domenica 9 novembre 2014

Festa continua


Il Muro caduto e l’Europa divisa 
Enzo Bettiza La Stampa 9 11 2014

A un quarto di secolo da quel crollo repentino, Berlino riunificata è un museo a cielo aperto sotto gli occhi di una generazione che, in molti casi, nell’epico novembre 1989 non era neppure nata. 
Venticinque anni sono sufficienti per volgere lo sguardo indietro e per misurare e soppesare l’impatto di un evento che sembrò restituire all’Europa la sua unità storica. Una unità che, riferita al cuore del continente – la Germania – ancora oggi suscita le stesse scettiche perplessità espresse, a suo tempo, da Giulio Andreotti: «Amo talmente la Germania che ne preferisco due», sentenziò. E non fu certo l’unico leader europeo a pensarla in quella maniera. 
Anziché dileguarsi, quei dubbi sembrano essersi rafforzati con il tempo e con i malumori, con le ansie e con le invidie suscitati, in epoca di durissima crisi, dall’ottima salute di cui sembra godere, a paragone con gli altri Stati dell’Ue, la riunificata Germania. Oggi locomotiva economica d’Europa.
In questi giorni di festeggiamenti e di dibattiti, vediamo così ancora una volta la questione tedesca porsi con prepotenza al centro dei problemi di relazione fra i Paesi membri. Al tempo dell’abbattimento del Muro si pensava che il passo risolutivo verso l’unificazione politica e federalistica del continente fosse compiuto. Ma non fu così. Il ritorno d’attualità della centralità tedesca, a un quarto di secolo da quell’emozionante notte del 9 novembre 1989, allarmando la Francia e preoccupando l’Inghilterra, dimostra che la storia non procede necessariamente per passi lineari. Anche l’Italia non ha perso occasione di esprimere perplessità verso la massiccia esondazione tedesca nei confronti dei paesi più deboli. 
C’è da chiedersi che cosa, in questa solenne ricorrenza, esattamente si torni a festeggiare. La fratellanza fra i popoli? Il trionfo della democrazia? La fine di un incubo? Due sono le visioni politiche contrapposte. Una secondo cui la Germania dovrebbe continuare ad europeizzarsi e ad essere, insieme con la Francia, la guida economica e culturale dell’Unione. E l’altra che accusa Berlino di mirare a un controllo egemonico del continente che non tiene conto degli interessi, delle caratteristiche e delle esigenze cui hanno diritto le singole sovranità nazionali.
Quale che sia la visione prevalente, l’ultima parola sul riordinamento politico continentale spetterà, è inevitabile, alla Germania e alla Francia. Una Germania ovviamente rafforzata dalla sua consolidata riunificazione. L’Italia, Paese fondatore dell’Unione, non perda l’occasione per far sentire la sua voce e non resti indietro. Quanto a considerare i ruderi del Muro di Berlino reperti di turismo archeologico buoni per continuare a dipingerci sopra graffiti metropolitani, facciamo attenzione a non dimenticare. Quello di Berlino non è stato l’ultimo muro: basti pensare a Cipro, a Homs in Siria, alle due Coree, alla frontiera Messico-Usa. Se è vero che i muri servono solo a prendere tempo, non lasciamo che i ventotto anni in cui Berlino è stata divisa in due siano trascorsi invano.


Se Germania e Europa non parlano più la medesima lingua 

A 25 anni dalla caduta del Muro, l’integrazione del Paese con il resto della Ue è riuscita soltanto in parte. Creando nuovi problemi

