mercoledì 19 novembre 2014

Ricostruire il Partito Comunista, ma prima di ogni cosa allearsi con Renzi e il PD in Calabria

Ci mancava, il sen. Giannini. Ora è tornato e squaderna i problemi politici dell'umanità con la consueta passione. Nel frattempo però il suo partito - forse senza avvertirlo - ha fatto un accordo con il PD e con SEL in Calabria, boicottando una lista autonoma delle sinistre e dei comunisti e smentendo pari pari tutti i presupposti del suo ragionamento.
Ora, come si conciliano l'alleanza con Putin e quella con Oliverio? Come mettere assieme la lotta contro lo smantellamento del Welfare e per l'indipendenza del Paese e gli accordi con il partito di Renzi?
"E' evidente" che non si può fare. Ed è altrettanto "evidente" che il partito che lo fa non è molto serio e credibile, nonostante gli sforzi di analisi internazionale.
Al crampo che blocca questo partito, esso stesso ridotto ad una confederazione di ras locali - non si spiega altrimenti l'assenza di una linea omogenea - e ancora incapace di superare la sua natura originaria che lo vede nascere come costola esterna della corrente dalemiana, va sommato il gorgo in cui si è cacciato il Prc.
Questo partito non è messo meglio e muore per asfissia nel disinteresse generale. Strangolato dalla spinta verso destra di chi vorrebbe scioglierlo nel Partito del Lavoro e dal falso movimento di chi vorrebbe scioglierlo nella Lista Tachipirinas.
Insomma, non c'è soluzione alla nostra crisi, attualmente. Decenni di diaspora ci attendono [SGA].



di Fosco Giannini  *relazione tenuta venerdi 7 novembre 2014 alla “Casa Rossa” di Milano, in occasione della celebrazione della Rivoluzione d’Ottobre

La lista “La Sinistra – Per cambiare la Calabria con Speranza” sostiene la candidatura a Presidente della regione dell’on. Mario Oliverio. “La Sinistra” nasce da un’aggregazione composta da Sel, dai Comunisti Italiani, da Idv e da tutta una serie di importanti associazioni...

Il nuovo dialogo con i bersaniani e la paura renziana di perdere consensi
Sarebbe allarmante se la disillusione prendesse i ceti produttivi, spina dorsale del partito della Nazione
di Stefano Folli Repubblica 19.11.14
NEL gioco politico stretto Matteo Renzi è abile e lo dimostra una volta di più cucendo l’accordo nella maggioranza sulla riforma del lavoro. Nella legge delega ci sono ancora parecchi angoli bui da illuminare, ma intanto Damiano e Sacconi, i due opposti, hanno trovato il modo di coesistere.

L’operazione non era difficile, però richiedeva un certo senso tattico. Renzi era partito dai punti approvati a suo tempo dalla direzione del Pd e lì è tornato, dopo un lungo periplo che è servito a dare spazio e visibilità in particolare ai centristi di Alfano, da un lato, e un po’ alla sinistra democratica, dall’altro. Ognuno ha svolto la sua parte e alla fine è arrivata la sintesi sull’articolo 18.
Niente di clamoroso, ma uno sbocco obbligato, dal momento che nessuno voleva una vera frattura sui principi della riforma. Il problema sarà semmai come definirne in modo convincente, attraverso i decreti attuativi, tutti gli aspetti rimasti in sospeso. È un punto tecnico non secondario. Tuttavia ieri il tema prevalente era ancora la valenza politica dell’intesa, quella che interessa davvero al presidente del Consiglio e che coinvolge la simbologia persino eccessiva dell’articolo 18. Per il resto si vedrà. La riforma del lavoro è di quelle che premono all’Europa assai più della legge elettorale, ma la sua efficacia nel contribuire alla ripresa del sistema produttivo è tutta da dimostrare.
In ogni caso a Palazzo Chigi c’è bisogno di punti fermi nel programma. E ovviamente di stabilità politica. Con accortezza, ci si è avvicinati a entrambi i risultati. Per cui, in un autunno avaro di buone notizie sul fronte dell’economia e percorso da pericolose tensioni sociali, ecco che l’accordo sul lavoro diventa prezioso. Peraltro esso contiene fin dall’inizio un elemento di compromesso che dimostra come all’occorrenza Renzi sappia anche essere duttile, entro certi limiti. Si può anzi dire che il venir meno dei contrasti sulla delega servirà da argine alla maggioranza per contenere le solite spinte conflittuali intorno alla legge di stabilità. In apparenza il rischio qui è maggiore, in realtà il governo ha in mano tutti gli strumenti per guidare la barca verso il porto.
Ovvio che la minoranza del Pd coglie l’occasione per manifestare il suo nervosismo. Ma a parte alcuni casi di irrimediabile disincanto, da Civati a Fassina più di altri, è ormai chiaro che il grosso del gruppo anti-Renzi studia non come lasciare il partito, ma come tornare a contare. Anzi, come riprendere il potere: secondo la prospettiva annunciata da Bersani e D’Alema. Il che a Renzi in questa fase va bene perché non è da quel fronte che gli vengono le vere minacce. Il timore del presidente del Consiglio è un altro: la possibile erosione prematura della base sociale da lui coltivata con tenacia.
Quando i sondaggi — primo fra tutti quello di Ilvo Diamanti su queste colonne — fotografano le prime difficoltà renziane con le percentuali elettorali, il segnale non è ancora allarmante. Lo diventerebbe se la disillusione si diffondesse fra i ceti produttivi a cui il premier guarda con attenzione. Quei ceti che devono costituire la spina dorsale del cosiddetto partito della Nazione, qualunque cosa tale definizione voglia significare. Di conseguenza, non è troppo pericolosa per Renzi un po’ di guerriglia parlamentare sulla legge di stabilità, come non lo è il malessere permanente della minoranza del Pd. Viceversa, se la riforma del lavoro non dovesse funzionare in tempo utile e se l’Italia continuasse ad arrancare dietro a un’Europa a sua volta stagnante, allora il castello di carte potrebbe ripiegarsi. Non a caso l’astuto Salvini da tempo fa un gioco speculare a quello di Renzi, aspettando solo i primi passi falsi.



