mercoledì 19 novembre 2014

La lotta armata in italia 1969-72: un libro


Gabriele Donato: La lotta è armata. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972)Derive-Approdi

Risvolto
«La lotta è armata»: questo doveva essere il messaggio diffuso dalla foto della pistola puntata alla tempia dell.ingegner Macchiarini, nel marzo del 1972. Le parole sono di Renato Curcio, e si riferiscono al primo sequestro-lampo realizzato dalle Brigate Rosse. Si trattò di un episodio rilevante: i brigatisti avevano deciso di passare definitivamente all'azione. D'altro canto, quella primavera non ebbe un attimo di pace: pochi giorni dopo morì Giangiacomo Feltrinelli, mentre il maggio fu segnato dall.omicidio del commissario Luigi Calabresi. Quali fattori determinarono un'escalation tanto drammatica? Per quali ragioni tanti gruppi della sinistra extra-parlamentare considerarono persuasiva l'ipotesi della violenza? Perché la tentazione del ricorso ad azioni terroristiche si rivelò tanto seduttiva? Questi sono gli interrogativi affrontati dal testo: la ricerca di Gabriele Donato propone una riflessione attenta sulle motivazioni che spinsero tante e tanti a scegliere la lotta armata, e analizza le argomentazioni grazie alle quali tale scelta trovò una legittimazione negli ambienti dell.estrema sinistra. Il lavoro si concentra sull'evoluzione delle elaborazioni di gruppi come Potere Operaio e Lotta Continua, e la confronta con la proposta politica delle prime Brigate Rosse: l'esame attento di giornali e documenti dà vita a una comparazione dettagliata, arricchita dall.utilizzo sistematico di fonti di altro genere: interviste e autobiografie in modo particolare.

Nell'Italia anni Settanta le parole erano proiettili. E uccidevano davvero

La retorica della rivoluzione e dell'odio di classe generò una tremenda scia di sangue. Ma oggi gli slogan, in contesti diversi, tornano ancora

Mario Cervi - il Giornale Mer, 19/11/2014

Indagine sull’origine degli anni di piombo
Dalla frustrazione per le aspettative deluse al terrorismo Gabriele Donato ricostruisce le cause che portarono alla violenza politicadi Silvana Mazzocchi Repubblica 30.11.14
DALLA contestazione radicale alla lotta armata, dalle manifestazioni di piazza dell’autunno caldo ai morti. Dopo tanti libri, saggi, autobiografie e testimonianze sugli anni comunemente definiti di piombo, un giovane storico, Gabriele Donato, ha scelto d’indagare sulla nascita della violenza e del sangue, e di ricostruire le motivazioni che spinsero tanti militanti dell’estrema sinistra ad abbandonare le lotte alla luce del sole per imboccare la strada della clandestinità e delle armi. Alla domanda del perché venne scelto il terrorismo per «farne territorio di pratiche collettive», aprendo quel tragico decennio che avrebbe cambiato per sempre il Paese, Donato tenta di dare una risposta in La lotta è armata, Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia 1969-1-972 ( DeriveApprodi), un saggio che centra l’obiettivo e che, forte di centinaia di testi e documenti consultati (biografie, testimonianze, opere storiche, inchieste giornalistiche e atti giudiziari), punta a raccontare come venne proposto, discusso e assorbito il tema della violenza politica da tutte le componenti di quella piccola folla che costituiva la sini- stra più estrema.