Gian Enrico Rusconi La Stampa 9 11 2014

È straordinario come muta il giudizio sulla caduta del Muro di Berlino venticinque anni dopo. Dell’emozione suscitata da quell’evento e della sua immensa risonanza mondiale rimane soltanto una enfatica reiterazione mediatica. 
E le memorie rivisitate dei protagonisti che raccontano la storia come se avessero saputo come sarebbe andata a finire. Invece nessuno lo sapeva. Alle speranze per l’inizio di una nuova età di democrazia e benessere generalizzato in Europa ha fatto seguito la disillusione, non per la riunificazione tedesca in sé, le cui conseguenze immediate sono state presto metabolizzate, ma per gli effetti inattesi che si sono rivelati sulla - relativamente - lunga distanza. La congiuntura politica oggi è radicalmente cambiata. L’Europa è cambiata. 
Il nesso tra riunificazione tedesca e trattati costitutivi dell’Unione Europea ha cambiato di segno la situazione. Nel nuovo contesto la Germania è diventata protagonista sollevando sentimenti controversi e ambivalenti: potenza egemone o nazione di riferimento? La Germania invece di europeizzarsi definitivamente tenta di imporre una Europa germanizzata? È sensato ritirare fuori, come fa certa pubblicistica, lo spauracchio del Quarto Reich che venne evocato proprio nel 1989-90 (anche da parte di celebrati studiosi e letterati), salvo poi scomparire tacitamente negli anni successivi? 
Dopo la caduta del Muro e la riunificazione in meno di un decennio i tedeschi – contrariamente ai loro timori e lamenti iniziali per presunte minacce alla loro sovranità e soprattutto per l’enorme sacrificio di abbandonare il forte, stabile, rassicurante marco a favore di un incerto euro – hanno intrapreso una doppia integrazione. Integrazione interna con il sostanziale ricupero e rilancio economico delle regioni ex Ddr e integrazione europea, culminante nei trattati che si sono succeduti e perfezionati dopo Maastricht. La prima è riuscita, la seconda no. O quanto meno è riuscita solo in parte, creando nuovi problemi. 
Cominciamo dall’integrazione interna. Accanto a una importante storiografia sulla «rivoluzione democratica», sui movimenti per i diritti, a una analisi del capillare penetrante sistema spionistico-repressivo (Stasi), c’è stata una sterminata pubblicistica sulla ex Ddr, quasi una saga sulla Ostalgie, sulle diatribe tra Wessis e Ossis, ma anche una letteratura giovane e una cinematografia originale. È un modo tutto tedesco di continuare la Bewältigung dell’«altro passato che non passa».
Ma ci sono altri segnali ancora più significativi. Chi poteva immaginare nel 1989 che avremmo visto oggi ai vertici dello Stato tedesco due personalità formatesi nella Ddr? Mi riferisco alla cancelliera Angela Merkel e al presidente della Repubblica Joachim Gauck. Due personalità diversissime eppur rappresentative. Da un lato una singolare figura di donna, vissuta nel sistema Ddr senza intima adesione ma anche senza aperta opposizione, concentrata sulla propria attività professionale tecnica. Poi nel 1989-90 ha un sorprendente risveglio politico che, con un sicuro istinto nello scegliere le nuove parti politiche, le fa compiere una fulminante carriera nella Cdu mostrando competenza e straordinario talento tattico. Oggi è la cancelliera più popolare in Germania e temuta dai governi, non solo europei. Completamente diverso è il passato del presidente Gauck: pastore protestante, attivista dei diritti civili, tenace combattente per la libertà, responsabile della Commissione per il controllo dello scioglimento della Stasi e della documentazione spionistica lasciata. Merkel e Gauck sono due facce diverse dell’esperienza Ddr: quanto questa loro esperienza si riflette nel ruolo che svolgono ora ai vertici della nazione tedesca? 
Ma qui vorrei ricordare anche l’oscura figura di un ufficiale russo dei servizi segreti sovietici che sino al 1991 operava nella Germania orientale, a Dresda, presso la Stasi e ora è il potente e indiscusso presidente della Russia e temibile antagonista dell’Occidente, Vladimir Putin. Dal cuore della Germania Putin ha colto in prima persona il nesso tra la caduta del Muro e la politica fallimentare di Mikhail Gorbaciov, preludio al tracollo dell’intero sistema sovietico. Oggi in troppe ricostruzioni storiografiche della riunificazione tedesca e delle sue immediate conseguenze si sottovaluta il ruolo (spesso inconsapevole) di Gorbaciov. Ma l’allora oscuro colonnello Putin ha capito meglio di altri il senso di quello che stava accadendo e ne ha tratto le conseguenze oggi nella sua politica di confronto con l’Occidente. Con il dopo-Muro infatti l’Occidente ha goduto di un’espansione verso l’Oriente europeo (con l’estensione dell’Ue e della Nato) che fatalmente ha urtato contro il suo limite/confine ultimo. Questo spiega il comportamento di Putin nella crisi russo-ucraina. Ma non è paradossale che due tra i politici più importanti in Europa e interlocutori della più recente grave crisi sul continente europeo, Angela Merkel e Vladimir Putin, abbiano potuto osservare da una posizione defilata eppure interna gli accadimenti del 1989-90? 