E i «dissidenti» si coalizzano
Corriere 19.11.14
Se sul Jobs act le varie anime della minoranza pd hanno avuto posizioni diverse, sulla legge di Stabilità hanno chiesto modifiche con una voce sola. Alfredo D’Attorre, Pippo Civati, Stefano Fassina, Margherita Miotto, Gianni Cuperlo ( foto AdnKronos ) hanno presentato ieri otto emendamenti, siglati da una trentina di deputati dem, «per sostenere i consumi, la domanda e la ripresa». «Non siamo all’opposizione, ma 
un pezzo di questa maggioranza», ha spiegato Cuperlo. Ma l’iniziativa non è piaciuta ai renziani: «A parole si dice di far parte della “ditta”, ma nei fatti si lavora contro», ha detto Andrea Marcucci.



Modifiche alla Stabilità, la sinistra pd va alla conta
di Monica Guerzoni Corriere 19.11.14

ROMA Nessun sabotaggio, nessun agguato per far saltare la legge di Stabilità. Se Stefano Fassina e gli esponenti più agguerriti della minoranza del Pd hanno presentato otto emendamenti alla manovra è per aiutare il premier a «risolvere i drammatici problemi del Paese». O almeno, questo è quanto hanno assicurato nel corso di una conferenza stampa Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre, Pippo Civati, Margherita Miotto e lo stesso Fassina, primo firmatario delle proposte di modifica. Le firme sono già una trentina e altre, sperano i promotori, arriveranno. L’obiettivo dichiarato è cambiare verso alla politica economica del governo, ma l’operazione ha anche uno scopo politico: è la prima mossa dell’ala sinistra del Pd per provare a saldare le varie anime dell’opposizione in un fronte dei «non renziani». Ieri a mezzogiorno, alla Camera, la prima foto di gruppo del «coordinamento» proposto da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio. D’Attorre parla di «convergenza in chiave positiva, per costruire un’area di sinistra». Civati assicura che «non è un complotto». E Fassina dichiara «guerra alla povertà, alla recessione e alla precarietà, non al governo». 
Ma i renziani attaccano. «A parole sono con il Pd, nei fatti sempre contro la ditta» sferza, via Twitter, il senatore Andrea Marcucci. Ed Ernesto Carbone, che siede nella segreteria di Renzi: «È davvero incredibile... A parole si dice di volere il bene della casa comune, nei fatti ci si comporta come se non se ne facesse parte». Critiche che Cuperlo respinge, chiarendo che i non renziani sono «un pezzo di questa maggioranza». L’emendamento più contestato riguarda il bonus degli 80 euro, che la minoranza «dem» vorrebbe destinare alle famiglie più povere tenendo conto della composizione del nucleo familiare e di eventuali altri redditi. Soluzione che non convince il governo e che, al contrario, piace molto a Sel: il partito di Nichi Vendola lo ha sottoscritto, in tandem con un altro (sempre del Pd) che propone di aumentare le risorse per gli ammortizzatori sociali. 


