Destre, M5S, sinistre: tutti diretti dall'imbroglione giovane, che svolge tutte le parti in commedia [SGA].
«Il patto del Nazareno scricchiola»
Renzi avverte Berlusconi: ma io non scappo, vado avanti - «No al voto anticipato»
di Barbara Fiammeri Il Sole 7.11.14
ROMA Il giorno dopo il faccia a faccia con Silvio Berlusconi, Matteo
Renzi è ancora più chiaro: «Il patto del Nazareno scricchiola? Altro che
scricchiola!». I retroscena non servono, il premier vuole la scena
aperta. La battuta non è stata sollecitata, la mette dentro con tempismo
perfetto mentre parla di imposte comunali. Ai timori del Cavaliere
sulla tentazione di andare al voto non appena ottenuto il via libera
all'Italicum replica: «Alle ultime elezioni il Pd ha preso il 41%.
Alcuni hanno detto vai alle elezioni, porta in Parlamento i tuoi amici e
poi fai le riforme. Noi abbiamo fatto una scelta diversa, ci giochiamo
il tutto per tutto perché l'Italia si rimetta in moto». Per il premier è
arrivato il momento di stringere e il gioco che predilige è uno solo:
l'attacco. Da Fi attende una risposta entro il fine settimana altrimenti
«guarderemo altrove». Come ha già fatto per sbloccare ieri lo stallo
sulla Consulta: votando assieme ai grillini il candidato del Pd. «Lo
dica se vuole rompere» replica Forza Italia con Giovanni Toti.
Ma Renzi continua a sperare «nel consenso delle opposizioni», come
ripete durante la cena di autofinanziamento del Pd, al termine di una
giornata lunghissima, in cui non ha mancato di rispondere anche a chi da
Bruxelles lo ha duramente criticato. «Non ho mai detto che la
commissione Ue sia un covo di burocrati, ma ora che l'hanno detto loro
la cosa mi fa pensare: se vogliono uscire dal recinto dorato della
burocrazia dicano che tutti gli investimenti che servono per creare
tecnologia, ricerca e innovazione vengano tolti dalle catene del patto
di stabilità».
Poco importa se dalla Commissione arrivi una replica piccata. «L'Italia
ha il dovere di essere se stessa in Europa. In Europa non trattiamo, ma
ci stiamo perché l'Europa è casa nostra». La politica del rigore non è
contro l'Italia ma contro l'intera Europa: «I dati Ocse che dicono che
l'Eurozona è il problema dell'economia mondiale, sono molto tristi da un
lato e incoraggianti dall'altro perché dimostrano che se l'Eurozona
cambia, può tornare a crescere anche l'economia mondiale. Perciò in
Italia stiamo facendo una battaglia perché l'Europa cambi». Una
battaglia che deciderà il destino dell'intero continente: «Non si può
pensare che il futuro sia trattato come spesa corrente».
In cima alla lista degli investimenti per il premier c'è la banda larga:
«Bisogna che impariamo a semplificare, a centralizzare le spese e ad
avere una regia unica che dia tempi certi: questa è l'agenda digitale». E
bisogna farli in fretta. Parole che pronuncia durante la visita alla
nuova sede dell'Alcatel-Lucent di Vimercate, la Silicon Valley italiana,
dove era stato accolto da alcune decine di manifestanti con corredo di
lancio di uova («con quelle uova ci faccio le crepes»). Le critiche di
Juncker non lo hanno affatto intimorito, anzi. Il premier sfida la
Commissione a dimostrare che il tempo del cambiamento è «ora» e che non è
pensabile ripetere gli errori del passato. Un esempio? La Ast di Terni
oggi – ricorda Renzi – non sarebbe in queste condizioni se anni fa
Bruxelles non ne avesse bloccato la vendita.
Ce n'è ovviamente anche per i sindacati. «Ho grande rispetto per il
sindacato che fa il sindacato, perché gode della mia stima e
ammirazione, ma – insiste – quando pensa sia possibile sostituirsi alla
politica, fare politica, prendere il posto per decidere, deve sapere che
c'è un governo che non tratta con il sindacato sulle leggi perché si
fanno in Parlamento». Sul Jobs act quindi avanti tutta perché avremo «un
contratto di lavoro più semplice, a tempo indeterminato, la riduzione
delle tasse e la certezza che eliminando l'articolo 18 a te imprenditore
non metto un altro in casa a dirti cosa fare», ha detto ribadendo che
in questo modo nessuno avrà più «alibi».
