni del Grand Jury di contea, la mamma di Michael esplodeva in un pianto convulso, abbracciata dagli amici e circondata da centinaia di simpatizzanti. Gli schermi tv, i display degli smartphone e dei tablet si sdoppiavano: da una parte Barack Obama e il suo appello a «esercitare in modo civile il diritto di protesta, la libertà di manifestare pacificamente, perché quel che accade a Ferguson indica sfide più grandi che dobbiamo affrontare come nazione»; dall’altra le fiamme e le colonne di fumo, il dolore dei familiari di Brown ma anche quello dei piccoli commercianti afroamericani del quartiere, «i cui sogni sono stati bruciati negli assalti», dice il capitano nero della polizia Ron Johnson. Da New York a Washington, da Chicago a San Francisco, da Atlanta a Baltimora le proteste non violente sono dilagate in centinaia di città americane. Gli striscioni e le T-shirt di chi è sceso in piazza lanciano le stesse grida: «Siamo tutti Michael Brown», «Anche le vite dei neri hanno valore», «Ho le mani alzate, non mi sparate».
Quel che accadde davvero il 9 agosto scorso a Ferguson, non si saprà mai. Il procedimento del Grand Jury prevede una segretezza eccezionale. Il magistrato Mc-Culloch, regista e manovratore del Grand Jury (9 bianchi, 3 neri), prima ancora di annunciarne il risultato aveva attaccato i media incolpandoli di ricostruzioni distorte. La sua verità alternativa è affidata soprattutto al racconto dello stesso Wilson. Che intercetta Brown quel 9 agosto, all’inizio, solo perché cammina per strada invece di stare sul marciapiedi. Poi gli vede dei sigari in mano, lo sospetta autore di un furto commesso poco prima in una tabaccheria. A quel punto la ricostruzione di Wilson diventa drammatica. Il controllo d’identità diventa colluttazione. L’altro è più grosso, più alto e più forte, lo terrorizza. «Mi urla che sono una femminuccia e non avrò il coraggio di sparargli, mi sbatte la portiera della mia auto addosso, mi strappa l’arma di mano». A un certo punto Wilson — che il giorno dopo l’assoluzione è una star e rilascia la prima intervista tv — lo descrive come L’Incredibile Hulk, gigante dei fumetti e del cinema, che gli si avventa addosso anche quando è già crivellato di colpi. 12 pallottole, alla fine, prima che Brown giaccia crivellato al suolo dove rimarrà a lungo, abbandonato dalla polizia. Ma non c’è nulla che basti a incriminare l’agente. Il magistrato Mc-Culloch era sospetto dall’inizio, le sue sentenze sono sempre dalla parte della polizia: per convinzioni di destra e per ragioni biografiche, suo padre era poliziotto e fu ucciso da un nero.
Obama ha un’altra indagine in corso, quella federale affidata al suo segretario alla Giustizia Eric Holder, che potrebbe mettere sotto accusa l’intera polizia di Ferguson (95% bianchi su una popolazione al 60% nera) per abusi contro i diritti civili. Ma il primo presidente afroamericano vuole anche mandare un messaggio ai suoi, perché sia netta la presa di distanza dalle «reazioni negative che fanno spettacolo in tv», un’esplosione di rabbia che lui giudica fin troppo prevista e perfino coreografata anche dalle autorità locali. Di certo non ha più illusioni di essere il primo presidente di un’America post-razziale. E se negli anni Sessanta le rivolte avvenivano nei quartieri poveri, Ferguson è un sobborgo del ceto medio, abitato da neri che inseguivano il loro American Dream.
Repubblica 26.11.14
Quel “Tank Man” del Missouri diventato un’icona “Come a Tienanmen”
Per i social network e i media Usa la sagoma di uno sconosciuto di fronte ai mezzi di polizia è ora il simbolo dell’impotenza di fronte a un potere troppo grande e sordo
di Vittorio Zucconi
WASHINGTON SU UNA strada centrale dal gentile nome di Florissant, che da Ferguson riporta dritta verso l’eterno incubo americano in bianco e nero, un omino — sembrano sempre tutti omini — alza le mani per fermare da solo i corazzati della polizia e, su tutti i social network e poi sui media statunitensi a partire da Usa Today, è subito Tienanmen 1989. Nasce, nella notte del fuoco, del fumo, delle lacrime nello Heartland, proprio nel cuore dell’America dove il fiume Missouri si sposa con il padre Mississippi a St. Louis, “Tank Man”, l’uomo del tank, lo sconosciuto che diventa l’icona instant di questa ennesima, banale, già vista e sempre tragica ricaduta nella giustizia non giusta.
