Eric H. Cline: 1177 a.C. Il collasso della civiltà, Bollati Boringhieri
Risvolto
Vennero dal mare.
Sappiamo il loro nome e poco altro: li chiamiamo "Popoli del Mare" e al
loro arrivo caddero regni millenari e l'intera Civiltà del Bronzo
collassò repentinamente. Dopo, seguirono solo lunghi secoli bui. L'Età
del Bronzo era stata un'epoca di fiorenti commerci, di evoluzione
tecnica e culturale, di rapporti diplomatici internazionali, di sottili
equilibri politici. A lungo si è pensato che il mondo di tremila anni fa
fosse un luogo primitivo, con un'economia ridotta su breve scala, ma
gli ultimi decenni di scavi archeologici hanno invece portato alla luce
un mondo incredibilmente organizzato e vasto, sorprendentemente simile
al nostro, tanto da poterlo definire "globalizzato". Il quadro
archeologico ci restituisce un'organizzazione solida e funzionale, che
sembrava intramontabile, come la nostra, ma che cadde di schianto. Lo
stagno, necessario per ottenere il bronzo delle armi e degli utensili,
proveniva dall'Afghanistan, il rame da Cipro: come il petrolio di oggi,
erano le merci più ambite, e sul loro commercio era fiorita un'intesa
internazionale che coinvolgeva tutti i grandi imperi del Mediterraneo e
della Mezzaluna fertile. I nomi dei regni antichi evocano avvenimenti
lontani - Egizi, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Mitanni, Minoici, Micenei,
Amorrei, Ugariti, Cretesi, Ciprioti, Cananei -, ma le loro vicende sono
così "moderne" che la loro storia suona ormai come un monito rivolto al
nostro mondo.Egizi, Assiro Babilonesi, Minoici e Micenei Che brutto tempo: siamo come gli Ittiti
Un
saggio dell’archeologo Eric H. Cline affronta il collasso delle civiltà
che abitarono il Mediterraneo orientale tra il XIII e il XII secolo
avanti Cristo Variazioni climatiche, migrazioni, relazioni internazionali La fine dell’Età del Bronzo suggerisce (caute) analogie
di Sandro Modeo Corriere La Lettura 9.11.14
Rimettendo
mano a un monumento-monstre iniziato secoli prima, il re ittita
Tudhaliya IV completa, alla fine del XIII secolo a.C., il santuario di
Yazilikaya, nei pressi della capitale Hattusha, a nord-est dell’attuale
Ankara: un intrico di gallerie naturali foderate di bassorilievi col
pantheon dei vicini hurriti, dagli dèi della Tempesta e del Sole alle
dodici divinità ctonie in sequenza seriale. Sigillato dall’icona del
sovrano, il santuario si tradurrà in pochi decenni in un dolente canto
del cigno della stessa civiltà ittita, travolta — insieme a tutte le
altre di area est-mediterranea e mediorientale — da un «collasso»
collettivo che segnerà il requiem dell’Età del Bronzo.
Ora un libro
notevole dell’archeologo Eric H. Cline della George Washington
University ( 1177 a.C. Il collasso della civiltà , Bollati Boringhieri)
ricostruisce per dettagli molecolari proprio quel crollo «di sistema»,
fatalmente evocativo di paralleli con le attuali «crisi» globali: studio
e argomento per certi aspetti unici rispetto a classici — come La fine
del mondo antico di Santo Mazzarino o Collasso di Jared Diamond —
dedicati alle implosioni di singoli imperi e/o civiltà, da Roma ai Maya.
La data del titolo si riferisce alla seconda ondata migratoria,
trent’anni dopo la prima, dei cosiddetti Popoli del Mare, incursori di
provenienza misteriosa (sicula o sarda, anatolica, egea, e molte altre) a
lungo eletti a causa esclusiva se non a capro espiatorio del crollo. Ma
quella data-spartiacque viene avvicinata da Cline risalendo a tutti i
passaggi chiave dei secoli precedenti e ispirandosi esplicitamente, nel
disegno narrativo, a uno spunto di Fernand Braudel, per cui la storia
dell’Età del Bronzo andrebbe scritta «sotto forma di dramma».
Ne
deriva un vero racconto polifonico con digressioni e flashback, montaggi
alternati o paralleli, dove i percorsi fittamente intrecciati di tutti i
popoli coinvolti — Egizi e Assiro-Babilonesi, Ittiti e Mitanni, Minoici
e Micenei, Ciprioti e Cananei — svelano via via le diverse concause del
crash , tra eventi traumatici (la fine di Ugarit, satellite siriano
dell’impero ittita) e crisi latenti che precipitano (il «declino»
preesistente al «collasso», come in molti altri casi). Il tutto
attraverso prove archeologiche (ma anche filologiche, artistiche,
storico-economiche) aggiornate agli ultimi anni di ricerca e utili per
entrare nel nucleo di una disciplina caratterizzata da una durezza
prosaica (le ore trascorse su un’impalcatura, sotto il sole rovente, per
trascrivere un geroglifico) o dalla casualità di tante scoperte, opera
ad esempio di contadini, pescatori di spugne o conducenti di bulldozer.
