sabato 22 novembre 2014

Tra il partito di Renzi e il partito degli onesti alla Laclau, Repubblica fa tutte le parti in commedia. La Sinistra sessantottina è il morto che affoga quel poco di vivo che si vede in giro


Ecco la mia sinistra: sta con i più deboli e non ha bisogno di esami del sangue
Il premier scrive a Repubblica: "Ho rivendicato l'appartenenza del Pd alla famiglia socialista europea. Per me parlano i miei comportamenti"
di MATTEO RENZI Repubblica 22 11 2014

Curzio Maltese HP

Le ragioni della crisi tra partito e rappresentanza 
Tommaso Nencioni, il Manifesto 21.11.2014 
«Coloro che dan­nono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che bia­si­mino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…». Già il Machia­velli dei “Discorsi” aveva isti­tuito un saldo legame tra con­flitto e raf­for­za­mento delle isti­tu­zioni democratiche. 
E Giu­seppe Di Vit­to­rio, nel pre­sen­tare all’inizio degli anni Cin­quanta del secolo scorso un primo pro­getto di Sta­tuto dei Lavo­ra­tori, avvertì che «la demo­cra­zia se c’è nella fab­brica c’è anche nel Paese» e, al con­tra­rio, «se la demo­cra­zia è uccisa nella fab­brica essa non può soprav­vi­vere nel Paese». 
La grande que­stione che ha di fronte a sé la sini­stra poli­tica è quella di isti­tu­zio­na­liz­zare il con­flitto, dar­gli cioè una rap­pre­sen­tanza sta­bile. Non da oggi, certo. 
Ma ormai la crisi pro­cede per accu­mu­la­zioni suc­ces­sive, da quan­ti­ta­tiva si è fatta qua­li­ta­tiva; si è tra­sfor­mata cioè da crisi con­giun­tu­rale in crisi orga­nica, che scon­volge ogni aspetto della Repub­blica: eco­no­mico, sociale, isti­tu­zio­nale. Già si intra­ve­dono, minac­ciosi, dise­gni per una sua solu­zione sco­per­ta­mente rea­zio­na­ria. Di qui l’urgenza della rico­stru­zione di un rap­porto vir­tuoso tra con­flitto e rap­pre­sen­tanza poli­tica. Per ripren­dere i ter­mini di Erne­sto Laclau, sul momento oriz­zon­tale del movi­mento si deve sal­dare il momento ver­ti­cale della lotta per l’egemonia. 
I motivi per cui que­sto intrec­cio vir­tuoso non si è fino ad ora pro­dotto sono mol­te­plici, for­te­mente radi­cati in errori sog­get­tivi, primo tra tutti la man­canza di unità tra le varie forze poli­ti­che della sini­stra. Ma ci sono cause ulte­riori da inda­gare. Prima tra tutte: può essere ancora il par­tito nove­cen­te­sco la sin­tesi tra con­flitto sociale e lotta ege­mo­nica? Allo stato dei fatti, i par­titi tra­di­zio­nali attra­ver­sano una crisi della pro­pria ragione sociale tutt’altro che epi­so­dica. Ridotti a comi­tati elet­to­rali al ser­vi­zio del lea­der di turno, risol­vono spesso la pro­pria fun­zione in quella di “uffici di col­lo­ca­mento” per un ceto medio iper­tro­fico e in crisi di iden­tità sociale, spe­ran­zoso di tro­vare nel “mestiere poli­tico” un’àncora di sal­va­tag­gio con­tro l’inesorabile degra­dare della pro­pria posi­zione sociale. 