L’ala sinistra e il primo scatto alla Camera
di Filippo Ceccarelli Repubblica 19.11.14

LE FOTO di gruppo, specie in politica, prendono spesso una china goliardica. Ma che cosa ci sarà di così irresistibilmente buffo nella sala stampa di Montecitorio dove ieri cinque esponenti della minoranza Pd, ciascuno munito di sussidio visivo in A4, hanno presentato otto emendamenti alla legge di Stabilità?
Sardonico D’Attorre, beffardo Civati, estatico Fassina, gioviale Miotto, caloroso nella sua piena gioia Cuperlo, assiduo rifornitore di liriche. Al netto di ermetici tremori torna forse utile “ Allegria di naufragi” di Ungaretti: E subito riprendono/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ cinque superstiti/ lupi di mare. Ma ancora/ per quanto/ vorrebbero ma non possono?



Ma soltanto Civati è pronto alla scissione
di Tommaso Ciriaco Repubblica 19.11.14

ROMA Divisi alla meta. E anche ammaccati, come ammette sconsolato Pippo Civati, ormai deciso alla scissione. «Se tutti avessimo tenuto il punto, il Jobs Act sarebbe stato diverso. Davvero non riesco a immaginare Bersani che lo vota...». La minoranza dem rischia davvero di trasformarsi in un caleidoscopio scassato. Cento anime, mille opinioni. Da una parte Area riformista, pronta a ingoiare i nuovi ritocchi all’articolo 18. Dall’altra poche, ma significative defezioni sulla legge delega. Civati, appunto, Stefano Fassina, Francesco Boccia, Gianni Cuperlo, Barbara Pollastrini e probabilmente Rosy Bindi. Nell’Aula di Montecitorio, in tutto, mancheranno una decina di “sì”.
Quasi nessuno dei “resistenti”, in realtà, si spingerà fino a sfiduciare Palazzo Chigi. Alla Camera è possibile sostenere il governo, sfilandosi il giorno successivo nel voto finale sul provvedimento. Così meditano di fare Fassina e Cuperlo. Ieri, assieme ad Alfredo D’Attorre e Civati, hanno fatto il punto riservatamente, prima di presentare gli emendamenti alla manovra. «Sul Jobs Act - mostra cautela D’Attorre - vediamo alcuni miglioramenti, ma il giudizio resta critico. La valutazione di alcuni bersaniani è di attendere il testo definitivo. Capiremo tutto entro venerdì».
I tempi, in effetti, sono stretti. E la mediazione di Roberto Speranza è considerata anche da Pierluigi Bersani come un’inevitabile riduzione del danno. Dove il danno in questione è la deflagrazione dell’opposizione interna. Ne è consapevole anche Fassina, che però difficilmente dirà sì al momento del voto finale: «Vedrò l’impianto nel suo complesso, le risorse per gli ammortizzatori, poi deciderò che cosa fare in Aula. Nella minoranza ci sono posizioni diverse? È legittimo. Non so se è il punto di non ritorno, di certo il Jobs Act è rilevante ».
La spaccatura interna - con le sue proporzioni - si riflette al meglio anche in commissione Lavoro. Lì solo Monica Gregori ha deciso di astenersi. «Una scelta difficile, sofferta - spiega - La fiducia la voterò, il provvedimento vedremo». Strappi che producono strappi, tensioni che alimentano altre tensioni. «Rispetto ogni scelta - commenta la “giovane turca” Chiara Gribaudo - ma non condivido chi in un momento così delicato e importante divide il partito per cercare un po’ di visibilità».
Come se non bastasse, un’altra ferita è destinata ad aprirsi a causa della legge di Stabilità. La sinistra dem si presenta ai blocchi di partenza compatta, grazie agli emendamenti comuni. Eppure una nuova mediazione di Speranza - stesso copione del Jobs Act - finirà col deludere l’ala più oltranzista. Il capogruppo, nel dubbio, stronca l’idea di un coordinamento delle minoranze sui temi economici, avanzata da Boccia: «Io lavoro per un partito plurale, ma unito». Il solco con l’area dura di Cuperlo e Civati, insomma, si allarga ancora. Il primo, incitato da Massimo D’Alema, continua a picchiare duro sul governo. E il secondo accompagnato dal deputato Luca Pastorino - attende solo che si concluda il tour de force su manovra e Jobs Act per dire addio al partito. Per costruire un nuovo inizio assieme a Sel, sembra. «Con lui ci confrontiamo - ammette il coordinatore vendoliano Nicola Fratoianni - e io discuto con tutti quelli che hanno un punto di vista critico verso il governo. Ognuno è libero di fare le proprie scelte, ma visto il valore simbolico del Jobs Act mi sembra difficile scindere la fiducia al governo dal voto sul provvedimento ». La maionese, in effetti, rischia di impazzire. E le anime dem si confondono a ritmo frenetico. C’è chi, come Simone Valiante (AmiciDem), tifa per le aziende: «Ciò che più conta è che la riforma del lavoro aiuti gli imprenditori ». Di certo c’è che gli uomini del premier non smettono di sparare sulla minoranza: «Presentano emendamenti e si comportano come se non fossero del Pd», tuona Ernesto Carbone. «I renziani sono proprio mansueti - ribatte ironico Civati - forse perché stanno fondando il Msi...». Se Pippo scherza per smorzare la tensione, i Cinquestelle prendono sul serio le mosse dell’opposizione dem. E propongono battaglie comuni in Parlamento per sfruttare tatticamente le divisioni sulla manovra. Inutilmente, però, perché i dissidenti del Pd fanno subito sapere che schiveranno l’abbraccio mortale dei grillini della Casaleggio associati.