Renzi si presenta davanti a platee diverse ma i concetti sono sempre gli
stessi. Il premier difende davanti ai sindaci la legge di stabilità e
la tassa unica comunale: «L'autonomia organizzativa che vi propongo è
organizzativa. Vi diamo cioè degli obiettivi e poi voi fate come vi pare
e poi ne risponderete davanti ai cittadini». E ancora: nessun taglio
alla sanità, ma introduzione subito dei costi standard e lavorare per
evitare che i tagli alle Regioni abbiano ripercussioni sui servizi
erogati dai Comuni. «Sulla sanità voglio dire con chiarezza che vogliamo
i costi standard e che non vogliamo ridurre i servizi ma le Asl» e
quindi «non sarà consentito, e su questo voglio essere chiaro, che i
tagli di costi decisi per le Regioni possano ridurre i servizi dei
Comuni».
Alleanze variabili alla prova. È la fine di un muro?
di Massimo Franco Corriere 7.11.14
Dietro il voto del Parlamento sui giudici costituzionali si intravede,
in filigrana, quello per l’elezione del presidente della Repubblica.
L’ipotesi che Giorgio Napolitano possa ritenere conclusa la sua missione
di qui a gennaio sta assumendo i contorni di una previsione, seppure da
verificare. E pone con forza e preoccupazione il tema di quanto potrà
accadere di fronte al vuoto che lascerebbe. Il «sì» di ieri al giudice
costituzionale designato dal Pd, Silvana Sciarra, e a quello del
Movimento 5 Stelle, Alessio Zaccaria, per il Csm, è un primo elemento di
riflessione; e di tensione nella maggioranza. Il «no» a quello di Forza
Italia è il secondo, anche perché rimanda a contrasti tutti interni al
centrodestra.
La somma dei due episodi riconsegna un patto del Nazareno asimmetrico.
Forse è azzardato sostenere che il coinvolgimento del movimento di Beppe
Grillo nelle votazioni per la Consulta sia la prima pietra di un
«secondo forno» che il premier può utilizzare per raggiungere i suoi
obiettivi. Per quanto vada accolto come un segnale positivo, non
cancella l’imprevedibilità di una formazione che segue le dinamiche
imperscrutabili della Rete e del suo leader. Certamente, si tratta di un
risultato che rafforza Renzi nella trattativa con un Silvio Berlusconi
più subalterno di lui alla logica dell’accordo sulle riforme
istituzionali. Il «forno» di Forza Italia appare inutilizzabile innanzi
tutto per il suo proprietario.
L’ esito disastroso della votazione per Stefania Bariatti alla Consulta
conferma infatti che l’ex premier non è più in grado di garantire
l’appoggio di tutti i suoi parlamentari. La falcidia dei candidati del
centrodestra riflette e dilata la crisi della leadership berlusconiana.
Al contrario, il Pd attraversa le barriere della maggioranza di governo e
di quella istituzionale con una disinvoltura e una facilità da perno
del sistema. Può rivendicare di avere fatto uscire il Movimento 5 Stelle
dall’isolamento. E prefigura anche per il Quirinale un gioco a tutto
campo che potrebbe superare lo schema di un capo dello Stato concordato
tra Renzi e Berlusconi: quello che, almeno finora, appariva il più
accreditato.
Quanto è accaduto ieri rimescola gli equilibri parlamentari; o comunque
minaccia di sparigliarli se il centrodestra rifiutasse le mediazioni
offerte o pretese da Palazzo Chigi. Una sinistra in ascesa e in via di
mutazione può scegliere. Può perfino cercare di eleggere il presidente
della Repubblica dopo un eventuale voto anticipato e un pieno dei
consensi: sebbene sia difficile che la manovra riesca finché c’è
Napolitano. Berlusconi, invece, vede i margini di manovra assottigliarsi
di giorno in giorno. Si rende conto che in questo Parlamento ha ancora
percentuali rispettabili e peso politico. Ma dopo le elezioni può
ritrovarsi condannato alla marginalità.
