Ci mancava, il sen. Giannini. Ora è tornato e squaderna i problemi politici dell'umanità con la consueta passione. Nel frattempo però il suo partito - forse senza avvertirlo - ha fatto un accordo con il PD e con SEL in Calabria, boicottando una lista autonoma delle sinistre e dei comunisti e smentendo pari pari tutti i presupposti del suo ragionamento.
Ora, come si conciliano l'alleanza con Putin e quella con Oliverio? Come mettere assieme la lotta contro lo smantellamento del Welfare e per l'indipendenza del Paese e gli accordi con il partito di Renzi?
"E' evidente" che non si può fare. Ed è altrettanto "evidente" che il partito che lo fa non è molto serio e credibile, nonostante gli sforzi di analisi internazionale.
Al crampo che blocca questo partito, esso stesso ridotto ad una confederazione di ras locali - non si spiega altrimenti l'assenza di una linea omogenea - e ancora incapace di superare la sua natura originaria che lo vede nascere come costola esterna della corrente dalemiana, va sommato il gorgo in cui si è cacciato il Prc.
Questo partito non è messo meglio e muore per asfissia nel disinteresse generale. Strangolato dalla spinta verso destra di chi vorrebbe scioglierlo nel Partito del Lavoro e dal falso movimento di chi vorrebbe scioglierlo nella Lista Tachipirinas.
Insomma, non c'è soluzione alla nostra crisi, attualmente. Decenni di diaspora ci attendono [SGA].
di Fosco Giannini *relazione tenuta venerdi 7 novembre 2014 alla “Casa Rossa” di Milano, in occasione della celebrazione della Rivoluzione d’Ottobre
La lista “La Sinistra – Per cambiare la Calabria con Speranza” sostiene la candidatura a Presidente della regione dell’on. Mario Oliverio. “La Sinistra” nasce da un’aggregazione composta da Sel, dai Comunisti Italiani, da Idv e da tutta una serie di importanti associazioni...
Il nuovo dialogo con i bersaniani e la paura renziana di perdere consensi
Sarebbe allarmante se la disillusione prendesse i ceti produttivi, spina dorsale del partito della Nazione
di Stefano Folli Repubblica 19.11.14
di Stefano Folli Repubblica 19.11.14
NEL
gioco politico stretto Matteo Renzi è abile e lo dimostra una volta di
più cucendo l’accordo nella maggioranza sulla riforma del lavoro. Nella
legge delega ci sono ancora parecchi angoli bui da illuminare, ma
intanto Damiano e Sacconi, i due opposti, hanno trovato il modo di
coesistere.
L’operazione non era difficile, però richiedeva un certo
senso tattico. Renzi era partito dai punti approvati a suo tempo dalla
direzione del Pd e lì è tornato, dopo un lungo periplo che è servito a
dare spazio e visibilità in particolare ai centristi di Alfano, da un
lato, e un po’ alla sinistra democratica, dall’altro. Ognuno ha svolto
la sua parte e alla fine è arrivata la sintesi sull’articolo 18.
Niente
di clamoroso, ma uno sbocco obbligato, dal momento che nessuno voleva
una vera frattura sui principi della riforma. Il problema sarà semmai
come definirne in modo convincente, attraverso i decreti attuativi,
tutti gli aspetti rimasti in sospeso. È un punto tecnico non secondario.
Tuttavia ieri il tema prevalente era ancora la valenza politica
dell’intesa, quella che interessa davvero al presidente del Consiglio e
che coinvolge la simbologia persino eccessiva dell’articolo 18. Per il
resto si vedrà. La riforma del lavoro è di quelle che premono all’Europa
assai più della legge elettorale, ma la sua efficacia nel contribuire
alla ripresa del sistema produttivo è tutta da dimostrare.
In ogni
caso a Palazzo Chigi c’è bisogno di punti fermi nel programma. E
ovviamente di stabilità politica. Con accortezza, ci si è avvicinati a
entrambi i risultati. Per cui, in un autunno avaro di buone notizie sul
fronte dell’economia e percorso da pericolose tensioni sociali, ecco che
l’accordo sul lavoro diventa prezioso. Peraltro esso contiene fin
dall’inizio un elemento di compromesso che dimostra come all’occorrenza
Renzi sappia anche essere duttile, entro certi limiti. Si può anzi dire
che il venir meno dei contrasti sulla delega servirà da argine alla
maggioranza per contenere le solite spinte conflittuali intorno alla
legge di stabilità. In apparenza il rischio qui è maggiore, in realtà il
governo ha in mano tutti gli strumenti per guidare la barca verso il
porto.
