lunedì 17 novembre 2014
L'Università è quel posto in cui il Ministero ti prende in giro, tu prendi in giro lui e entrambi ne siete consapevoli. L'importante è compilare la modulistica
Lo scienziato italiano che scopre i falsi dei colleghi
Risultati e articoli inattendibili. La caccia alle manipolazioni nei laboratori
di Elena Tebano Corriere 17.11.14
Enrico Bucci la chiama la «wikileaks della scienza». È un sito scarno,
incomprensibile ai non specialisti: battezzato Pub-peer ( pubpeer.com ),
contiene segnalazioni anonime su articoli scientifici ritenuti
«sospetti». Bucci, biologo napoletano ed ex ricercatore del Cnr, è
partito da lì per indagare la correttezza della scienza italiana. E
insieme cercare il possibile antidoto a un problema che preoccupa la
comunità dei ricercatori (non solo in Italia): il diffondersi crescente
di frodi scientifiche. «Ho analizzato circa 3.500 lavori biomedici
segnalati su Pubpeer — denuncia —, quelli firmati da italiani sono 565:
l’Italia è il secondo Paese dopo gli Usa in termini assoluti, ma il
primo in percentuale sulla produzione scientifica. E l’università con la
maggior percentuale di segnalazioni è la Federico II di Napoli» (dove
Bucci si è formato).
Il luminare suicida
Il fenomeno però è globale: ad agosto uno scandalo su dati falsi ha
indotto al suicidio il luminare giapponese dell’embriologia Yoshiki
Sasai, 52 anni, che non ha retto la «profonda vergogna» di aver
co-firmato senza adeguati controlli il lavoro di una ricercatrice che
usava risultati inattendibili.
«Le carriere scientifiche e l’assegnazione dei fondi di ricerca si
decidono in base al numero di articoli pubblicati su riviste
specializzate — spiega Bucci —. E c’è chi pur di pubblicare falsifica i
risultati degli esperimenti. Ma è molto pericoloso: su quei dati si
decide se investire, per esempio, per sviluppare farmaci».
«Le frodi riguardano tra il 3 e il 5% delle ricerche, salgono al 20%
circa se si considerano altre forme di violazione di standard
scientifici, come la lettura troppo favorevole dei dati — conferma Gerry
Melino, professore di biologia all’Università di Roma Tor Vergata e
fondatore della rivista Cell Death and Differentiation —. A me è
successo di scoprire articoli manipolati come editore e come direttore
di dipartimento». L’ultimo caso è dell’anno scorso.
Il lavoro ritrattato
«Ricercatori del mio dipartimento avevano pubblicato un lavoro su Bmc
Physiology , una rivista inglese. Gli editori o i lettori si sono
accorti che qualcosa non tornava e ci hanno chiesto verifiche», racconta
Melino (l’articolo è segnalato come sospetto anche su Pub-peer).
«Abbiamo chiesto gli originali degli esperimenti ed è risultato che i
problemi riguardavano i dati di una sola ricercatrice, Gabriella Marfe:
le figure riscontrate in laboratorio non corrispondevano a quelle
pubblicate. Le abbiamo chiesto conto e non ha saputo giustificare le
divergenze: è stato molto triste. Era una ricercatrice esterna venuta da
noi per una collaborazione di un anno e le abbiamo revocato
l’ospitalità».
Da allora Melino ha iniziato a interrogarsi sulle misure da adottare per
evitare manipolazioni. Anche perché a differenza di altri Paesi europei
come la Germania (che lo ha introdotto circa 15 anni fa quando due
scienziati sono stati scoperti ad aver falsificato dati in 94 articoli)
l’Italia non ha un codice deontologico per le università, né leggi
specifiche.
Le indagini penali
In alcuni casi interviene la magistratura, anche in Italia. In Umbria
nel 2012 c’è stato il primo processo penale per una frode scientifica:
il professore di gastroenterologia dell’Università di Perugia Stefano
Fiorucci è stato rinviato a giudizio per peculato e truffa con l’accusa
di aver manipolato le immagini di una quindicina di articoli pubblicati
tra 2001 e 2005 e di aver abusato dei fondi pubblici di ricerca
(Fiorucci si è sempre detto innocente).