Per questo è disposto ad accedere alle richieste di Renzi, e intanto
cerca di limarle, arginando la pressione incalzante del premier. Teme
che le urne lo puniscano e lo umilino al punto da consegnarlo mani e
piedi alla strategia di Palazzo Chigi. La riforma elettorale è una delle
poche polizze di assicurazione per la sua sopravvivenza politica. Si
capirà presto se i fatti delle ultime ore siano tatticismi per
ricontrattare il patto tra Pd e Fi su basi renziane o se marchino
l’inizio di una fase nuova.
Usare più forni in contemporanea richiede grande abilità, e Renzi ne ha.
Ma a volte implica il rischio di ritrovarsi con un pugno di cenere.
La convergenza tra Renzi e Grillo che spaventa Berlusconi
Non è ancora un addio definitivo al rapporto tra premier e Cavaliere ma un segnale politico contro la paralisi
di Stefano Folli Repubblica 7.11.14
NELLA partita che si sta giocando intorno alla legge elettorale - e in
prospettiva intorno alla scelta del prossimo presidente della Repubblica
- la giornata di ieri ha portato una novità da non sottovalutare. Un
sasso è stato tirato nello stagno con l’elezione di un giudice della
Consulta in condominio fra Pd e Cinque Stelle.
Non è un asse fra Renzi e Grillo, non è ancora un addio definitivo alla
relazione privilegiata fra il presidente del Consiglio e Berlusconi. In
altri termini non è un “secondo forno”, ossia un cambio di alleanze
parlamentari. Tuttavia è un segnale politico in una fase fin troppo
statica. Renzi aveva bisogno di uscire dall’inerzia in cui annaspa il
cosiddetto “patto del Nazareno”. Grillo a sua volta doveva dimostrare a
se stesso e ai suoi che qualche volta il M5S riesce a far pesare la sua
forza parlamentare, che non è esigua. Quindi si è creata una convergenza
di interessi. Dopo oltre venti votazioni nulle a Camere congiunte,
Silvana Sciarra, candidata del Pd, è stata eletta anche con i voti dei
“grillini”. Viceversa la candidata del centrodestra, Stefania Bariatti,
non ha ottenuto i voti del M5S (e forse nemmeno tutti quelli della sua
parte) ed è rimasta molto al di sotto del quorum. In sostanza
un’asimmetria che ha penalizzato il partito di Berlusconi, enfatizzando
invece la confluenza Pd-Grillo sull’altro nome.
La storia non finisce qui. Si tornerà a votare in Parlamento, ma è
difficile prevedere se l’intesa sulla candidata ieri perdente sarà
rispettata. Quel che è certo, la crepa che da tempo s’intravedeva nel
“patto del Nazareno” tende ad allargarsi. Berlusconi in questa fase è
debole, troppo debole per siglare dall’oggi al domani un accordo su una
legge elettorale che avvantaggia in primo luogo il Pd renziano e in
secondo luogo altri gruppi che oggi sopravanzano Forza Italia o
cominciano a insidiarla da vicino: i Cinque Stelle nel primo caso e la
Lega di Salvini nel secondo.
La politica di Berlusconi di fatto non va oltre l’immobilismo, al punto
che il “patto” ha cessato da tempo - almeno dalle elezioni di maggio -
di essere un’intesa fra eguali ed è diventato qualcosa di diverso. In
fondo, se passa la legge maggioritaria che piace al premier, a
Berlusconi non resta che accettare la realtà, ossia un ruolo subordinato
nei confronti di Renzi: ben sapendo che una significativa quota
dell’elettorato di centrodestra, in caso di ballottaggio, sosterrà il
presidente del Consiglio contro Grillo, mentre un’altra quota potrebbe
orientarsi fin dal primo turno in favore del neo-movimento “lepenista”
ed euroscettico di Salvini. Ora Renzi gioca con l’abituale spavalderia
la convergenza Pd-Cinque Stelle sul giudice costituzionale. Ed è ovvio:
ha tutto l’interesse a spaventare Berlusconi, ricordandogli che
qualsiasi altro scenario sarà per lui meno favorevole dell’attuale. Gli
sta chiedendo, in altri termini, di mettersi nelle sue mani senza
traccheggiare. Perché alla peggio il Pd può persino recuperare il
vecchio Italicum, ritoccandolo un po’, e trovare in Parlamento le forze
disposte a votarlo. Anche fra i leghisti e i Cinque Stelle. Se ne deduce
che, comunque vadano le cose, il “patto del Nazareno” come gli italiani
lo hanno immaginato in questi mesi (un’intesa di ferro fra due potenze
politiche per il governo della legislatura) sta cambiando fisionomia.