Ovvio che la minoranza del Pd coglie l’occasione per
manifestare il suo nervosismo. Ma a parte alcuni casi di irrimediabile
disincanto, da Civati a Fassina più di altri, è ormai chiaro che il
grosso del gruppo anti-Renzi studia non come lasciare il partito, ma
come tornare a contare. Anzi, come riprendere il potere: secondo la
prospettiva annunciata da Bersani e D’Alema. Il che a Renzi in questa
fase va bene perché non è da quel fronte che gli vengono le vere
minacce. Il timore del presidente del Consiglio è un altro: la possibile
erosione prematura della base sociale da lui coltivata con tenacia.
Quando
i sondaggi — primo fra tutti quello di Ilvo Diamanti su queste colonne —
fotografano le prime difficoltà renziane con le percentuali elettorali,
il segnale non è ancora allarmante. Lo diventerebbe se la disillusione
si diffondesse fra i ceti produttivi a cui il premier guarda con
attenzione. Quei ceti che devono costituire la spina dorsale del
cosiddetto partito della Nazione, qualunque cosa tale definizione voglia
significare. Di conseguenza, non è troppo pericolosa per Renzi un po’
di guerriglia parlamentare sulla legge di stabilità, come non lo è il
malessere permanente della minoranza del Pd. Viceversa, se la riforma
del lavoro non dovesse funzionare in tempo utile e se l’Italia
continuasse ad arrancare dietro a un’Europa a sua volta stagnante,
allora il castello di carte potrebbe ripiegarsi. Non a caso l’astuto
Salvini da tempo fa un gioco speculare a quello di Renzi, aspettando
solo i primi passi falsi.
E i «dissidenti» si coalizzano
Corriere 19.11.14
Se
sul Jobs act le varie anime della minoranza pd hanno avuto posizioni
diverse, sulla legge di Stabilità hanno chiesto modifiche con una voce
sola. Alfredo D’Attorre, Pippo Civati, Stefano Fassina, Margherita
Miotto, Gianni Cuperlo ( foto AdnKronos ) hanno presentato ieri otto
emendamenti, siglati da una trentina di deputati dem, «per sostenere i
consumi, la domanda e la ripresa». «Non siamo all’opposizione, ma
un
pezzo di questa maggioranza», ha spiegato Cuperlo. Ma l’iniziativa non è
piaciuta ai renziani: «A parole si dice di far parte della “ditta”, ma
nei fatti si lavora contro», ha detto Andrea Marcucci.
Modifiche alla Stabilità, la sinistra pd va alla conta
di Monica Guerzoni Corriere 19.11.14
ROMA
Nessun sabotaggio, nessun agguato per far saltare la legge di
Stabilità. Se Stefano Fassina e gli esponenti più agguerriti della
minoranza del Pd hanno presentato otto emendamenti alla manovra è per
aiutare il premier a «risolvere i drammatici problemi del Paese». O
almeno, questo è quanto hanno assicurato nel corso di una conferenza
stampa Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre, Pippo Civati, Margherita
Miotto e lo stesso Fassina, primo firmatario delle proposte di modifica.
Le firme sono già una trentina e altre, sperano i promotori,
arriveranno. L’obiettivo dichiarato è cambiare verso alla politica
economica del governo, ma l’operazione ha anche uno scopo politico: è la
prima mossa dell’ala sinistra del Pd per provare a saldare le varie
anime dell’opposizione in un fronte dei «non renziani». Ieri a
mezzogiorno, alla Camera, la prima foto di gruppo del «coordinamento»
proposto da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio.
D’Attorre parla di «convergenza in chiave positiva, per costruire
un’area di sinistra». Civati assicura che «non è un complotto». E
Fassina dichiara «guerra alla povertà, alla recessione e alla
precarietà, non al governo».
Ma i renziani attaccano. «A parole sono
con il Pd, nei fatti sempre contro la ditta» sferza, via Twitter, il
senatore Andrea Marcucci. Ed Ernesto Carbone, che siede nella segreteria
di Renzi: «È davvero incredibile... A parole si dice di volere il bene
della casa comune, nei fatti ci si comporta come se non se ne facesse
parte». Critiche che Cuperlo respinge, chiarendo che i non renziani sono
«un pezzo di questa maggioranza». L’emendamento più contestato riguarda
il bonus degli 80 euro, che la minoranza «dem» vorrebbe destinare alle
famiglie più povere tenendo conto della composizione del nucleo
familiare e di eventuali altri redditi. Soluzione che non convince il
governo e che, al contrario, piace molto a Sel: il partito di Nichi
Vendola lo ha sottoscritto, in tandem con un altro (sempre del Pd) che
propone di aumentare le risorse per gli ammortizzatori sociali.