Al momento c’è un’indagine su otto pubblicazioni prodotte fra il 2001 e
il 2012 dal gruppo di lavoro del professor Alfredo Fusco, professore
ordinario alla Federico II di Napoli (ne ha scritto Luigi Ferrarella sul
Corriere della Sera del 16 ottobre 2013). Fusco e il suo team, che
studia i meccanismi cellulari all’origine dei tumori, sono accusati di
aver usato immagini di proteine o di geni «scattate» in tutt’altri test e
opportunamente duplicate, ribaltate o manipolate per legittimare i loro
risultati. La Procura ipotizza che, falsificando i dati, si siano
appropriati indebitamente di fondi per la ricerca.
La vicenda ha attirato l’attenzione di Nature , che a dicembre in un
editoriale intitolato «Chiamate la polizia» ha proposto di far tesoro
dell’«esempio italiano» e riflettere sulla possibilità di coinvolgere la
polizia nelle indagini sui risultati scientifici. Ma i poliziotti, che
non sono medici o biologi, hanno la formazione adatta per accertare le
manipolazioni su lastre di laboratorio e vetrini cellulari? E cosa
dovrebbero fare: controlli a tappeto su tutti gli articoli pubblicati
dalle università italiane?
Il sistema di controllo
Una possibile soluzione arriva proprio da Bucci, che è anche l’autore
dell’esposto da cui sono partite le indagini della magistratura su
Fusco. Con la sua società Biodigitalvalley Bucci vende infatti analisi
dei dati biomedici e per assicurarsi di usare sempre informazioni
corrette ha sviluppato un apposito software. Il programma, chiamato
Imagecheck, analizza le immagini contenute negli articoli scientifici e
segnala quelle che potrebbero essere manipolate (in biologia le immagini
sono di fatto i «dati» con cui si lavora). «Ho verificato che il 70%
delle segnalazioni su Pubpeer corrispondono agli errori rilevati con la
mia procedura. Un 30% è “borderline”», spiega.
Il software è stato chiesto da alcune importanti riviste scientifiche
internazionali, che lo stanno usando per vagliare i lavori da
pubblicare. Ma Bucci vorrebbe che fosse impiegato in modo sistematico.
«Non può essere solo la mia piccola azienda a fare i controlli — dice —.
Sarei felice di affidare la mia procedura a un’istituzione
internazionale che si faccia carico delle spese per “ripulire” la
letteratura scientifica».
L’appello di Cattaneo
A chiedere a gran voce un «codice deontologico nazionale per la ricerca»
c’è Elena Cattaneo, senatrice a vita e direttore del Centro di ricerca
sulle cellule staminali dell’Università di Milano. «Parte della comunità
scientifica si sta muovendo per risolvere il problema — assicura —. E
sono orgogliosa che questa discussione si sia aperta in Italia». Secondo
lei bisogna agire su tre livelli: «Maggiore autoregolamentazione e
controlli più stretti a livello di singoli laboratori, dipartimenti e
università, che possono prendere le prime sanzioni sui ricercatori
scorretti — dice —. Chi guida i laboratori ha sempre la responsabilità
di mantenere l’integrità etica della ricerca. Se poi i falsi
condizionano l’assegnazione di fondi o la carriera è giusto invece che
intervenga la polizia. Infine, serve una verifica centrale sui
laboratori pubblici».
Alcune istituzioni, come l’Ue, la prevedono già e mandano spesso i loro
ispettori a controllare cosa fanno i laboratori a cui hanno assegnato
fondi. «È urgente prendere provvedimenti — avverte Cattaneo —: la
scienza è per definizione ricerca della verità. Se qualcuno manipola i
dati mina le sue fondamenta e deve essere messo fuori dalla comunità
scientifica. Succede già molto spesso: facciamo in modo che succeda
sempre».
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