Resta, certo, il problema di eleggere il capo dello Stato quando
Napolitano lascerà. Anche qui la mossa di Renzi sui Cinque Stelle
costituisce un rischio calcolato con un risvolto politico. Il premier
non vorrà permettere che Grillo appoggi a sorpresa un candidato in grado
spaccare il Pd e di impedire a lui di manovrare a tutto campo. Gestendo
fin d’ora il rapporto con i “grillini” e addirittura rimettendoli in
gioco, come ieri sulla Consulta, può sperare di non essere scavalcato
nei giorni caldi.
Ma per Renzi resta difficile strappare il patto sulla riforma
Il nuovo Senato senza Cavaliere non sarebbe mai passato
di Barbara Fiammeri Il Sole 7.11.14
Il dato della giornata di ieri si potrebbe riassumere così: chi non si
accorda con con il Partito democratico di Matteo Renzi si consegna
all'irrilevanza politica. Vale per il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo
e ancor di più per il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi.
Per la prima volta i grillini sono scesi a patti votando Silvana
Sciarra, la candidata del Partito democratico a giudice costituzionale,
in cambio del via libera dei democratici al loro candidato per il
Consiglio superiore della magistratura, Alessio Zaccaria. Un confronto
che potrebbe non fermarsi qui. Almeno così Renzi vuole far credere, come
conferma anche la battuta sul patto del Nazareno che scricchiola
(«altro se scricchiola!»).
A Berlusconi, il grande sconfitto della giornata, il messaggio era stato
già recapitato brevi manu dal premier nel faccia a faccia di mercoledì a
Palazzo Chigi sulla riforma elettorale: «Posso fare a meno dei vostri
voti». E ieri alle parole sono seguiti i fatti. Lo stallo sulla Consulta
provocato da Forza Italia, alle prese con i veti incrociati interni su
questo o quel candidato come ha confermato anche la bocciatura di
Stefania Bariatti, è stato superato grazie all'inedita intesa Pd-M5s.
Potrebbe ripetersi anche sulla legge elettorale? Improbabile. Il Patto
del Nazareno è sempre la prima scelta per il presidente del Consiglio
che non vuole rinunciare all'«intesa sulle regole» con quello che
riconosce come il leader dello schieramento avversario. Anche perché in
ballo non c'è solo la legge elettorale ma anche la riforma
costituzionale del Senato che senza l'appoggio del Cavaliere non sarebbe
mai passata e che dovrà tornare al Senato.
A Palazzo Madama Renzi può contare su una maggioranza traballante che a
fatica raggiunge quella assoluta di 161 e che negli ultimi tempi,
rispetto ai 169 ottenuti quando chiese la prima fiducia per il suo
governo, si è andata sempre più assottigliando. L'ultimo esempio è il
decreto legge sblocca Italia passato, grazie ad assenze numerose tra le
fila dell'opposizione, con soli 157 sì. E quindici giorni prima sulla
riforma della giustizia civile la fiducia al governo si era fermata a
quota 161. Stesso numero raggiunto in occasione del voto sulla nota di
variazione al Def: anzi, in quel caso, per arrivare a 161 fu decisivo il
contributo di un ex grillino. Ecco perché quell'intenzione di «guardare
altrove», che Renzi ha paventato è più un tentativo di mettere in
difficoltà Berlusconi, piuttosto che una reale volontà di rompere per
sottoscrivere nuove alleanze. Anche perché chi sarebbero i potenziali
alleati?
