domenica 30 novembre 2014

Nostalgia, indeterminatezza e amore del rischio nella cucina sovietica: che carne era quella?


E' la domanda che tutti coloro che sono riusciti a mangiare in Urss si sono fatti e forse ancora si fanno [SGA].

Anya von Bremzen: L'arte della cucina sovietica. Una storia di cibo e nostalgia, Einaudi
Risvolto
Dalla kulebjaka zarista al borsc ucraino, dal palov uzbeco allo spezzatino georgiano, dalla vobla - quel pesce che «adoriamo per tutto il tormento che ci dà mangiarlo» - alla focaccia di granturco moldava. Dieci momenti per rievocare la storia di una famiglia che, lungo quattro generazioni, ha vissuto la parabola tragica ed epica dell'Urss.

Provetta cuoca e scrittrice, Anya von Bremzen amalgama fatti pubblici e aneddoti privati con generose dosi di ironia, dietro cui è però facile intuire un grande affetto per un passato ancora presente nel ricordo.              

Una storia dell’Urss in cucinaGli orrori del Gulag avvelenano le madeleines Tra “pasticci” degli zar e hamburger staliniani così un popolo ha imparato ad arrangiarsi a tavola
di Gianfranco Marrone La Stampa TuttoLibri 29.11.14

Le passioni predominanti della nostra epoca sono note: la cucina e lo storytelling. Fascinose e coinvolgenti, grevi di tangibili perplessità. A meno che, come talvolta accade, non si incrocino fra loro, facendo raccontare fornelli e cucinare storie. Narrativa e gastronomia si rafforzano a vicenda. Un bell’esempio di quest’incrocio produttivo è L’arte della cucina sovietica della food writer Anya von Bremzen, una densa storia dell’Urss raccontata a partire dalla cucina e dal cibo: dalla «kulebjaka» (pasticcio) zarista alle politiche leniniste per il grano, dai pranzi frugali del primo Cremlino alle emulazioni degli hamburger nel gelido periodo del terrore staliniano, dalle timide riabilitazioni gastronomiche di Breznev sino al kitsch alimentare di Putin e soci. 
Von Bremzen fugge poco più che decenne da Mosca con la madre Larisa, indomita antisovietica e cuciniera d’eccezione. È il 1974. Da profuga ebrea guadagna fortunosamente gli Stati Uniti dove, superando non poche difficoltà economiche e diversi gap culturali («Nei primi mesi a Philadelphia smarrii il senso del gusto»), finisce per diventare una firma di spicco nell’universo rissoso della critica gastronomica yankee. Nell’America dell’abbondanza l’apolide Anya ha la perenne sensazione di abitare in due universi alimentari paralleli: pubblica articoli su articoli sull’alta cucina internazionale (Alain Ducasse, Ferran Adrià, René Redzepi), ma i suoi bestseller si concentrano per lo più su quella etnica, e in particolare sulle ricche tradizioni culinarie del paese d’origine, riserva inesauribile di manicaretti, ricette, estasi gustative. 
A un certo punto, però, non le basta dire di pranzi sopraffini o pietanze prelibate: deve agganciare la cucina alla storia, il gusto alla memoria. Più si occupa di bliny e canachi, gefilte fish e kartocki, più emergono dentro di lei i fantasmi del passato: la rivoluzione d’ottobre e la Nep leninista, gli stermini del compagno Stalin e gli orrori del gulag, le file al mercato nero e le sparizioni dei parenti, i buchi neri dell’alcolismo di massa e false felicità della propaganda via radio. Mastering the Art of Soviet Cooking (questo il titolo originale, evidente strizzata d’occhio al celeberrimo Mastering the Art of French Cooking della grande Julia Child) è il risultato di tutto ciò: un libro tanto gradevole nella lettura quanto duro nei contenuti, refrattario a ogni incasellamento di genere e, forse per questo, pronto ad assumersi in prima persona molte delle contraddizioni del nostro tempo. Incoerenze affettive e antinomie ideologiche, irrazionalità politiche e incompatibilità di gusto.
Che fra le tecniche culinarie, i piaceri della tavola e le memorie dell’infanzia ci siano legami strettissimi è questione assodata. Lo dicono anche le neuroscienze. Più interessante, come nel caso della von Bremzen, è quando questi ricordi infantili sono tutt’altro che piacevoli, quando cioè le madeleines, come scrive lei stessa, potrebbero essere avvelenate. Così, l’assunto di fondo del libro sta tutto in questa potente perifrasi tolstojana: «Tutti i ricordi alimentari felici si somigliano fra loro; ogni ricordo alimentare infelice è infelice a suo modo». 
La nostalgia, si sa, è sentimento ambiguo: c’è chi smania per la terra natia anche se vi è stato trattato male. Cosa che accade anche qui: raccontare le vicende sovietiche attraverso il cibo significa ricordare, ben prima dei piaceri del gusto, la fame atavica, dunque le cicliche rivolte per il pane, la penuria costante di generi alimentari, le requisizioni del grano ai contadini, la denutrizione infantile. Ed è solo passando per questo sentimento continuo di privazione, per questa epica di un cibo perennemente insufficiente, che è possibile – con una contraddizione, dice Anya, assunta in generale dall’homo sovieticus – passare ai languori della gastronomia slava, al tempo stesso alta e tradizionale, aristocratica e contadina. Si ha rimpianto di quel cibo, avendo ben presente quanto lo si è desiderato.
Resta aperta la domanda circa il gusto reale di quanto nel libro viene assunto a simbolo dei vari gloriosi decenni socialisti. Le ricette a fine volume servono a rispondere.

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