Risvolto
Quello che segue non è il racconto romanzesco di una vita immaginata, ma vissuta: un'infanzia, un'adolescenza e una prima giovinezza tra il '41 e il '56. Il cammino di Giacomo fu segnato dall'essersi trovato, fin dai suoi primi anni, a dover contare troppo pesantemente quasi solo su se stesso.
Quello che segue non è il racconto romanzesco di una vita immaginata, ma vissuta: un'infanzia, un'adolescenza e una prima giovinezza tra il '41 e il '56. Il cammino di Giacomo fu segnato dall'essersi trovato, fin dai suoi primi anni, a dover contare troppo pesantemente quasi solo su se stesso.
Questo il cammino di Giacomo, segnato dalla
precoce morte del padre, dal trovarsi, troppo presto, a dover
pesantemente contare quasi solo su se stesso, nella condizione descritta
con tanta efficacia da Albert Camus ne Il primo uomo: "D'ora in avanti
avrebbe dovuto imparare, capire senza aiuto, diventare uomo, senza
l'appoggio dell'unico uomo che mai gli avesse dato una mano, crescere
insomma e allevarsi da solo, a carissimo prezzo".
Il racconto di una formazione, alla difficile ricerca di accettabili equilibri interiori.
intervista di Antonio Gnoli Repubblica 23.11.14
L’UNIVERSITÀ
Laureato in filosofia, ha proseguito gli studi a Dublino, Napoli e
Lipsia. È professore emerito dell’Università di Torino, ordinario di
Storia delle dottrine politiche. Visiting Professor alla Columbia
University e ad Harvard
IL PARLAMENTO Tra il 1992 e il 1994 è stato
deputato eletto nelle file del Partito democratico della sinistra per
l’undicesima legislatura, vicepresidente della III Commissione esteri e
nella commissione speciale per le politiche comunitarie
I SAGGI Ha
pubblicato sintesi storiografiche e numerosi saggi dedicati alle vicende
della sinistra italiana e non solo, da Gramsci e il problema storico
della democrazia (Einaudi) al recente Le stelle, le strisce, la
democrazia (Donzelli)
LE ALTRE OPERE Oltre ai saggi ha scritto anche romanzi e fiction.
Nel
2012 ha pubblicato Vita di Bernie, il cane che non voleva abbaiare
(Salani), ispirato al suo schnauzer, e da poco è uscito Cinque minuti
prima delle nove (Claudiana)
Qualche ora prima era ad attendermi al binario. Un uomo
di una eleganza tradizionale che, dati i tempi sbadatamente originali,
si potrebbe definire scontata. Il borsello che stringe in una mano mi
appare come un’appendice involontariamente provocatoria. Inattuale. Un
capro espiatorio di anni lontani e ormai sepolti. Mi attardo a pensare
che questo signore di 78 anni ha più vie di entrata che di uscita e che
per troppo tempo ha lasciato che le cose seguissero il loro corso
spontaneo. Poi la decisione di tirare fuori dal cassetto quel libro, a
un tempo impietoso e tenero.
Perché?
«Un’insegnante, amica
carissima — che in un periodo brutto dell’adolescenza mi strappò al caos
— ha detto: Massimo sei ormai vecchio. Puoi fare ciò che vuoi.
Pubblicalo ».
Emerge soprattutto la figura di sua madre. Che donna è stata?
«Ha condizionato la mia vita, quella di mio fratello e delle mie due sorelle».
Come hanno reagito a questa sua testimonianza?
«Sono tutti morti. Non farò loro del male, ammesso che le cose che ho scritto possano ancora ferire o urtare».
Si può parlare di un’infanzia molto difficile. Da dove comincerebbe?
«Dalla
morte di mio padre. Avevo cinque anni. La ditta per la quale lavorava
ci mise a disposizione una macchina che da Torre Pellice, dove vivevamo,
ci condusse all’ospedale delle Molinette a Torino. Fu un incontro
straziante. Papà ci abbracciò e scoppiò a piangere. Fu il commiato.
L’addio».
Anche nel libro lei parla della “Ditta” senza specificare oltre. Ha un nome?
«Ce l’ha. Nel libro avevo volutamente omesso riferimenti anche personali. La ditta è l’Olivetti dove mio padre era impiegato».
Cosa accadde quando lui morì?
«Mia
madre non era in grado di occuparsi della nostra educazione. La ditta
scelse per me e mio fratello un convitto dove farci studiare. Erano gli
anni della guerra».
Dunque duri.
«Sì. Vivevamo in un edificio
molto grande. Un orto provvedeva alla nostra alimentazione. La
disciplina ferrea. La sera il direttore — un fanatico calvinista — ci
leggeva passi della Bibbia. Crebbi con un forte senso della religione.
Ma anche con lo sgomento di un bambino cui non era stata data alcuna
alternativa».
Quanto restò nel convitto?
«Abbastanza. Il
direttore, a un certo punto, scrisse una lettera, indirizzata al nuovo
marito di mia madre, nella quale lo informava che l’autorità germanica
non intendeva più tenere i bambini. Ci trasferirono in un orfanotrofio
».