L’autunno rimane difficile
di Marcello Sorgi La Stampa 19.11.14

L’accordo sul Jobs Act raggiunto ieri da Renzi con la sua maggioranza, dopo il compromesso interno con il Pd, spiana la strada alla riforma del lavoro ma porta alla rottura con i sindacati, ormai in marcia verso lo sciopero generale contro l’abolizione dell’articolo 18 e nel complesso contro tutta la politica economica del governo. E tuttavia, in vista della prima scadenza elettorale d’autunno, le elezioni regionali in Emilia e in Calabria destinate a trasformarsi in una prova d’appello delle europee di maggio, Renzi segna un punto netto e si prepara ad incassare una nuova vittoria elettorale, anche se il contesto, da maggio ad oggi, è in forte cambiamento.
Quella di primavera infatti, più che una corsa, per Renzi era stata una passeggiata. Con Berlusconi a bordo campo, svogliato e impedito a partecipare alla campagna elettorale dalla condanna definitiva in Cassazione subita l’estate precedente, per il premier in pratica si era trattato di una corsa senza avversari.
Accettata la sfida di Beppe Grillo, convinto, non si sa come, di bissare il successo delle politiche, Renzi incassò nelle urne l’imprevedibile risultato del 40,8 per cento per il Pd, una percentuale mai raggiunta prima dal maggior partito del centrosinistra. Anche stavolta, stando ai sondaggi, la vittoria in Emilia è garantita; e in Calabria assicurata da un sostanziale abbandono del campo del centrodestra, che guidava l’amministrazione regionale uscente. Grillo non a caso ha scelto di disertare l’appuntamento. Quanto a Salvini, il leader della Lega che, grazie a una ricollocazione del suo partito nell’alveo di una destra radicale e nazionale, sta mietendo una forte crescita di consensi, e non solo nel tradizionale insediamento nordista del Carroccio, la sua partita si gioca essenzialmente nel campo dominato fino all’anno scorso dall’ex-Cavaliere, rispetto a cui Salvini non intende più essere subalterno. Resta, certo, il problema dell’ostruzionismo parlamentare di Movimento 5 stelle e sinistra radicale, che potrebbero rallentare il calendario parlamentare, ma in nessun modo impedire l’approvazione dei provvedimenti.
Sul piano politico, dunque, Renzi non ha davanti grosse difficoltà. Se metterà a segno la doppietta dell’approvazione del Jobs Act e della legge di stabilità costruita per la prima volta dopo molti anni su un taglio delle tasse che dovrebbe incoraggiare le imprese a reinvestire, approfittando della flessibilità introdotta dalla nuova legge sul lavoro, anche la pressione di Bruxelles dovrebbe in qualche modo allentarsi, se non altro per verificare se le nuove misure di politica economica saranno in grado di scuotere l’albero disseccato dell’economia italiana. In prospettiva l’incognita più rilevante rimane quella delle dimissioni del Capo dello Stato.
Non è un mistero che il premier si auguri che la ripresa di un percorso virtuoso di riforme possa aiutare Napolitano a resistere ancora qualche mese, per collegare la sua rinuncia a un’uscita dall’emergenza, piuttosto che a un ennesimo fallimento. Ma non è detto che il Presidente torni su una decisione che sembra ormai presa, oltre che largamente annunciata.
Dove invece il governo si troverà ad affrontare un preoccupante mutamento di clima è sul piano sociale. Prima l’ondata di maltempo, poi l’esplosione delle periferie metropolitane soffocate dall’invasione degli extracomunitari, hanno svelato una debolezza intrinseca del Paese, del suo territorio e degli apparati istituzionali che dovrebbero occuparsene, a cui l’ondata di nuovi scioperi e manifestazioni annunciate, in questo momento, rischiano di infliggere il colpo che non ci voleva. Per carità, Renzi ci avrà messo del suo nel rifiutare ogni tipo di concertazione, anche se solo tenendo duro alla fine è riuscito a portare a casa la riforma. Ma in questo quadro è davvero un peccato che i sindacati non abbiano trovato egualmente un modo di interloquire, come ha fatto la parte più ragionevole della minoranza Pd, e abbiano scelto la strada del muro contro muro. E di un’ennesima rottura che peserà su quest’autunno difficile.