Naturalmente il Missouri non è la Cina del 1989, ma la collera di chi si sente oppresso da forze troppo grandi e troppo asfissianti non conosce ideologie né Stati. Dunque sarà lui, per ora uno sconosciuto, un altro monumento vivente all’impotenza e alla solitudine di tutti coloro che nel mondo si sentono schiacciati da cingoli di una forza troppo grande e troppo sorda per poter ascoltare. Il fermo immagine della sua sagoma, minuscola di fronte ai blindati di una forza di polizia che avanza in formazione da falange per sgombrare l’arteria centrale di Ferguson, ripreso dalle telecamere della Nbc appollaiate sui tetti per sfuggire ai lacrimogeni, agli spari, ai lanci di mattoni e pietre che hanno ferito altri reporter, entra nell’album dei brutti ricordi e della cattiva coscienza americani. Con il volto mite di Rosa Parks la ribelle dell’autobus, con i cani lanciati contro i dimostranti per i diritti civili in Alabama, con le foto dei ragazzi uccisi nel Mississippi, con i cappucci a cono dei cavalieri bianchi delle tre “K”.
Come nella piazza della Porta del Paradiso, la Tienanmen davanti alla Città Proibita, anche questa riproduzione americana venticinque anni dopo dell’omino contro i corazzati, riesce per qualche momento a fermare pacificamente l’avanzata della falange, ma si capisce che la sua è una vittoria temporanea. Lo è perché dietro quei mostri di fari, celle fotoelettriche, lampeggianti e autoblindo mostruosi, che fanno apparire la scena come una sequenza da sci-fi, non c’è, come nella Cina del 1989, solo una dirigenza politica terrorizzata dalla rivolta, ma c’è la maggioranza di una cittadinanza, bianca, ma anche nera, latina, asiatica che spinge i “Transformer” della polizia a reprimere.
Dalle rivolte dei ghetti nel 1968, che da Watts a Los Angeles al centro di Washington portarono le fiamme a lambire gli edifici del potere civile, passando per i giorni di Rodney King nel 1991, quando entrai in East L.A. seguendo le stesse colonne corazzate che avevo visto qualche settimana prima entrare a Kuwait City, le sequenze si ripetono perché si vuole che si ripetano. Perché, come nella notte del fumo e del fuoco hanno ripetuto i sapienti della legge interpellati da tutte le tv, il procuratore della Contea di St. Louis che ha condot- to l’inchiesta e l’ha portata davanti ai nove bianchi e ai tre neri che formavano il Gran Giurì, ha organizzato, strutturato, pilotato la procedura di incriminazione per ottenere il «non luogo a procedere». Per proteggere il poliziotto.
«Tutti noi avvocati e procuratori e giudici sappiamo benissimo — ha detto Jeffrey Tobin, consulente legale per la Cnn e per il New Yorker — che se un Procuratore lo vuole, può ottenere dal Gran Giurì l’incriminazione di un panino al prosciutto. Bob McCulloch, il procuratore della Contea, voleva arrivare al non luogo a procedere contro il poliziotto che ha ucciso Michael Brown e ovviamente ci riuscito». Non ingannino le immagini dal fronte che corrono oggi sugli schermi delle tv di tutto il mondo o i sondaggi-instant o le reazioni nervose dei social network: la maggioranza dell’America bianca sta dalla parte di chi ha sparato, non del bersaglio caduto.
Questa, non le colonne blindate inarrestabili, è la marcia della follia che l’“omino” della South Florissant Avenue voleva fermare alzando le mani per mostrare di essere inerme, inoffensivo, ben diverso da coloro che erano arrivati nello “Heartland”, a St. Louis per mescolarsi al dolore dei locali e appiccari i falò della rivolta. È la certezza — oggi più che mai rinfocolata da una decisione giudiziaria che non trova ragione per processare, non per condannare, un agente che ha esploso dieci rivoltellate a cinque metri di distanza su un giovane disarmato in pieno giorno — che la partita sia truccata, che il risultato sia scritto prima dell’inizio.