Torniamo alla Germania degli Anni Novanta che ha affrontato passaggi molto impegnativi, dalla ricostruzione economica delle regioni orientali all’assestamento nel nuovo contesto internazionale. Soprattutto ha investito con lungimiranza sulla costruzione dell’Unione Europea, dai trattati di Maastricht alle altre iniziative comuni, tra cui decisiva è stata l’introduzione della moneta comune. Quello che i competitori della Germania consideravano un modo legittimo ed efficace di tenere sotto controllo la virtuale potenza tedesca si è trasformato in strumento altrettanto legittimo ed efficace per una nuova fase espansiva economica della Germania. 
È una fase in via di chiusura? La crisi che dal 2008 attanaglia ancora l’Europa ha imposto alla Germania la prova più impegnativa. Si trova sotto la pressione di partner europei perché vengano rivisitate alcune regole e accordi sorti proprio da quel complesso di eventi (sintetizzati nella parola «Maastricht») che sino a ieri si pensava fosse l’asse saldo e portante attorno al quale costruire e rafforzare l’identità politica, economica, culturale dell’Europa e della Germania stessa. Ma l’impresa si rivela difficile e soprattutto divisiva. 
L’euro, che doveva essere un «bene comune», si è trasformato in strumento di sperequazione che rischia di essere distruttivo non solo per i popoli con economie deboli e inadempienti ma per gli stessi tedeschi. L’introduzione dell’euro avrebbe dovuto anticipare l’unione politica avendo come stella polare la federazione europea come superamento delle dimensioni nazionali verso una sovranità condivisa. Invece l’andamento della moneta ha esaltato le sovranità nazionali, alterando il concetto stesso di sovranità.
«Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa» è stato il Leitmotiv della cancelliera Merkel nei momenti critici degli scorsi anni – con il sottinteso che l’euro, per non fallire, deve essere governato secondo i criteri definiti da Berlino. In questo senso la Germania sta mettendo in gioco tutta la sua influenza affinché gli interventi correttivi e le «riforme» dichiarate necessarie non mettano a repentaglio quella che essa ritiene l’irrinunciabile struttura economico-finanziaria dell’Unione. 
Il punto è che all’interno dell’apparato istituzionale complessivo che costituisce l’Unione Europea non sono all’ordine del giorno piani alternativi alla linea di Berlino, che di fatto è accolta anche dai responsabili dell’Unione nonostante reticenze e verbosità. Il problema quindi è come governare l’interdipendenza tra una Germania apparentemente solida, sicura di sé e in grado di condizionare la direzione di marcia dell’Ue e una parte consistente di membri della stessa Unione in forte sofferenza. 
È un errore storico, logico e psicologico mettere sotto accusa la forza di condizionamento della Germania in Europa come espressione di una presunta volontà egemonica del suo gruppo dirigente. Certo: in Europa non si può decidere nulla senza la Germania, tanto meno contro di essa. Questa affermazione suona antipatica, ma contiene implicitamente la sostanza stessa della democrazia nell’Unione: discutere, dibattere, convincere, contestare, al limite minacciare, persino ricattare, senza arrivare alla rottura. È lo stile incarnato con successo dalla cancelliera Angela Merkel. 
L’espressione «egemonia», del resto, usata nella pubblicistica internazionale è accompagnata frequentemente da qualificativi che la limitano: egemonia riluttante, controvoglia, o anche incapace/inadeguata. Quando invece è usata in senso positivo, diventa egemonia pedagogica, pragmatica, quasi etica. Una lettura alternativa è quella che parla della Germania come «nazione di orientamento» o di riferimento. 
La Germania non è responsabile della crisi che ci attanaglia. Molti commentatori tuttavia affermano che essa è responsabile di una mancata uscita dalla crisi stessa, certamente di una uscita rapida e più efficace più di quella che viene ora cautamente annunciata. Soprattutto è opinione condivisa da molti analisti che la Germania ha tratto vantaggi dalla crisi, anzi proprio dai «difetti di costruzione» dell’Unione per quanto riguarda la moneta.
Ma proprio su questo punto si delinea una frattura tra il governo tedesco e gli altri governi europei. I tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano qualcosa che contraddice non solo la lettura ma lo spirito stesso dei Trattati dell’Unione consensualmente sottoscritti, mettendo in seria difficoltà la Germania. Invece per chi vuol modificare alcune regole si tratta di correggere quel «deficit di democrazia» dell’Ue di cui si parla da tempo e che genera in molti la sensazione di una impropria «egemonia» tedesca. Come si vede, le differenze di vedute non sono di poco peso. Spesso europei e tedeschi sembrano non parlare più lo stesso linguaggio. Anzi peggio, in qualche caso il medesimo linguaggio nasconde visioni molto diverse. La perfetta integrazione sognata da tutti gli europei, tedeschi e non, sembra ora rovesciarsi minacciosamente in disintegrazione.  © Eutopia Magazine – creative commons