Non c’è una tesi univoca nella ricostruzione di Donato, ma un mosaico di ragioni possibili, di cui una centrale. In quegli anni si era fatta spazio l’idea che presto il Paese sarebbe insorto grazie alla radicalizzazione delle lotte e i militanti dei gruppi e gruppetti extraparlamentari consideravano l’esito rivoluzionario quasi un’evoluzione naturale dell’aspra conflittualità sociale che avevano vissuto. Ma il 12 dicembre 1969 la doccia fredda della strage di Piazza Fontana mostra il volto buio delle istituzioni. Ne seguì una repressione diffusa e sempre più dura da contrastare fino al 1972 quando l’uccisione del commissario Luigi Calabresi rese evidente di quanto l’asse politico della sinistra conflittuale si fosse ormai spostato verso l’illegalità. Fu però soprattutto la rinascita dei partiti riformisti a contribuire al disincanto di quanti di quelle “illusioni insurrezionaliste” si erano nutriti. E la loro egemonia ebbe la meglio sul movimento operaio e sulle lotte sociali, tanto che la forbice tra le aspettative rivoluzionarie e la capacità di recupero delle forze moderate si allargò al punto da risultare incolmabile..
Fu dunque la frustrazione per le aspettative rivoluzionarie deluse a provocare la violenza terroristica? Lo scenario ricostruito da Gabriele Donato fa emergere questa ipotesi. Si parte dai due gruppi di maggiore impatto dell’epoca , Potere Operaio e Lotta Continua, con i loro dibattiti, percorsi e prese di posizione, spesso contigue alla violenza politica; ma è la nascita del Collettivo politico metropolitano a Milano a dare la spinta maggiore a un dibattito interno che farà prevalere l’organizzazione, l’illegalità e la clandestinità finalizzate alla lotta armata. Anticamera delle Brigate rosse.



Oltre la fine dell’innocenza 
Anni Settanta. In due libri, a firma di Monica Galfrè e Gabriele Donato, la lotta armata e l’uscita dal terrorismo. Come la guerra allo Stato divenne una «possibilità», dopo l’autunno caldo nelle fabbriche e non a seguito della strage di piazza Fontana

Andrea Colombo, il Manifesto 20.12.2014 
Ita­lia, 1969–1972: di armi ne par­lano in molti. Mino­ranze, certo, ma signi­fi­ca­tive e per nulla esi­gue. La que­stione tiene banco nel vasto movi­mento rivo­lu­zio­na­rio che, nato nelle uni­ver­sità del 1968, si è a sor­presa esteso l’anno suc­ces­sivo nelle fab­bri­che. È argo­mento cen­trale nella discus­sione e nella ela­bo­ra­zione dei prin­ci­pali gruppi della sini­stra extra­par­la­men­tare.
Non si tratta di un gene­rico dibat­tito sulla legit­ti­mità o meno dell’uso della vio­lenza. Quella, almeno sulla carta, è rico­no­sciuta da tutti: costi­tui­sce il vero e prin­ci­pale discri­mine con la sini­stra isti­tu­zio­nale. Si tratta invece di un ben più con­creto que­stio­nare sulla neces­sità di un imme­diato ricorso alle armi. Subito, non in un indi­stinto futuro rivoluzionario. 
Ita­lia, 1980–1987: quelle armi, a par­tire dai primi ’70, qual­cuno le ha impu­gnate dav­vero. Una mino­ranza anche que­sta, ancor più che nel decen­nio pre­ce­dente, ma non tra­scu­ra­bile. Nep­pure in ter­mini nume­rici: una decina di migliaia di per­sone armate o fian­cheg­gianti, un’area con­ti­gua dop­pia o tri­pla, un bacino di sim­pa­tiz­zanti che Sabino Acqua­viva sti­mava sulle 300mila per­sone. Se il movi­mento rivo­lu­zio­na­rio dei primi ’70 aveva dato vita al con­flitto sociale più aspro e pro­lun­gato in un paese avan­zato nel dopo­guerra, quello armato (che ne costi­tui­sce la coda) ha segnato nella stessa area la prin­ci­pale espe­rienza di lotta armata dopo l’Irlanda del nord, caso molto spe­ci­fico e non comparabile. 