Eppure Ferguson non è il Sud delle bombe nelle chiese Battiste di Birmingham che uccisero bambine afro durante il catechismo, non è la Georgia o il Mississippi delle croci in fiamme davanti alle case degli ex schiavi. St. Louis, sotto il colossale arco di acciaio dal quale la vista si estende nella vertigine della Grande Prateria a Ovest, è la città che da due secoli incardina l’Est al West, lo snodo dei grandi sentieri che conducevano i carri coperti e le mandrie nella corsa alla Frontiera, lungo quella che oggi è l’autostrada più rettilinea d’America, la numero 70, fino al Colorado.
Non servono i luoghi comuni dello Zio Tom o dell’Ispettore Tibbs per uno Stato come il Missouri, che nella Guerra Civile si divise, in una guerra interna, fra Nord e Sud, fra schiavisti e abolizionisti, inviando battaglioni dei propri figli a morire a migliaia sotto i panni grigi come sotto quelli blu. È sempre stata, e l’icona del Tank Man davanti ai blindati lo ricorda e lo simboleggia, una terra di frontiera nelle crisi, negli scontri, nelle contraddizioni, e nelle opportunità. Ma anche di verità, come queste ore ci mostrano e come predicava un uomo che proprio qui, venendo dall’Ungheria e comprando il quotidiano locale Post Dispatch, inventò il giornalismo moderno che ci ha dato la foto dei “Tank Men” sulla Tienanmen e sulla Florissant Avenue. Si chiamava Joseph Pulitzer e sarebbe stato orgoglioso, oggi, di quel fotogramma che racconta la storia.
Se la logica del Far West domina (ancora) gli Usa
di Massimo Gaggi Corriere 28.11.14
Dopo la rivolta di Ferguson per l’assoluzione del poliziotto che ha ucciso Michael Brown e con l’America scossa da centinaia di manifestazioni di denuncia del presunto razzismo della polizia, l’eterna discussione sulla repressione dei crimini in base al colore della pelle e sulla maggiore propensione a delinquere degli afroamericani imperversa ovunque, con un’asprezza di toni mai vista prima. Accuse roventi supportate, sui due fronti, da dati impressionanti.
Il diciottenne di Ferguson, il ragazzino di 12 anni abbattuto a Cleveland perché puntava contro i poliziotti una pistola giocattolo, il nero ucciso per errore da un agente nella scala senza luce di un edificio di New York, sono tutti neri. E non sono casi isolati: un’inchiesta del sito di giornalismo investigativo ProPublica ha dimostrato che gran parte dei 112 mila americani uccisi dalla polizia tra il 1980 e il 2012 ha la pelle nera. Un afroamericano ha 24 volte più possibilità di essere abbattuto da un agente rispetto a un bianco. È impressionante, ma chi difende la polizia vede un’altra realtà: benché rappresentino solo il 13% della popolazione, i neri sono responsabili della maggior parte degli omicidi commessi in America. E il 93% delle vittime di colore vengono uccise da altri afroamericani: si può, allora, definire razzista il commissario che manda più auto a pattugliare i ghetti neri rispetto ai quartieri residenziali bianchi?
Ma questa macabra contabilità dice anche altro sul rude comportamento della polizia che, comunque, non colpisce esclusivamente la gente di colore (il 44% dei cittadini abbattuti dagli agenti sono bianchi): anche se non esistono statistiche complete, l’Fbi sostiene (dati 2011) che in un anno le polizie d’America hanno commesso 404 omicidi «giustificabili». Aggiungendo quelli «ingiustificabili», come il giovane ucciso per errore a New York, si arriva intorno quota 600. In un anno in Germania gli agenti uccidono, in media, sei persone. In Gran Bretagna, Paese certamente non privo di tensioni razziali, gli omicidi della polizia sono otto l’anno. Una disparità impressionante. Ora tutti si chiedono se a Ferguson l’agente Wilson aveva il diritto di sparare per fermare un aggressore disarmato. Nessuno si chiede se era proprio necessario esplodere 12 colpi mirando alla testa. Anche questa è delusione-Obama: prometteva nuove frontiere kennediane, ma alla fine è impotente davanti alla logica spietata della vecchia frontiera del West.
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