Non era più semplice, visto che sua madre si era risposata, tornare in famiglia?
«Avremmo
dovuto smettere di studiare. Mia madre non era in grado di provvedere e
il patrigno non manifestava nessun interesse né doveri nei nostri
riguardi. Era un uomo meschino, frustrato, gretto».
Perché lo sposò?
«È
un mistero. Sospetto che volesse qualcuno sottomano da maltrattare. Più
di una volta la sentii insultarlo. Accadeva che di fronte a degli
estranei dicesse con sarcasmo: si è presa una vedova con quattro figli e
senza un soldo, solo per stare dentro casa, al calduccio».
Era molto umiliante. Di cosa si occupava il suo patrigno?
«Era
laureato in lettere e la mamma sperava che, prima o poi, trovasse un
posto da insegnante. Quanto a lei, per mantenersi, si era decisa a fare
l’affittacamere. Trasformò la grande casa dove abitava in una specie di
alberghetto ».
Un altro forse avrebbe provato a cancellarla. Cosa trova di speciale in questa donna?
«Fu un rapporto difficilissimo. Per un verso motivo di disagio e sofferenza. Ma per un altro di ammirazione».
Ammirazione?
«Sì,
ammirazione per una donna coraggiosissima. Figlia di contadini
cattolici, non era andata oltre la terza elementare. Eppure parlava e
scriveva benissimo. C’è un episodio che rivelò il suo carattere. La
ditta, cioè la famiglia Olivetti, le chiese di nascondere una coppia di
ebrei. Accettò. Ma dopo qualche settimana accadde che un giovane
repubblichino, fanatico come pochi, le chiese di consegnargli i due
vecchi ebrei».
Sua madre come reagì?
«Dapprima negò che in casa
tenesse nascosti dei clandestini. L’altro insisteva e minacciò che
l’avrebbe denunciata. La mamma interruppe la discussione. Si allontanò
per un momento. Poi tornò. Estrasse dal grembiule un coltellaccio e lo
puntò sulla pancia del repubblichino. “Prova a denunciarmi e te lo
pianto nelle budella. E se non ci riesco io lo faranno i partigiani”. La
sua durezza e la determinazione mi impressionarono. L’altro ripiegò
spaventato».
Che ne fu dei due ebrei?
«Qualche giorno dopo giunse una macchina che li portò via. Non ho mai saputo verso quale destino».
Aveva una qualche consapevolezza di ciò che stava accadendo agli ebrei?
«No,
sapevo che stavano succedendo delle cose brutte, ma non imputavo i
motivi alla condanna e alla persecuzione di un popolo. Avvertivo, questo
sì, certe ingiustizie di cui non capivo la ragione».
Ingiustizie personali?
«Vissute
personalmente. Durante le elementari strinsi amicizia con un bambino
della mia stessa classe. Eravamo i due più bravi. Ci contendevamo gli
elogi della maestra. Senza rivalità. Con affetto e stima. Quando finì il
ciclo scolastico io passai alla scuola media e seppi che Vincenzo, era
il suo nome, non sarebbe più andato a scuola. Ricordo che mi precipitai a
casa della madre. La implorai che facesse di tutto per farlo
continuare. Mi rispose che Vincenzo non poteva più essere mantenuto e
doveva andare a lavorare. Fu in quel preciso momento che compresi
cos’era l’ingiustizia ».
Ha più avuto notizia di Vincenzo?
«No,
perso completamente. Ho anche provato a cercarlo. Resta un vuoto. Ad
ogni modo quel trauma contribuì a cambiarmi. Affrontai il nuovo corso
scolastico contro voglia. Da quel bambino perfetto che ero, mi
trasformai. Non mostravo più alcun interesse per la scuola. Mi rifugiavo
nei fumetti e nei libri di avventura. Non parlavo con nessuno. Ero
chiuso in me. In un preoccupante autismo ».
Forse era solo il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza.
«A
modo suo penso di sì. Una volta la sentii dire rivolta al patrigno:
mica come te, con Giulio sì che facevo la mia grande figura!».
«C’era
indubbiamente quello che a me parve l’insopportabile fine di un mondo
di sogni. Anche se quei sogni erano stati spesso turbati dalla ferocia
della realtà».
Come ne è uscito fuori?
«Per pura fortuna, o
casualità. Incontrando sia alle medie che al liceo alcune persone
giuste. Persone straordinarie senza le quali non ce l’avrei fatta. Ad
ogni modo, quando finì la guerra tornammo a studiare al convitto».
Quanto tempo ha trascorso in quei luoghi lontano da casa?
«Dall’età
di cinque a diciassette anni. Alla fine del liceo la ditta ci avvertì
che il suo impegno finanziario era da considerare concluso. Nel
frattempo si pose il problema di cosa scegliere all’università. Mia
madre voleva che facessi legge. Le dissi che era una facoltà che non mi
apparteneva. Mi iscrissi a lettere e filosofia».