I conti con una generazione 
Alla fine del 1980 e poi per tutto l’anno suc­ces­sivo i feri­menti, le ucci­sioni si ripe­tono ancora a sca­denza quo­ti­diana, ma è già chiaro che si tratta di una fase ter­mi­nale. La par­tita è chiusa. Si affac­cia così, pur in mesi tra­ver­sati da vio­lenze d’ogni sorta da parte sia delle orga­niz­za­zioni armate che dello Stato, un que­sito fino a pochi mesi prima inim­ma­gi­na­bile: come uscire dall’emergenza. Come chiu­dere il conto con una intera gene­ra­zione poli­tica e con un ciclo che ha visto vio­lare su tutti i fronti le regole fon­danti dello Stato demo­cra­tico. Il tema si impone sem­pre più via via che la scon­fitta dei gruppi armati si pro­fila come totale e irre­ver­si­bile. La discus­sione, sen­tita da tutti come dram­ma­tica e deter­mi­nante, segnerà l’intero decen­nio ’80. 
All’inizio e alla fine di quella sto­ria, oggetto ormai di una biblio­gra­fia masto­don­tica, sono dedi­cati due libri arri­vati insieme nelle libre­rie. La lotta è armata. Sini­stra rivo­lu­zio­na­ria e vio­lenza poli­tica in Ita­lia (1969–1972), di Gabriele Donato (Deri­veAp­prodi, pp. 380, euro 23) e La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal ter­ro­ri­smo 1980–1987, di Monica Gal­fré (Laterza, pp. 252, euro 22). Entrambi ottimi. entrambi utili non solo per com­pren­dere la genesi e l’epilogo del feno­meno armato ma anche, forse soprat­tutto, per il qua­dro della sto­ria ita­liana recente che resti­tui­scono.
Donato riporta e ana­lizza il dibat­tito di allora sull’uso imme­diato della armi lavo­rando sui docu­menti e sui testi invece che su una memo­ria­li­stica gio­co­forza infe­dele. Dimo­stra così, tra l’altro, l’inconsistenza della tesi, spesso ela­bo­rata a poste­riori, secondo cui la scelta armata sarebbe dipesa dalla strage di piazza Fon­tana, con annessa «fine dell’innocenza». Il lavoro di Donato dimo­stra invece che quella pos­si­bi­lità ini­zia, sì, a essere con­si­de­rata rea­li­sti­ca­mente alla fine dell’autunno del ’69, ma molto più in con­se­guenza dell’esito dell’autunno caldo che non della strage del 12 dicem­bre.
Nella pri­ma­vera di quello stesso anno, nelle grandi fab­bri­che e soprat­tutto alla Fiat, le lotte ope­raie auto­nome ave­vano messo fuori gioco i sin­da­cati, tagliati fuori da un ciclo con­flit­tuale che non ave­vano pre­vi­sto, voluto e tanto meno gestito. Nel corso dell’autunno, con­tra­ria­mente alle attese della sini­stra rivo­lu­zio­na­ria, i sin­da­cati ave­vano saputo rin­no­varsi pro­fon­da­mente sino a recu­pe­rare e anzi aumen­tare il con­trollo sulla mobi­li­ta­zione ope­raia. E’ que­sto recu­pero da parte del sin­da­cato, a fronte di un livello altis­simo di forza ope­raia nelle fab­bri­che, che con­vince i gruppi più radi­cali (il Col­let­tivo poli­tico metro­po­li­tano di Milano da cui nasce­ranno le Br, Potere ope­raio, il Gap di Fel­tri­nelli e Lotta con­ti­nua) della neces­sità di spo­stare lo scon­tro sul piano poli­tico, quello della guerra con­tro lo Stato, gra­zie all’azione for­te­mente sog­get­tiva dell’avanguardia armata. e dun­que affi­dan­dosi alle armi, pena una scon­fitta ope­raia di por­tata sto­rica. Le bombe del 12 dicem­bre com­ple­tano l’opera, con­vin­cendo molti, nella sini­stra rivo­lu­zio­na­ria ma anche in quella isti­tu­zio­nale, della pos­si­bi­lità immi­nente di una dra­stica svolta auto­ri­ta­ria.
Secondo alcuni, come Gap e Cpm, la con­trof­fen­siva si svi­lup­perà col golpe, secondo Po, invece, imboc­cherà una via oppo­sta, inglo­bando «i rifor­mi­sti» nelle mag­gio­ranze di governo. Ma il punto di par­tenza, l’obbligo di por­tare il con­flitto armato fuori dalle fab­bri­che è comune. Le ipo­tesi stra­te­gi­che che si svi­lup­pano di qui sono diverse, spesso oppo­ste. Vanno dal par­tito clan­de­stino e del tutto svin­co­lato dalle lotte di massa delle Br a una sorta di dop­pio livello teo­riz­zata da Po fino a una sorta di «inter­nità armata» ai con­flitto sociali su cui punta in alcune fasi Lc. 