L’ala sinistra e il primo scatto alla Camera
di Filippo Ceccarelli Repubblica 19.11.14
LE
FOTO di gruppo, specie in politica, prendono spesso una china
goliardica. Ma che cosa ci sarà di così irresistibilmente buffo nella
sala stampa di Montecitorio dove ieri cinque esponenti della minoranza
Pd, ciascuno munito di sussidio visivo in A4, hanno presentato otto
emendamenti alla legge di Stabilità?
Sardonico D’Attorre, beffardo
Civati, estatico Fassina, gioviale Miotto, caloroso nella sua piena
gioia Cuperlo, assiduo rifornitore di liriche. Al netto di ermetici
tremori torna forse utile “ Allegria di naufragi” di Ungaretti: E subito
riprendono/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ cinque superstiti/
lupi di mare. Ma ancora/ per quanto/ vorrebbero ma non possono?
Ma soltanto Civati è pronto alla scissione
di Tommaso Ciriaco Repubblica 19.11.14
ROMA
Divisi alla meta. E anche ammaccati, come ammette sconsolato Pippo
Civati, ormai deciso alla scissione. «Se tutti avessimo tenuto il punto,
il Jobs Act sarebbe stato diverso. Davvero non riesco a immaginare
Bersani che lo vota...». La minoranza dem rischia davvero di
trasformarsi in un caleidoscopio scassato. Cento anime, mille opinioni.
Da una parte Area riformista, pronta a ingoiare i nuovi ritocchi
all’articolo 18. Dall’altra poche, ma significative defezioni sulla
legge delega. Civati, appunto, Stefano Fassina, Francesco Boccia, Gianni
Cuperlo, Barbara Pollastrini e probabilmente Rosy Bindi. Nell’Aula di
Montecitorio, in tutto, mancheranno una decina di “sì”.
Quasi nessuno
dei “resistenti”, in realtà, si spingerà fino a sfiduciare Palazzo
Chigi. Alla Camera è possibile sostenere il governo, sfilandosi il
giorno successivo nel voto finale sul provvedimento. Così meditano di
fare Fassina e Cuperlo. Ieri, assieme ad Alfredo D’Attorre e Civati,
hanno fatto il punto riservatamente, prima di presentare gli emendamenti
alla manovra. «Sul Jobs Act - mostra cautela D’Attorre - vediamo alcuni
miglioramenti, ma il giudizio resta critico. La valutazione di alcuni
bersaniani è di attendere il testo definitivo. Capiremo tutto entro
venerdì».
I tempi, in effetti, sono stretti. E la mediazione di
Roberto Speranza è considerata anche da Pierluigi Bersani come
un’inevitabile riduzione del danno. Dove il danno in questione è la
deflagrazione dell’opposizione interna. Ne è consapevole anche Fassina,
che però difficilmente dirà sì al momento del voto finale: «Vedrò
l’impianto nel suo complesso, le risorse per gli ammortizzatori, poi
deciderò che cosa fare in Aula. Nella minoranza ci sono posizioni
diverse? È legittimo. Non so se è il punto di non ritorno, di certo il
Jobs Act è rilevante ».
La spaccatura interna - con le sue
proporzioni - si riflette al meglio anche in commissione Lavoro. Lì solo
Monica Gregori ha deciso di astenersi. «Una scelta difficile, sofferta -
spiega - La fiducia la voterò, il provvedimento vedremo». Strappi che
producono strappi, tensioni che alimentano altre tensioni. «Rispetto
ogni scelta - commenta la “giovane turca” Chiara Gribaudo - ma non
condivido chi in un momento così delicato e importante divide il partito
per cercare un po’ di visibilità».