Come reagì?
«Ovviamente
malissimo. Era molto delusa. Dalle figlie, da me. Meno da mio fratello.
Ma su di me aveva puntato molto. Questa è una famiglia di incapaci, il
vostro sangue non è buono, disse. Con una veemenza e un disprezzo che le
si leggeva sul volto. Poi aggiunse: non dovreste fare figli. Verrebbero
come voi. Manifestò così la sua delusione».
In questo contesto
drammatico lei è riuscito a sopravvivere e a fare la sua strada
diventando uno tra gli storici più accreditati. Chi sono stati i suoi
maestri?
«Due in particolare: Walter Maturi con cui mi sono laureato e Federico Chabod. Purtroppo entrambi morirono prematuramente».
Perché ha scelto di essere soprattutto uno storico della contemporaneità?
«Perché negli anni del liceo, e forse già prima, scoprii il valore della politica. Le due esperienze hanno camminato insieme».
La politica fu per lei all’inizio un modo di confrontarsi e identificarsi con chi o cosa?
«All’inizio
con il Partito comunista. Fu il figlio del direttore del convitto a
farmi da mentore politico. Tanto era religiosamente fanatico il padre,
quanto lo fu lui nelle sue scelte staliniste. Dal partito uscii nel
1956. Come tanti altri ».
Ma quel legame con il Pci era anche il bisogno di riempire un vuoto affettivo?
«Intende dire per tutte le complicazioni che il rapporto con mia madre aveva prodotto?».
Sì.
«Non
penso che ci sia una relazione. La mia adesione maturò nell’idea che
occorresse vivere in un mondo più giusto. Ma non ho mai avuto un
rapporto fideistico. Non ho mai cercato nel Pci una chiesa rassicurante.
Nonostante ciò resto uno storico di sinistra».
Cosa vuol dire?
«Significa
non perdere il rispetto di sé, delle cose che si sono fatte con lealtà,
anche ammettendo gli errori compiuti. Mi sono occupato di Gramsci, di
Kautsky e della socialdemocrazia. Ho scritto una storia del pensiero
comunista cercando di capire ciò che ero stato e le ragioni della mia
parabola politica».
Non sente di essere finito in un vicolo cieco?
«Separerei
quella che può essere una sconfitta personale da una sconfitta epocale.
Il comunismo ha fallito. Ed è una sentenza senza appello. Per quanto mi
riguarda ho il rammarico di aver compreso tardi certi valori della
cultura liberale».
Tornerei al suo racconto di formazione. Perché ha deciso di mettersi così a nudo?
«Volevo
raccontare delle cose che mi parevano poco credibili. C’è un sogno che
ancora, qualche volta, faccio. Mio padre muore e va all’inferno. È un
angoscia che mi porto dentro».
Come si chiamava suo padre?
«Giulio e mia madre Francesca».
E Francesca amava Giulio?
Quando è morta?
«Era
nata nel 1906. Morì nel 1970. Negli ultimi anni si era chiusa in un
isolamento assoluto. Quando stette davvero male il patrigno avvertì me e
mio fratello. Ci precipitammo in ospedale. Vedemmo questa donna
orgogliosa, dura, malandata che ci scrutava con ironia. Cominciò a dire:
a me non importa di morire e adesso vi pianto in asso. Cominciò a
scherzare sulla morte con battute esilaranti. E noi prendemmo a ridere.
Sempre più forte. Come se la tensione si stesse sciogliendo. Arrivò il
medico. Guardò la scena con raccapriccio, poi esclamò: due figli, due
delinquenti come voi, non li ho mai incontrati. Ero spiazzato dallo
stupore. Mio fratello ebbe solo il tempo di replicare: lei non può
capire. L’altro sbatté la porta ».
Chi è oggi Massimo Salvadori?
«Un
uomo che ha cercato da solo di andare al fondo della sua personalità.
Che si è formata troppo rapidamente. E nel tempo è restata sempre la
stessa».
Come se non fosse mai cresciuto?
«La mia crescita è
avvenuta in un attimo. Congelata per lungo tempo in un senso di
estraneità che ho faticato a rompere. E se ci sono riuscito è stato
grazie ad alcune persone straordinarie e a mia moglie Edda».
Ha avuto un’educazione fortemente religiosa. Cosa le è rimasto?
«Tutto ciò che è imposto non può durare. Non sono più credente. Diciamo che mi rifaccio al De Rerum Natura di Lucrezio».
Un pacato materialismo.
«Già.
Per lunghi anni non sono riuscito a tornare nei posti della mia
infanzia. A Torre Pellice. Luogo di glorie valdesi. Solo da vecchio ho
riscoperto l’importanza di quelle storie, di quei personaggi, di quella
dignità. È stato improvvisamente un diverso sentire. È come se tutta la
pietas che era stata dissipata tornasse con forza. È un sentimento di
pathos che oggi provo. Meno estraneo alla vita. Meno immobile.
Riconoscente. Pacificato. Anche con la donna che mi ha messo al mondo».
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