Gli indizi puntano soprattutto sulla pattuglia dei quindici fuoriusciti
dal gruppo di Grillo, che però non hanno neppure costituito un loro
gruppo, a conferma dell'assenza di una strategia comune. E poi non va
mai dimenticato che la legge elettorale viene vista come l'anticamera
delle elezioni. Per chi difficilmente potrà tornare in Parlamento in
caso di nuove elezioni, l'obiettivo principale è quindi resistere. Vale
per i fuoriusciti grillini, per la minoranza del Pd che teme di vedersi
depennata dalle liste elettorali, per il Nuovo centrodestra, partito di
maggioranza, che i sondaggi danno attualmente attorno al 3 per cento. Di
un accordo con Grillo neanche a parlarne. Non basta il voto di ieri a
sancire l'inizio di un'alleanza e poi neppure Grillo vuole andare a
elezioni.
Resta la Lega, l'unica forse che, sempre stando a quanto riportano i
sondaggi che la collocano all'8 per cento, avrebbe da guadagnare in caso
di elezioni anticipate. Ma il leader del Carroccio Matteo Salvini
sull'antirenzismo (e l'antieuropeismo) ha caratterizzato la sua
strategia politica e quindi è improbabile che si accorderebbe con il
Partito democratico. Ecco perché alla fine anche a Renzi conviene
mantenere in vita il Nazareno.
È su questo che conta Berlusconi, che però a sua volta ha nel Patto con
Renzi l'unica opzione possibile. Se non ci fosse stata l'intesa del
Nazareno, di Berlusconi non si parlerebbe più da tempo, se non per le
sue vicende giudiziarie.
Le minoranze pd: prima la legge di Stabilità poi l’esame del Jobs act
di M. Gu. Corriere 7.11.14
ROMA «È necessario approvare la legge di Stabilità prima di iniziare il
voto alla Camera sul Jobs Act». Il documento che la minoranza del Pd ha
inviato a Renzi non è una banale richiesta di invertire il calendario
dei lavori parlamentari.
Il tono è garbato, ma il contenuto è piuttosto bellicoso. Basta leggere i
nomi in calce per capire il senso politico della lettera-appello:
Boccia, Civati, Cuperlo, D’Attorre, Fassina, Miotto. L’ordine è
rigorosamente alfabetico e l’ultima firma è quella di Rosy Bindi, un
nome che rivela il tentativo di saldare, in una sorta di coordinamento, i
deputati più agguerriti nei confronti della politica economica del
leader. Solo approvando la manovra prima della delega sarà possibile, è
la tesi degli oppositori di Renzi, «aumentare le risorse destinate al
lavoro e consentire maggiore impulso all’attuazione della delega, che è a
saldo zero». Il limite delle norme del ministro Poletti è che i soldi
sono pochi, scrivono i firmatari dell’appello. E poiché le risorse
stanziate dalla legge di Stabilità sono pari a due miliardi, «non sarà
possibile raggiungere gli obiettivi che lo stesso presidente Renzi si
propone di centrare». Insomma, o il governo aumenta gli stanziamenti di
un miliardo e mezzo o «le riforme senza soldi rischiano di rimanere solo
buone intenzioni».
La lettera della minoranza rischia di innescare nuove tensioni, ma
Boccia sdrammatizza: «Non capisco dove sia il problema... Non si fanno
riforme senza soldi». E intanto Sergio Cofferati si scalda per le
primarie del 21 dicembre, per la presidenza della Liguria. La sinistra
si è messa in moto per preparare la discesa in campo dell’eurodeputato
pd e la prima mossa è l’appello di una trentina di personalità della
cultura e del mondo professionale. Hanno firmato anche i parlamentari
Donatella Albano e Mara Carocci, l’ex sindaco di La Spezia Giorgio
Pagano, alcuni civatiani e Giordano Bruschi, partigiano e antifascista,
uno dei simboli della sinistra genovese.
Matteo in ritardo alla cena vip
Nel parcheggio suv e Jaguar «Mille euro? Scarica l’azienda»
di Maurizio Giannattasio Corriere 7.11.14
MILANO Sotto il Diamantone, grattacielo simbolo della Milano rinata, gli ospiti arrivano alla spicciolata. Usano il più bieco dei trucchi per sviare le domande dei cronisti. Orecchio attaccato al cellulare, voce stentorea e passo spedito. Eppure mille euro per partecipare alla cena con il premier Matteo Renzi e finanziare il Pd varrebbero bene una risposta alla più semplice delle domande: chi è? di che si occupa? perché è qui? L’ex arbitro Gianluca Paparesta, uno tra i 800 ospiti paganti del The Mall, avrebbe quanto meno fischiato un fallo di ostruzionismo. Sarà il riserbo tradizionale del mondo imprenditoriale lombardo, sarà che nessuno vuole scoprire le sue carte. Come ai tempi di Silvio Berlusconi re.