La sfida sociale sottolinea la pressione su Palazzo Chigi
di Massimo Franco Corriere 19.11.14

Il contrasto tra Palazzo Chigi e Nuovo centrodestra si è già ricomposto. In nome del Jobs act e dell’accordo, confermato da Matteo Renzi, sulla legge elettorale. Ma rimane aperto il fronte con la minoranza del Pd. E si allarga lo scontro con il sindacato, perché dopo la Cgil anche la Uil annuncia lo sciopero generale; e forse, a ruota la Cisl. È il segno della difficoltà che ha il governo a tenere insieme spinte contrastanti; e la conferma che i maggiori grattacapi provengono da una sinistra che non perdona al premier una linea ritenuta troppo moderata. Gli otto emendamenti alla legge di Stabilità annunciati ieri dagli avversari di Renzi nel suo stesso partito rispondono al tentativo di metterlo in difficoltà su questo fronte. L’accusa è di avere ceduto all’Ncd sulla riforma del mercato del lavoro. In realtà, il compromesso raggiunto ieri tiene conto delle osservazioni che erano venute dal Pd. E vorrà pur dire qualcosa se Forza Italia è costretta ad annunciare una «contromanovra», attribuendo un aumento delle tasse alle misure del governo. È un modo per rintuzzare la critica di eccessiva accondiscendenza alla strategia di Renzi. E insieme, sia il riconoscimento implicito che la politica economica è indigesta all’elettorato di Silvio Berlusconi; sia che l’intesa tra Renzi e Alfano che abbassa al 3 per cento la soglia di ingresso in Parlamento per i partitini, destabilizza FI. 
Prevale una sensazione di confusione, dovuta alla complessità delle materie da maneggiare; alle molte riforme in cantiere; e alla rapidità con la quale si vuole arrivare a un risultato. La voglia delle opposizioni di rallentare il percorso del Jobs act, tuttavia, è pari alla determinazione di approvarlo secondo la tabella prestabilita: dunque entro il 26 novembre. «Quando la cortina fumogena del dibattito ideologico si abbasserà, vedrete che il Jobs act non toglie diritti ma solo alibi: ai sindacati, alle imprese, ai politici», elenca Renzi. E respinge l’accusa di alzare la tassazione. Per questo, alla fine potrebbe mettere la fiducia. Le opposizioni fanno capire che sono in arrivo modifiche destinate, se accolte, a ritardare il voto. 
Si tratta di un fronte del «no» che tende a saldarsi con il sindacato, Cgil in testa; e raffigura il premier come un tecnocrate impegnato solo a ricevere il «placet» dell’Unione Europea. Ma il lasciapassare di Bruxelles alla legge di Stabilità conta, non è un fatto secondario. Se ne dovrebbe sapere di più lunedì, e una punta di nervosismo si avverte. Confermare l’impegno sulle riforme, però, aiuta. E permette al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, di affermare che si aspetta un riconoscimento «dello sforzo anche qualitativo» compiuto dall’Italia. «Sono stufo di sentirmi dire...» che «chiediamo soldi all’Ue». E questo mentre Beppe Grillo scommette sul collasso dell’Italia e offre come antidoto un’impossibile uscita dall’euro.

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