Fuori dall’emergenza
Donato non fa sconti ai teo­riz­za­tori del con­flitto armato. Ne evi­den­zia i limiti, i mador­nali errori, le pre­sun­zioni, a volte i vaneg­gia­menti. Però non riduce mai quel dibat­tito all’immagine cari­ca­tu­rale e demente che viene da decenni dipinta. Quei temi erano del tutto interni alla logica del movi­mento comu­ni­sta del secolo e si misu­ra­vano, senza riu­scire a risol­verlo, con un dilemma reale. La temuta scon­fitta ope­raia, in effetti, si è poi pun­tual­mente veri­fi­cata. In forme più schiac­cianti di quanto nes­suno potesse allora pre­ve­dere.
Il libro di Monica Gal­fré, altret­tanto denso anche se neces­sa­ria­mente meno spe­ci­fico, tira invece le somme di una fase di gran­dis­sime spe­ranze e poten­zia­lità. Parte dalla sin­go­la­rità di una situa­zione nella quale, all’inizio degli ’80, il mas­simo di repres­sione (con tanto di tor­ture e vio­la­zioni gravi dei diritti costi­tu­zio­nali) si accom­pa­gna ai primi sprazzi di «desi­stenza», alla presa di coscienza di dover pre­sto uscire dall’emergenza. 
Pro­se­gue det­ta­gliando una discus­sione a tutto campo quale oggi sarebbe let­te­ral­mente inim­ma­gi­na­bile sulla fun­zione della pena, la riforma car­ce­ra­ria, la neces­sità di coniu­gare le neces­sità della sicu­rezza con quelle dell’umanità, l’urgenza di ripor­tare la magi­stra­tura nei con­fini del pro­prio ruolo, ampia­mente var­cati nel corso dell’emergenza. 
È un dibat­tito a cui par­te­ci­pano tutti, par­titi, gior­nali, Chiesa, magi­stra­tura, e in cui le posi­zioni mutano nel tempo, come nel caso del Pci, ini­zial­mente con­tra­rio poi favo­re­vole alla legge sulla dis­so­cia­zione. Il per­corso della legge in que­stione sino alla sof­ferta appro­va­zione (in ver­sione però molto diversa da quella ori­gi­nale) e in gene­rale il per­corso delle aree omo­ge­nee sono la colonna ver­te­brale della nar­ra­zione, ma non la esau­ri­scono affatto. Intorno a quella legge si arti­co­lava una quan­tità di temi molto più ampi gene­rali e profondi. 
Non è vero che quella sta­gione è pas­sata senza lasciare trac­cia: il rap­porto con la pena deten­tiva è cam­biato allora, la parola «riso­cia­liz­za­zione» ha smesso di essere un bal­bet­tìo privo di senso e, sia pur per vie tra­verse e ipo­crite. lo Stato ha cer­cato nel decen­nio seguente una via per chiu­dere l’emergenza ma senza doverla rin­ne­gare o anche solo ripensare. 
Riper­cor­rendo oggi quelle discus­sioni è dif­fi­cile evi­tare un para­gone scon­for­tante con la mise­ria delle rifles­sioni del pre­sente. Ma forse pro­prio quel dibat­tito, se ci fosse stato il corag­gio di por­tarlo fino sino in fondo invece di affi­darsi all’eterna ipo­cri­sia del potere ita­liano, rap­pre­sentò l’ultima occa­sione per evi­tare la dege­ne­ra­zione in cui, subito dopo, l’Italia post-emergenziale è precipitata.