Matteo Renzi arriva alle 21 e 26, con oltre un’ora e mezzo di ritardo e subito pronuncia parole magiche per l’uditorio: «Faremo lavorare meno i commercialisti», «Il Fisco non è più nemico dei cittadini». Dentro tavoli da 12, con tovaglie bianche e una zucca a fare da centrotavola. Fuori sfilano Porsche Cayenne, suv e un paio di Jaguar. Gli «happy few» che possono accedere direttamente dal garage. Gli altri arrivano dalla strada.
Sfilano i ministri Maurizio Martina e Maria Elena Boschi, poi Alessandra Moretti, Stefano Boeri, Patrizia Toia, Emanuele Fiano, Piero Fassino,il capo di gabinetto di Pisapia, Maurizio Baruffi. Qualcuno si eccita a vedere Fabio Minoli, già Forza Italia della prima ora. È la pistola fumante. Quella che proverebbe la grande passione dei berlusconiani per il leader pd. L’entusiasmo crolla quando si scopre che Minoli, da tempo, è il nuovo capo della comunicazione di Confindustria. Arriva Guido Roberto Vitale, ex presidente Rcs. «È giusto che la politica la paghino i cittadini e non lo Stato». C’è il presidente di Telecom, Giuseppe Recchi, l’ad di Borsa italiana, Raffaele Jerusalmi, Daniele Schwarz, ad di Multimedica, Michele De Carolis, ad di Swg, figlio di Massimo, leader della maggioranza silenziosa. L’attrice Stefania Rocca.
Colpisce la diversità delle risposte. I politici — tutti paganti — difendono la scelta della cena milionaria: «Noi ci rivolgiamo a tutti — dice Toia —. Non saremo mai un partito berlusconiano». «L’importante è che queste iniziative vengano fatte in modo trasparente — dice la Moretti — gli ospiti sono qui per finanziare il Pd, un’idea, un progetto di cui Renzi è espressione. Perché hanno fiducia in una politica che cerca di cambiare il Paese».
Gli imprenditori oscillano su un paio di temi. Il più gettonato: «Siamo qui per ascoltare». «Mi aspetto un contributo per la vittoria dell’Italia». I più scanzonati: «Ho pagato i mille euro, ma scarica l’azienda». «Paga direttamente l’azienda». «La Milano da bere finanzia il Pd». Fino all’appello accorato di un impresario di pompe funebri di Modena: «Sono qui perché Matteo Renzi è l’unica speranza. Siamo in una crisi profonda, anche nel nostro settore, dove si risparmia persino sulle bare».
Il premier è in forma smagliante. Liscia il pelo alla platea su tasse e Fisco. Ma tocca tutti i temi nelle sue corde. L’incipit è uno scatto d’orgoglio: «Ho detto no al voto anticipato, mi gioco tutto». Ricorda che per le riforme è necessario cercare il consenso delle opposizioni. Ma fino a un certo punto: «Perché se qualcuno vuole bloccarle noi andiamo avanti da soli». Coinvolge il pubblico: «Secondo voi i dipendenti pubblici in Italia sono troppi?». Sììì risponde la platea alzando la mano. «Secondo l’Europa sono pochi ma vanno impiegati meglio, in questo senso va la riforma della Pubblica amministrazione». Arriva al lavoro: menu interessante per la platea di imprenditori e giovani start up: «Questa riforma del lavoro è quella più di sinistra possibile». E infine: «Abbiamo recuperato 18 milioni di risorse, grazie a questo nessun dipendente del Pd andrà in cassa integrazione». Sono le 23. Tutti sono arrivati al secondo. Renzi non ha ancora toccato cibo.