Come se non bastasse, un’altra
ferita è destinata ad aprirsi a causa della legge di Stabilità. La
sinistra dem si presenta ai blocchi di partenza compatta, grazie agli
emendamenti comuni. Eppure una nuova mediazione di Speranza - stesso
copione del Jobs Act - finirà col deludere l’ala più oltranzista. Il
capogruppo, nel dubbio, stronca l’idea di un coordinamento delle
minoranze sui temi economici, avanzata da Boccia: «Io lavoro per un
partito plurale, ma unito». Il solco con l’area dura di Cuperlo e
Civati, insomma, si allarga ancora. Il primo, incitato da Massimo
D’Alema, continua a picchiare duro sul governo. E il secondo
accompagnato dal deputato Luca Pastorino - attende solo che si concluda
il tour de force su manovra e Jobs Act per dire addio al partito. Per
costruire un nuovo inizio assieme a Sel, sembra. «Con lui ci
confrontiamo - ammette il coordinatore vendoliano Nicola Fratoianni - e
io discuto con tutti quelli che hanno un punto di vista critico verso il
governo. Ognuno è libero di fare le proprie scelte, ma visto il valore
simbolico del Jobs Act mi sembra difficile scindere la fiducia al
governo dal voto sul provvedimento ». La maionese, in effetti, rischia
di impazzire. E le anime dem si confondono a ritmo frenetico. C’è chi,
come Simone Valiante (AmiciDem), tifa per le aziende: «Ciò che più conta
è che la riforma del lavoro aiuti gli imprenditori ». Di certo c’è che
gli uomini del premier non smettono di sparare sulla minoranza:
«Presentano emendamenti e si comportano come se non fossero del Pd»,
tuona Ernesto Carbone. «I renziani sono proprio mansueti - ribatte
ironico Civati - forse perché stanno fondando il Msi...». Se Pippo
scherza per smorzare la tensione, i Cinquestelle prendono sul serio le
mosse dell’opposizione dem. E propongono battaglie comuni in Parlamento
per sfruttare tatticamente le divisioni sulla manovra. Inutilmente,
però, perché i dissidenti del Pd fanno subito sapere che schiveranno
l’abbraccio mortale dei grillini della Casaleggio associati.
L’autunno rimane difficile
di Marcello Sorgi La Stampa 19.11.14
L’accordo
sul Jobs Act raggiunto ieri da Renzi con la sua maggioranza, dopo il
compromesso interno con il Pd, spiana la strada alla riforma del lavoro
ma porta alla rottura con i sindacati, ormai in marcia verso lo sciopero
generale contro l’abolizione dell’articolo 18 e nel complesso contro
tutta la politica economica del governo. E tuttavia, in vista della
prima scadenza elettorale d’autunno, le elezioni regionali in Emilia e
in Calabria destinate a trasformarsi in una prova d’appello delle
europee di maggio, Renzi segna un punto netto e si prepara ad incassare
una nuova vittoria elettorale, anche se il contesto, da maggio ad oggi, è
in forte cambiamento.
Quella di primavera infatti, più che una
corsa, per Renzi era stata una passeggiata. Con Berlusconi a bordo
campo, svogliato e impedito a partecipare alla campagna elettorale dalla
condanna definitiva in Cassazione subita l’estate precedente, per il
premier in pratica si era trattato di una corsa senza avversari.
Accettata
la sfida di Beppe Grillo, convinto, non si sa come, di bissare il
successo delle politiche, Renzi incassò nelle urne l’imprevedibile
risultato del 40,8 per cento per il Pd, una percentuale mai raggiunta
prima dal maggior partito del centrosinistra. Anche stavolta, stando ai
sondaggi, la vittoria in Emilia è garantita; e in Calabria assicurata da
un sostanziale abbandono del campo del centrodestra, che guidava
l’amministrazione regionale uscente. Grillo non a caso ha scelto di
disertare l’appuntamento. Quanto a Salvini, il leader della Lega che,
grazie a una ricollocazione del suo partito nell’alveo di una destra
radicale e nazionale, sta mietendo una forte crescita di consensi, e non
solo nel tradizionale insediamento nordista del Carroccio, la sua
partita si gioca essenzialmente nel campo dominato fino all’anno scorso
dall’ex-Cavaliere, rispetto a cui Salvini non intende più essere
subalterno. Resta, certo, il problema dell’ostruzionismo parlamentare di
Movimento 5 stelle e sinistra radicale, che potrebbero rallentare il
calendario parlamentare, ma in nessun modo impedire l’approvazione dei
provvedimenti.
Sul piano politico, dunque, Renzi non ha davanti
grosse difficoltà. Se metterà a segno la doppietta dell’approvazione del
Jobs Act e della legge di stabilità costruita per la prima volta dopo
molti anni su un taglio delle tasse che dovrebbe incoraggiare le imprese
a reinvestire, approfittando della flessibilità introdotta dalla nuova
legge sul lavoro, anche la pressione di Bruxelles dovrebbe in qualche
modo allentarsi, se non altro per verificare se le nuove misure di
politica economica saranno in grado di scuotere l’albero disseccato
dell’economia italiana. In prospettiva l’incognita più rilevante rimane
quella delle dimissioni del Capo dello Stato.