L’illusione dell’assalto al cielo
Anni Settanta. «La lotta è armata» di Gabriele Donato per DeriveApprodi. La concezione della violenza negli anni Settanta a partire dall’analisi critica dei testi della sinistra extraparlamentare di allora
La que­stione è molto sem­plice: come altre che l’hanno pre­ce­duta e che la segui­ranno, anche quella sta­gione di lotte e di grande inno­va­zione sociale e cul­tu­rale è stata inner­vata nel suo insieme dalla vio­lenza poli­tica, e non c’è gruppo comi­tato o sin­golo mili­tante che non si sia misu­rato con pra­ti­che mili­tari ad ogni livello – par­te­ci­pan­dovi, con­di­vi­den­dole o anche solo ammet­ten­dole, oppure pren­dendo da esse delle distanze sem­pre relative-, da quella del ser­vi­zio d’ordine a pro­te­zione di una mani­fe­sta­zione a quella dell’attentato a sezioni di par­tito o a sedi di mul­ti­na­zio­nali, per arri­vare alle rapine per auto­fi­nan­ziarsi, ai seque­stri, ai feri­menti e infine, nella fase dispe­rata e ter­ro­ri­stica, agli omicidi.
Vio­lenza poli­tica quindi, non vio­lenza cri­mi­nale. Vio­lenza che nasce come cate­go­ria, come oggetto di stu­dio e ana­lisi a par­tire dalle espe­rienze del movi­mento ope­raio e che suc­ces­si­va­mente trae ali­mento dal modo in cui le lotte si mani­fe­stano, dure e senza media­zione, e poi si espande e mol­ti­plica per rea­zione alla repres­sione giu­di­zia­ria e mili­tare dello stato e alla con­danna al «pur­ga­to­rio della lotta di classe» emessa dalla poli­tica delle riforme. Coe­ren­te­mente, Gabriele Donato non è inte­res­sato ai fatti, che com­pa­iono qua e là nelle pagine a puro titolo esem­pli­fi­ca­tivo, quanto alle idee, alla con­vulsa e tor­men­tata ela­bo­ra­zione delle teo­rie che accom­pa­gna la pra­tica delle lotte nei quat­tro anni cru­ciali 1969, 1970, 1971 e 1972. Al ter­mine di un pode­roso lavoro di ricerca, cita­zioni essen­ziali pro­ve­nienti dalle tante offi­cine delle idee, ovvero arti­coli, docu­menti e tra­scri­zioni di inter­venti di quell’intenso e fre­ne­tico periodo, ven­gono ripor­tate e ana­liz­zate nel loro con­ti­nuo fron­teg­giarsi e incro­ciarsi, nel loro affan­noso ricer­care la linea e la stra­te­gia spesso in com­pe­ti­zione tra loro, men­tre il movi­mento ral­lenta la sua corsa eppure non indie­treg­gia e men­tre «si mani­fe­stano i primi segni di fru­stra­zione inne­scata dalle aspet­ta­tive rivo­lu­zio­na­rie susci­tate dall’autunno caldo e dal movi­mento degli stu­denti a con­fronto con il pro­gres­sivo ridi­men­sio­na­mento dei livelli di anta­go­ni­smo favo­rito dall’imprevista capa­cità di recu­pero delle orga­niz­za­zioni riformiste».
A distanza di oltre quarant’anni quei testi che oggi Gabriele Donato torna, impla­ca­bile e anche impie­toso, a leg­gere e inter­pre­tare sono irri­me­dia­bil­mente datati. Per il Col­let­tivo Poli­tico Metro­po­li­tano la «vio­lenza non è un fatto sog­get­tivo, è un’istanza morale; essa è impo­sta da una situa­zione che è ormai strut­tu­ral­mente e sovra­strut­tu­ral­mente vio­lenta». Di lì a poco Sini­stra Pro­le­ta­ria e le Bri­gate Rosse sce­glie­ranno la pro­spet­tiva della guerra di lunga durata, e la clan­de­sti­nità mili­tante come con­di­zione per meglio condurla.