Le ore prima della Storia

Il 9 novembre 1989 a Berlino fu un errore del portavoce del Partito socialista unificato Schabowski ad accelerare il crollo


9 nov 2014 Il Sole 24 Ore Di Paolo Peluffo

Quale fu la storica posta in gioco che venne decisa, tutta insieme, in un breve tragitto dentro un’auto di Stato che correva, tra le 17.35 e le 17.50 del 9 novembre 1989, dal Palast der Republik di Berlino Est in direzione del Pressezentrum di Mohrenstrasse? Quel pomeriggio del 9 novembre, Guenther Schabowski sfogliò superficialmente i due fogli che gli aveva appena consegnato il suo amico Egon Krenz, da due settimane segretario generale della Sed (Partito socialista unificato di Germania). E arrivò impreparato alla conferenza stampa internazionale. La discussione al Politburo della Ddr era ancora in corso. Ma la decisione era presa: dal giorno dopo, 10 novembre, i cittadini della Germania comunista avrebbero avuto il permesso di viaggiare all’estero anche in Occidente, avrebbero ricevuto un passaporto, con una semplice richiesta, senza procedura. In preparazione di ciò, Krenz aveva dato ordine di non sparare alla Volkspolizei, contro eventuali fuggiaschi, già il 3 novembre. Era un tassello fondamentale in una strategia del regime traballante di distensione verso l’opinione pubblica interna, che chiedeva riforme e a Lipsia e Dresda manifestando da settimane, ogni lunedì. Mezzo milione di tedeschi dell’Est avevano protestato, compostamente, il 4 novembre ad Alexanderplatz, reclamando una riforma del socialismo, non la sua cancellazione. Schabowski non era un portavoce professionale, come fu evidente quel giorno. Burocrate, capo del partito di Berlino, aveva cospirato dalla fine di settembre con Krenz per esautorare il falco, il duro, l’irremovibile Erich Honecker, già malato di cancro, eroe antinazista, scampato alle prigioni della Gestapo, costruttore del Muro nel 1961, inflessibile oppositore di Gorbaciov, che alla riunione del patto di Varsavia di Bucarest il 7 e 8 luglio aveva cercato di provocare un intervento armato contro le riforme filo-occidentali in Ungheria. La storia è nota. Il portavoce giunse alla conferenza. Parlò per mezzora di questioni secondarie. Poco prima di andarsene, tirò fuori le due paginette di Krenz. Le lesse. I giornalisti, allibiti, capirono che le frontiere si aprivano. Che venivano concessi i diritti di viaggio e di espatrio in modo illimitato. Il corrispondente dell’Ansa, Riccardo Ehrman, seduto sulla pedana davanti al tavolo da conferenza, fece la domanda fatidica: da quando sarà in vigore? E il portavoce perduto lesse e rilesse i fogli, senza trovare una risposta precisa, si confuse e rispose balbettando «sofort», «ab sofort», ovvero, «immediatamente». Alle 19.17 i telegiornali di tutto il mondo diedero la notizia, la Zdf e la Ard aprirono i Tg con la incredibile novità, captate anche in Germania Est, informarono tutti i tedeschi. Centinaia di migliaia si assieparono ai varchi. Che, lasciati senza ordini, aprirono le porte.
Quale fu dunque la posta in gioco? Che cosa cambiò quell’errore nel corso della storia? Il Muro sarebbe rimasto in piedi, se il disgraziato portavoce avesse risposto correttamente? No. La riunificazione, la Wiedervereinigung di cui nessuno fino a quel giorno aveva mai parlato, sarebbe saltata? No certamente. E allora? Fu il popolo ad abbattere il Muro e tutto quello che c’era dietro. Non fu più il tassello di un processo di riforme.
Commesso l’errore, nessuno a Berlino, tranne il ministro della Stasi, la polizia segreta, Erich Mielke, si accorse della portata di ciò che era accaduto.
Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, era a Berlino Est quella sera, ospite della Banca di Stato, e venne portato in tutta tranquillità al teatro dell’Opera dal primo banchiere della Ddr che era appena giunto dalla riunione del Politburo. Horst Kaminsky minimizzò quanto stava accadendo fuori dal teatro: abbiamo problemi, ma abbiamo un percorso di riforme per risolverli...