Matteo in ritardo alla cena vip
Nel parcheggio suv e Jaguar «Mille euro? Scarica l’azienda»
di Maurizio Giannattasio Corriere 7.11.14
MILANO Sotto il Diamantone, grattacielo simbolo della Milano rinata, gli ospiti arrivano alla spicciolata. Usano il più bieco dei trucchi per sviare le domande dei cronisti. Orecchio attaccato al cellulare, voce stentorea e passo spedito. Eppure mille euro per partecipare alla cena con il premier Matteo Renzi e finanziare il Pd varrebbero bene una risposta alla più semplice delle domande: chi è? di che si occupa? perché è qui? L’ex arbitro Gianluca Paparesta, uno tra i 800 ospiti paganti del The Mall, avrebbe quanto meno fischiato un fallo di ostruzionismo. Sarà il riserbo tradizionale del mondo imprenditoriale lombardo, sarà che nessuno vuole scoprire le sue carte. Come ai tempi di Silvio Berlusconi re.
Matteo Renzi arriva alle 21 e 26, con oltre un’ora e mezzo di ritardo e subito pronuncia parole magiche per l’uditorio: «Faremo lavorare meno i commercialisti», «Il Fisco non è più nemico dei cittadini». Dentro tavoli da 12, con tovaglie bianche e una zucca a fare da centrotavola. Fuori sfilano Porsche Cayenne, suv e un paio di Jaguar. Gli «happy few» che possono accedere direttamente dal garage. Gli altri arrivano dalla strada.
Sfilano i ministri Maurizio Martina e Maria Elena Boschi, poi Alessandra Moretti, Stefano Boeri, Patrizia Toia, Emanuele Fiano, Piero Fassino,il capo di gabinetto di Pisapia, Maurizio Baruffi. Qualcuno si eccita a vedere Fabio Minoli, già Forza Italia della prima ora. È la pistola fumante. Quella che proverebbe la grande passione dei berlusconiani per il leader pd. L’entusiasmo crolla quando si scopre che Minoli, da tempo, è il nuovo capo della comunicazione di Confindustria. Arriva Guido Roberto Vitale, ex presidente Rcs. «È giusto che la politica la paghino i cittadini e non lo Stato». C’è il presidente di Telecom, Giuseppe Recchi, l’ad di Borsa italiana, Raffaele Jerusalmi, Daniele Schwarz, ad di Multimedica, Michele De Carolis, ad di Swg, figlio di Massimo, leader della maggioranza silenziosa. L’attrice Stefania Rocca.
Colpisce la diversità delle risposte. I politici — tutti paganti — difendono la scelta della cena milionaria: «Noi ci rivolgiamo a tutti — dice Toia —. Non saremo mai un partito berlusconiano». «L’importante è che queste iniziative vengano fatte in modo trasparente — dice la Moretti — gli ospiti sono qui per finanziare il Pd, un’idea, un progetto di cui Renzi è espressione. Perché hanno fiducia in una politica che cerca di cambiare il Paese».
Gli imprenditori oscillano su un paio di temi. Il più gettonato: «Siamo qui per ascoltare». «Mi aspetto un contributo per la vittoria dell’Italia». I più scanzonati: «Ho pagato i mille euro, ma scarica l’azienda». «Paga direttamente l’azienda». «La Milano da bere finanzia il Pd». Fino all’appello accorato di un impresario di pompe funebri di Modena: «Sono qui perché Matteo Renzi è l’unica speranza. Siamo in una crisi profonda, anche nel nostro settore, dove si risparmia persino sulle bare».
Il premier è in forma smagliante. Liscia il pelo alla platea su tasse e Fisco. Ma tocca tutti i temi nelle sue corde. L’incipit è uno scatto d’orgoglio: «Ho detto no al voto anticipato, mi gioco tutto». Ricorda che per le riforme è necessario cercare il consenso delle opposizioni. Ma fino a un certo punto: «Perché se qualcuno vuole bloccarle noi andiamo avanti da soli». Coinvolge il pubblico: «Secondo voi i dipendenti pubblici in Italia sono troppi?». Sììì risponde la platea alzando la mano. «Secondo l’Europa sono pochi ma vanno impiegati meglio, in questo senso va la riforma della Pubblica amministrazione». Arriva al lavoro: menu interessante per la platea di imprenditori e giovani start up: «Questa riforma del lavoro è quella più di sinistra possibile». E infine: «Abbiamo recuperato 18 milioni di risorse, grazie a questo nessun dipendente del Pd andrà in cassa integrazione». Sono le 23. Tutti sono arrivati al secondo. Renzi non ha ancora toccato cibo.
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