Potere Ope­raio è la for­ma­zione che più a fondo e più aper­ta­mente indaga e appro­fon­di­sce il tema dell’organizzazione poli­tica per la con­qui­sta del potere in quello che già all’epoca da qual­cuno dei mili­tanti viene per­ce­pito come un «paros­si­stico dibat­tito sul par­tito»; la rot­tura della tre­gua sociale è la prio­rità asso­luta, così come la pro­gram­ma­zione della vio­lenza aperta come scelta sog­get­tiva con­tro lo stato per rom­pere la sta­gna­zione, ban­dendo la discon­ti­nuità e la rot­tura come un’arma per «non essere scon­fitti dalle riforme». Si scrive in Potere Ope­raio set­ti­ma­nale: «Il pro­blema che si pone non è vio­lenza o non vio­lenza. Ma quale vio­lenza: la loro o la nostra». In Lotta Con­ti­nua a lungo si ritiene che l’area rivo­lu­zio­na­ria non abbia biso­gno di porsi obiet­tivi orga­niz­za­tivi che non siano quelli posti dall’urgenza dello scon­tro all’interno delle fab­bri­che; nell’estate del 1971 tut­ta­via anche Lotta Con­ti­nua, pur pren­dendo le distanze dagli «slo­gan este­tiz­zanti» (il rife­ri­mento è a Potere Ope­raio), pro­getta livelli orga­niz­za­tivi sta­bili e per­ma­nenti che la avvi­ci­nano a Potere Ope­raio a pre­scin­dere dai toni aspri con cui all’epoca veniva esor­ciz­zata qual­siasi ana­lo­gia. Rimane ben dif­fe­rente l’approccio, offen­sivo ed espan­sivo in Potere Ope­raio e difen­sivo in Lotta Con­ti­nua, dove sono la repres­sione, la «fasci­stiz­za­zione» dello stato e il poten­ziale stato d’assedio a giu­sti­fi­care l’organizzazione della vio­lenza proletaria.
Pagine estre­ma­mente inte­res­santi e docu­men­tate sono dedi­cate da Donato alla pre­pa­ra­zione, da parte dei gruppi e in par­ti­co­lare di Po, di Lc e del Mani­fe­sto, della gior­nata del 12 dicem­bre 1971 a Milano (secondo anni­ver­sa­rio della strage di stato) e alla linea di demar­ca­zione con il pas­sato che essa rap­pre­senta, così come, per quanto riguarda Lc, alla gestione poli­tica dell’uccisione del com­mis­sa­rio Luigi Cala­bresi, il 17 mag­gio 1972, e alle frat­ture con il pro­prio pas­sato che que­sta com­porta. Dopo il 1972 la ten­denza alla mili­ta­riz­za­zione è comune alle due for­ma­zioni, al di là delle scelte pro­cla­mate di poli­tica gene­rale, e lascia inten­dere le evo­lu­zioni degli anni suc­ces­sivi, quando i livelli orga­niz­za­tivi dei gruppi si scom­pon­gono e si con­so­li­dano nel ten­ta­tivo di sfug­gire alla mano­vra a tena­glia del sistema dei par­titi. Cen­ti­naia di mili­tanti vir­tual­mente con­fi­nati in riserve o ghetti poli­tici faranno di lì a qual­che anno la scelta estrema, eser­ci­tando una vio­lenza sul pro­prio corpo per costrin­gersi a ferire e a uccidere.
La ricerca di Gabriele Donato si ferma qui, prima del nuovo movi­mento del 1977, della sua fol­go­rante vit­to­ria e del suo repen­tino declino, e prima dell’avvento della spe­cia­liz­za­zione ter­ro­ri­stica che pro­durrà l’illusione media­tica e giu­di­zia­ria della guerra civile.
Oggi occu­parsi della vio­lenza poli­tica che attra­versò quella lon­tana sta­gione (senza pre­giu­dizi e senza volerne in alcun modo risol­le­vare le ban­diere o can­tarne le gesta) è neces­sa­rio non solo per col­mare una vora­gine dal punto di vista sto­rico. C’è anche una neces­sità cul­tu­rale o pre­po­li­tica cui por mano. In Ita­lia la ste­ri­liz­za­zione della vio­lenza poli­tica –asso­ciata osses­si­va­mente agli anni di piombo, come se que­sta fosse un male asso­luto anche se si tratta del sabo­tag­gio di un com­pres­sore– ha esor­ciz­zato il cam­bia­mento e ha per­messo l’insediamento di un regime a domi­na­zione asso­luta. Il con­fronto sociale è stato espian­tato con un’operazione in ane­ste­sia totale; e stu­pi­sce anche que­sta volta dover ammet­tere che alcune di quelle scelte radi­cali ed estreme con­te­ne­vano almeno un punto di vista in anti­cipo sui tempi.