Fino all’11 novembre anche a Mosca pensarono di andare avanti tranquillamente sulle riforme politiche. Eppure, il gioco era fatto. Venne meno la possibilità di negoziare con Helmuth Kohl, di attuare un graduale piano che verrà presentato, il 17 novembre, da un leader comunista riformista ben più preparato di Krenz, ovvero il sindaco di Dresda, Hans Modrow: confederazione tra Ddr e Repubblica federale di Germania, unificazione graduale in 3-4 anni; apertura alla Comunità economica europea; riforma della proprietà pubblica dell’economia sul modello italiano dell’Iri e apertura al mercato con una valuta che si rivalutava a tappe; creazione di una proprietà privata accanto ai Konzerne riformati (Honecker aveva abolito le imprese private solo nel giugno 1971!). La prospettiva sarebbe stata la stessa, ovvero l’unificazione. Cosa avrebbe dunque comportato la possibilità di negoziare? Non lo sapremo mai. Il 7 febbraio il segretario di Stato James Baker vola a Mosca e ottiene segretamente da Gorbaciov il via libera per una Germania unificata nella Nato, e cioè non neutrale, prospettiva ancora possibile solo pochi giorni prima. Il cancelliere Helmut Kohl, sempre il 7 febbraio, apre a sorpresa la strada dell’unificazione monetaria, con la concessione di stipendi e risparmi a un cambio tra 1 a 1 e 1 a 2. La Ddr si era sbriciolata. Nessun margine di trattativa rimase a Modrow e a Christa Luft. La riunificazione venne attuata con Sabato 15 novembre a Milano, alle ore 12.30, presso la Sala Viscontea del Castello Sforzesco, si terrà, nell’ambito di Bookcity, l’incontro con gli scrittori e i giornalisti dissidenti di Repubblica Ceca, Polonia e Romania in occasione del 25º anniversario dalla caduta del Muro di Berlino e del comunismo nei Paesi dell’Europa centrale e orientale. Saranno presenti Barbara Torunczyk, attivista e saggista polacca, Martin Machovec, storico ed editore ceco, e Bujor Nedelcovici, scrittore dissidente romeno. Interverranno il giornalista e storico Francesco M. Cataluccio e la giornalista Maria Serena Natale del «Corriere della Sera». l’articolo 23 della Grundgesetz (Legge fondamentale, ovvero costituzione provvisoria) come era accaduto per la riconsegna della Saar da parte francese nel 1857, e non sulla base dell’articolo 146 che prefigurava una nuova Costituzione (Verfassung) per la Germania riunificata.
Vladimiro Giacché nel suo saggio Anschluss - L’annessione (Imprimatur, pagg. 302, € 18,00) ha ben spiegato, anche se con una certa Ostalgie, le conseguenze di una rivalutazione del cambio pari al 450% (altro che parità d’ingresso della lira nell’euro!): la desertificazione industriale dei territori dell’Est, con casi pazzeschi di dissipazione di capitale fisso (per esempio le miniere di potassio di Bishoffenrode; o la casa produttrice di frigoriferi Foron, o la Diesemotorwer di Rostock). Vennero accresciuti i redditi e difesi i risparmi; ma si distrussero i posti di lavoro, considerati «anti-economici» sulla base di una rigida visione del libero mercato impostata da due collaboratori di Kohl come Thilo Sarrazin e Host Teltshink, con la mano ferma di Wolfgang Schauble (sempre lui!).
È certo che la storia del Muro non nacque da una congiura straniera. Fu una conquista tedesca, semmai casuale. Le memorie di Krenz, di Modrow, anche della superspia Markus Wolf, i diversi libri di Kolh, convergono su questa tesi. Lo spiega bene Mary Sarotte in The Collapse. The accidentale Opening of Berlin Wall (Princeton University Press). La presenza americana di Bush padre fu lontana e prudente, giustamente elogiata nell’accurata ricostruzione di Michael Meyer ( L’anno che cambiò il mondo, il Saggiatore, pagg. 286, € 10,90). E ci insegnano che in questo episodio dobbiamo cercare le spiegazioni sul comportamento della Germania di oggi, anche nei confronti dell’unione monetaria.      


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