Nel
ripercorrere i tre secoli antecedenti l’arrivo dei Popoli del Mare (dal
XV al XIII a.C., ognuno visto come un «atto» del dramma), Cline
evidenzia la complessa trama di incontri/scontri e
contrapposizioni/assimilazioni in quel sistema-mondo. Il paesaggio di
fondo è l’intrico delle «relazioni internazionali», ben riassunto, tra
le altre, da un’eclatante prova documentaria: la «nave di Uluburun» del
1300 a.C., diretta da est (Egitto o Israele) a ovest (forse Rodi) e
naufragata con tutte le merci caricate nei vari scali, dal rame cipriota
allo stagno afghano (le due materie prime per il bronzo degli
eserciti), passando per un ventaglio che comprende ebano della Nubia,
vetro mesopotamico, anfore cananee, scarabei sacri egizi, spade, pugnali
italo-greci. Questo carico è il concentrato simbolico di una rete di
rapporti sotto cui preme, va da sé, una profonda ambivalenza: da una
parte, gli embarghi (quelli ittiti verso Micenei o Assiri) o i tanti
conflitti con le relative, decisive battaglie, come quella di Qadesh tra
Egizi e Ittiti (1274 a.C.); dall’altra, la diplomazia a base di doni
reciproci, trattati e matrimoni tra regni (come quelli successivi
proprio alla battaglia di Qadesh) e i metissage artistici, documentati
già nei sublimi affreschi minoici, cioè cretesi, nel palazzo di Tuthmose
III a Perunefer (1477 a.C.), di cui si è recuperata, purtroppo, solo
una minima parte.
Approdando al 1177 a.C. — anno della «vittoria di
Pirro» di Ramses III contro i Popoli del Mare, evento registrato in
altre pitture murali, quelle di Medinet Habu — Cline non si limita a
ridimensionare l’incidenza dei presunti invasori, ricordandone, oltre
all’incertezza etnica, quella identitaria (tra predoni e semplici
migranti), ma relativizza tutti gli altri cofattori causali, ognuno dei
quali, da solo, non è spiegazione esaustiva. Non lo sono i terremoti
(«seriali» o isolati), dato che sia Ugarit che Micene si erano ripresi
dopo i sismi del 1250 a.C.; non lo sono le carestie, come quelle
drammatiche affrontate dagli Ittiti nel XIII secolo, con richieste di
grano agli Egizi; non lo è l’esplosione di rivolte intestine anche
estreme, come quella della confederazione di Assuwa (di nuovo contro gli
Ittiti); non lo è nemmeno l’indebolimento del commercio «a lunga
distanza», dato che Ugarit mantiene intatta la sua rete fino a poco
prima del collasso.
In quest’ottica, quindi, Cline non può che
arrivare a una saggia conclusione multifattoriale (la «tempesta
perfetta», che non necessita dell’evocazione un po’ gratuita della
teoria della complessità) e a un’altrettanto cauta — e condivisibile —
ipotesi sul fatto che i presunti invasori (Popoli del Mare o altri)
fossero spesso nomadi o migranti tesi a occupare (e a rifondare) aree
già in crisi se non abbandonate.
Il punto chiave, però, è un aspetto
(il mutamento climatico) che Cline considera estesamente (con prove
consistenti sugli indici di siccità del tempo), senza arrivare a
valutarlo, come forse invece è, il fattore prevalente o di
innesco/amplificazione del domino. Se ricorriamo alla Storia culturale
del clima di Wolfgang Behringer, vediamo infatti come proprio il clima
determini nell’Età del Bronzo collassi in altri periodi delle aree in
questione e in altre aree del periodo considerato.
Un primo
collasso, infatti, si ha già nel 2150 a.C., quando nel periodo boreale
sia l’Egitto che la Mesopotamia affrontano un calo di precipitazioni e
le conseguenti carestie; mentre un’altra crisi egizia (la «Little Dark
Age») coincide con un nuovo deficit di inondazioni del Nilo intorno al
1768 a.C.. Quanto alla crisi di sistema del 1200 a.C., è estesa anche a
regioni asiatiche come il Rajasthan (dove un’alterazione del monsone
porta tra 1300 e 900 a.C. a una riduzione del 70% delle piogge) o la
Cina del tramonto della dinastia Shang (finita nel 1122), dove il sole è
coperto dalla «nebbia secca» e le acque del Fiume Giallo dal ghiaccio
notturno. In tutte queste fasi, la siccità determina crisi
agro-alimentari che scatenano o almeno amplificano tutti i fattori
evocati da Cline: la delegittimazione politica del sovrano e del
Palazzo, le conseguenti rivolte, gli abbandoni delle città-stato.
Quanto
all’inevitabile attivarsi di paralleli/paragoni tra il dissolvimento
del sistema-mondo del 1200 a.C. (o tra altri crolli imperiali, a partire
da quello romano) e la crisi del nostro (a partire dal «declino»
dell’Occidente), si tratta di una pulsione naturale da manovrare con
cautela; di un tentativo, non sempre fondato, di proiettare schemi del
passato («invarianze» istruttive) in possibilità previsionali. A colpo
d’occhio, tra l’Età del Bronzo e oggi risaltano drastici salti
demografici (100 milioni di abitanti contro 7 miliardi), economici
(dall’economia di scambio alla finanza) e tecnologici (tra le tavolette
accadiche e un iPad c’è una sovrapposizione solo geometrica). Dopo di
che, non c’è dubbio che certe sollecitazioni andrebbero colte, per
esempio proprio sul mutamento climatico. Quando le divinità dei loro
pantheon «meteorologici» bloccavano le piogge (l’accadico Adad che
«volge le spalle» al popolo), le comunità incolpavano la cattiva
mediazione del sovrano (il Gran Re ittita verso il «dio delle
Intemperie»); oggi, al contrario, siamo indulgenti e inerti con un
establishment politico-economico che continua a sottovalutare l’impatto
dell’attività antropica. Forse perché lo siamo, prima ancora, con noi
stessi, convinti di poter esorcizzare l’allarme climatico con qualche
film apocalittico o qualche residuo di utopia ecologista.
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