Non è un mistero che il
premier si auguri che la ripresa di un percorso virtuoso di riforme
possa aiutare Napolitano a resistere ancora qualche mese, per collegare
la sua rinuncia a un’uscita dall’emergenza, piuttosto che a un ennesimo
fallimento. Ma non è detto che il Presidente torni su una decisione che
sembra ormai presa, oltre che largamente annunciata.
Dove invece il
governo si troverà ad affrontare un preoccupante mutamento di clima è
sul piano sociale. Prima l’ondata di maltempo, poi l’esplosione delle
periferie metropolitane soffocate dall’invasione degli extracomunitari,
hanno svelato una debolezza intrinseca del Paese, del suo territorio e
degli apparati istituzionali che dovrebbero occuparsene, a cui l’ondata
di nuovi scioperi e manifestazioni annunciate, in questo momento,
rischiano di infliggere il colpo che non ci voleva. Per carità, Renzi ci
avrà messo del suo nel rifiutare ogni tipo di concertazione, anche se
solo tenendo duro alla fine è riuscito a portare a casa la riforma. Ma
in questo quadro è davvero un peccato che i sindacati non abbiano
trovato egualmente un modo di interloquire, come ha fatto la parte più
ragionevole della minoranza Pd, e abbiano scelto la strada del muro
contro muro. E di un’ennesima rottura che peserà su quest’autunno
difficile.
La sfida sociale sottolinea la pressione su Palazzo Chigi
di Massimo Franco Corriere 19.11.14
Il
contrasto tra Palazzo Chigi e Nuovo centrodestra si è già ricomposto.
In nome del Jobs act e dell’accordo, confermato da Matteo Renzi, sulla
legge elettorale. Ma rimane aperto il fronte con la minoranza del Pd. E
si allarga lo scontro con il sindacato, perché dopo la Cgil anche la Uil
annuncia lo sciopero generale; e forse, a ruota la Cisl. È il segno
della difficoltà che ha il governo a tenere insieme spinte contrastanti;
e la conferma che i maggiori grattacapi provengono da una sinistra che
non perdona al premier una linea ritenuta troppo moderata. Gli otto
emendamenti alla legge di Stabilità annunciati ieri dagli avversari di
Renzi nel suo stesso partito rispondono al tentativo di metterlo in
difficoltà su questo fronte. L’accusa è di avere ceduto all’Ncd sulla
riforma del mercato del lavoro. In realtà, il compromesso raggiunto ieri
tiene conto delle osservazioni che erano venute dal Pd. E vorrà pur
dire qualcosa se Forza Italia è costretta ad annunciare una
«contromanovra», attribuendo un aumento delle tasse alle misure del
governo. È un modo per rintuzzare la critica di eccessiva
accondiscendenza alla strategia di Renzi. E insieme, sia il
riconoscimento implicito che la politica economica è indigesta
all’elettorato di Silvio Berlusconi; sia che l’intesa tra Renzi e Alfano
che abbassa al 3 per cento la soglia di ingresso in Parlamento per i
partitini, destabilizza FI.
Prevale una sensazione di confusione,
dovuta alla complessità delle materie da maneggiare; alle molte riforme
in cantiere; e alla rapidità con la quale si vuole arrivare a un
risultato. La voglia delle opposizioni di rallentare il percorso del
Jobs act, tuttavia, è pari alla determinazione di approvarlo secondo la
tabella prestabilita: dunque entro il 26 novembre. «Quando la cortina
fumogena del dibattito ideologico si abbasserà, vedrete che il Jobs act
non toglie diritti ma solo alibi: ai sindacati, alle imprese, ai
politici», elenca Renzi. E respinge l’accusa di alzare la tassazione.
Per questo, alla fine potrebbe mettere la fiducia. Le opposizioni fanno
capire che sono in arrivo modifiche destinate, se accolte, a ritardare
il voto.
Si tratta di un fronte del «no» che tende a saldarsi con il
sindacato, Cgil in testa; e raffigura il premier come un tecnocrate
impegnato solo a ricevere il «placet» dell’Unione Europea. Ma il
lasciapassare di Bruxelles alla legge di Stabilità conta, non è un fatto
secondario. Se ne dovrebbe sapere di più lunedì, e una punta di
nervosismo si avverte. Confermare l’impegno sulle riforme, però, aiuta. E
permette al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, di affermare che
si aspetta un riconoscimento «dello sforzo anche qualitativo» compiuto
dall’Italia. «Sono stufo di sentirmi dire...» che «chiediamo soldi
all’Ue». E questo mentre Beppe Grillo scommette sul collasso dell’Italia
e offre come antidoto un’impossibile uscita dall’euro.
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