di Dario Di Vico Corriere 9.11.14
Il ritorno dell’ex sindacalista, in corsa per la carica di governatore in Liguria
di Aldo Grasso Corriere 9.11.14
“Vuole la legge elettorale prima di provvedimenti molto più urgenti”
di Michele Brambilla La Stampa 9.11.14
di Virginio Rognoni Corriere 9.11.14
Secondo le analisi che sono state fatte dopo la Leopolda e Piazza San Giovanni c’è anche la prospettiva di una possibile trasformazione del Partito democratico in un partito «totalizzante». La vocazione maggioritaria del Pd, in uno scenario fortemente segnato dalla debolezza dei partiti di opposizione, porterebbe a questo rischio. La vigoria del segretario-premier farebbe il resto: Renzi solo al comando, con lui è la gente; e il partito, di cui è segretario, è del tutto sfocato.
Quasi a prova di una deriva del genere si è richiamata la stessa espressione «partito della nazione», circolata con insistenza alla Leopolda. Così, per esempio, Cacciari: la nazione è «tutto», il partito è «parte»; se, dunque, c’è un partito della nazione, quel partito è il partito unico e la democrazia si spegne. A sua volta Luciano Gallino: «anche altri partiti, in passato, si sono qualificati nazionali e sappiamo come sono andate le cose». Tutto vero: ma è giusto prendere sul serio — qui e ora — l’espressione «partito della nazione» e paventarne gli esiti disastrosi per la democrazia?
Altre volte, in tempi passati, si è parlato di « country party » per definire la Democrazia cristiana e il suo ruolo centrale per gli equilibri politici del Paese; una sorta di «innocente» retorica a sostegno di una indiscutibile situazione di fatto. Ma anche oggi il «partito della nazione», di cui si è parlato alla Leopolda, mi pare semplicemente un argomento retorico, un capitolo della propaganda che ogni partito si concede. Piuttosto, il progetto di Renzi, condiviso da tutto il partito, è chiaro nella sua enunciazione: l’alternanza al governo di due formazioni contrapposte, con programmi e storie diverse che, appunto, ne provocano la contrapposizione. Il programma — brevemente si può dire così — è un deciso riformismo che senta fortemente le esigenze della giustizia, che modernizzi il Paese, gli tolga la ruggine in non pochi meccanismi istituzionali, elimini burocrazie e ritardi; tutto ciò attraverso l’azione di un partito — il Pd — che, nell’agire per questo programma, deve esso stesso mettersi in gioco. In ogni caso un partito collocato sulla sinistra, secondo la storia che ha alle spalle, compresa quella del cattolicesimo democratico e senza infingimenti come lo prova la sua collocazione, a livello europeo, fra le famiglie socialiste.
È con questo progetto e con questo partito che Renzi si è presentato alle elezioni europee, di fatto al giudizio della gente, e ha avuto grande successo. Di fronte a tale risultato la conclusione è elementare: il Pd ha bisogno di Renzi e Renzi ha bisogno del Pd. Ma questo rapporto di reciprocità, che conferisce forza al partito, richiede una costante manutenzione e l’impiego di ogni risorsa di cui la cultura politica dispone; soprattutto quando la dialettica fra maggioranza e minoranza si radicalizza e diventa dura contrapposizione. Spetta soprattutto al segretario questa opera di manutenzione capace di eliminare incomprensioni che, nel tempo, irrigidendosi, potrebbero diventare laceranti. Faccio solo un esempio: le dichiarazioni di molti esponenti della minoranza di escludere qualsiasi ipotesi di scissione e di rimanere, in ogni caso, nel partito, non possono essere considerate come espressione di uno stato di necessità o di opportunismo. In queste dichiarazioni c’è (e basterebbe il solo dubbio che ci sia) il sentimento di una appartenenza, avvertita come cosa preziosa; l’appartenenza al partito, alla sua storia e alle sue ragioni di oggi. Un patrimonio che non può essere liquidato e buttato via con parole sbrigative. Al contrario, trovando le parole «giuste» della politica — che pure ci sono — deve essere valorizzato. Se ne avvantaggerebbe il dibattito interno sugli stessi decisivi temi della politica economica e del lavoro; temi tutti che la dirigenza ha il dovere di portare al governo secondo gli esiti di un dibattito interno, a cui a pieno titolo ha partecipato anche la minoranza.
La sfida politica del Pd sta anche qui, delicatissima, sul fronte interno e va giocata con grande discernimento. Il suo progetto può non avere successo ma è veramente ambizioso nella sua enunciazione. Muoversi, infatti, con forza e chiarezza, verso il consolidamento di un polo di sinistra-riformista potrebbe provocare e favorire la nascita di una formazione antagonista. A questo modo si metterebbe in moto un processo di riordino integrale dell’assetto politico nell’interesse del Paese. Un progetto ambizioso, dunque, che finisce per avere in sé una carica «pedagogica» che, nei momenti difficili, non è affatto estranea alla politica. Se è così, che si parli del Pd come il «partito della nazione» non può certo creare sconcerto. Se la sfida non fosse superata, ci troveremmo tutti dentro un centrismo senza confini. È bene saperlo.
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