La lotta armata Il fascino della violenza plateale
di David Bidussa Il Sole Domenica 26.4.15
Alla fine degli anni ’70, scrive Gabriele Donato nella parte finale del suo libro, «si diffuse la drammatica illusione che le perdite inflitte agli avversari in termini di vite umane, fossero l’unico fattore realmente decisivo nell’equazione che avrebbe dovuto produrre il risultato della rivoluzione».
Il confronto politico sulla lotta armata, giustamente secondo Donato, ha altro significato se letto non nella parabola cupa dell’ultima stagione delle Br, ma prima, negli anni dei movimenti, nei primi anni ’70, piuttosto che alla fine di quel decennio.
La discussione che l’autore ricostruisce attentamente, testimonia, infatti, che la scelta della lotta armata non discende, se non marginalmente, dalla convinzione che in Italia stesse maturando un possibile “golpe”. È conseguente, invece, alla convinzione in alcune aree della sinistra estrema, successiva alle lotte dell’“autunno caldo” del 1969, che occorresse «alzare la posta dello scontro» e che fosse possibile «l’assalto al cielo».
Ciò che segna questa convinzione non è la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), ma le lotte operaie dell’estate di quello stesso anno che in gran parte mettono fuori gioco i sindacati. Nel corso dell’autunno i sindacati in parte recuperano il loro ruolo. Questo recupero, a fronte di un livello altissimo di forza operaia nelle fabbriche, è ciò che convince a spostare lo scontro sul piano politico, quello della guerra contro lo Stato, affidandosi alle armi.
Che la lotta armata fosse una scelta politica fondata sull’idea di vivere un momento decisivo del confronto sociale è provato anche da un secondo fatto su cui insiste opportunamente Donato: quella discussione avviene “in pubblico”.
I documenti che corrono in quegli anni – tra 1969 e 1972, infatti, si trovano sui fogli dei movimenti (Lotta Continua, Potere operaio) il cui interlocutore è soprattutto il Collettivo politico metropolitano (Cpm), la formazione che costituisce l’anticamera delle Brigate Rosse. E sono documenti pubblici.
Che caratteristiche ha quella discussione? Dell’ampia e dettagliata lettura che ne dà Donato, fino alla primavera 1972 l’espressione “lotta armata” allude a significati diversi: azione esemplare, stimolo a un innalzamento dello scontro, raramente sostituzione rispetto alle lotte sociali.
Il sequestro del dirigente della Sit - Siemens Idalgo Macchiarini (3 marzo 1972) cambia il quadro. Un rapimento che dura pochi minuti. Macchiarini viene rinchiuso in un furgone e gli viene scattata una foto: una pistola alla guancia, in primo piano un cartello con la scritta «Mordi e fuggi! Niente resterà impunito. Colpiscine 1 per educarne 100», sovrastato dalla scritta “Brigate Rosse”. La lotta da quel momento è armata.
Quel che poi segue, tuttavia, non è la crescita del conflitto sociale così come Potere operaio, una parte di Lotta Continua e il Cpm ritengono. Il sindacato riuscirà a reggere il confronto contrattuale nell’autunno 1972, la campagna politica contro la Democrazia Cristiana, volta ad accreditare il partito come una forma aggiornata di fascismo, fallisce. La scelta che dal 1973 matura verso la lotta armata che spacca Potere operaio trasforma il Cpm nelle Brigate Rosse, allontana da Lotta continua una parte di quei militanti attratti verso la scelta estremista delle armi: si forma la consapevolezza che un ciclo di lotte si è chiuso.
Si apre una nuova stagione segnata da una violenza che comunica: svalorizzazione del corpo del nemico; fascino per la “bella morte”; estetica dell’atto plateale. Il fine non è creare una nuova condizione rivoluzionaria, bensì dare testimonianza della propria irriducibilità. È una stagione che durerà un decennio e che segna definitivamente un prima e un dopo.

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