Schiere di can­di­dati si aggrap­pano a quest’àncora ad ogni tor­nata elet­to­rale, fino a supe­rare tal­volta in numero, per sommo para­dosso, gli affluenti al voto. Il tra­sfor­mi­smo più estremo è all’ordine del giorno, per cui si trama nei cor­ri­doi del Palazzo per allun­gare legi­sla­ture ingiu­sti­fi­ca­ta­mente soprav­vis­sute alla fine della spinta pro­pul­siva dei risul­tati elet­to­rali che le ave­vano pro­dotte. Leggi elet­to­rali liber­ti­cide sono pro­mul­gate nell’assenso acri­tico della Camere. Gli enti locali, da ele­menti di demo­cra­zia diretta e popo­lare, sono ridotti a pas­sa­carte delle diret­tive fiscali dei governi cen­trali, in nome delle ragioni della “ditta” da far pre­va­lere su quelli della cittadinanza. 
La destra cavalca que­sta crisi della fun­zione sociale dei par­titi, men­tre la sini­stra stenta, per antico abito men­tale (com­pren­si­bil­mente) duro ad estin­guersi, a coglierne i motivi di lungo periodo. Eppure essi dovreb­bero essere oggetto di attenta analisi. 
Il par­tito di massa delle classi subal­terne si con­fi­gura, nei sui albori deci­mo­no­nici, come anti-Stato. Il par­tito è lo stru­mento di cui le classi subal­terne si dotano per agire all’interno dello Stato libe­rale, e al tempo stesso tra­sfor­marlo. Esso nasce per uni­fi­care le lotte e dare loro con­ti­nuità. Se il par­tito ope­raio con­tiene in sé i germi del plu­ra­li­smo fin dalla sua for­ma­zione, la forza trai­nante è indi­vi­duata nel pro­le­ta­riato di fab­brica, inteso come classe gene­rale. Que­sto schema entra in crisi con la rivo­lu­zione del “lungo ‘68″. In que­sto periodo il con­flitto tra classi subal­terne ed élite tra­di­zio­nali da un lato assume la sua mas­sima inten­sità; dall’altro, per così dire, esplode; si fran­tuma. Accanto alle lotte del pro­le­ta­riato di fab­brica, rico­no­scen­done solo in una prima fase la guida, fanno la pro­pria com­parsa, e poi via vi acqui­stano rispetto ad esse un grado cre­scente di auto­no­mia, quelle degli stu­denti, per l’emancipazione fem­mi­nile, per la pace, per la sal­va­guar­dia dell’ambiente, tutte ege­mo­niz­zate da una nuova classe media in ascesa. 
L’inizio della restau­ra­zione con­ser­va­trice si porta die­tro la rot­tura dell’unità tra il movi­mento ope­raio e que­ste nuove classi medie. Si regi­stra, in que­sti movi­menti, un alto tasso di “inte­gra­bi­lità” nel sistema capi­ta­li­stico, che ne adotta le istanze di avan­guar­dia per rin­no­varsi e rin­vi­go­rirsi. Il par­tito ope­raio di massa, in que­sto con­te­sto, entra in crisi. Entra in crisi la sua capa­cità di uni­fi­ca­zione ed orga­niz­za­zione del con­flitto. All’interno dei par­titi, il rap­porto tra intel­let­tuali e mili­tanza ope­raia si inverte, con i primi che ascen­dono facil­mente e fret­to­lo­sa­mente ai posti diri­genti e la seconda che è vis­suta quasi come un resi­duo fasti­dioso. Si giunge per que­sta via all’espulsione dei ceti subal­terni dalla rap­pre­sen­tanza poli­tica diretta. Ceti subal­terni i quali, a loro volta, in parte subi­scono que­sto allon­ta­na­mento, in parte lo pro­muo­vono attra­verso l’affermazione, tra di essi, di un nuovo senso comune che rimette in discus­sione l’utilità e la neces­sità dell’azione col­let­tiva, e di nuovi modelli di con­sumo del tempo libero. 
In que­sta fase di scom­po­sta riti­rata siamo ancora immersi, pro­prio nel momento in cui il con­flitto sociale riprende vigore. Invece di attar­darsi in ten­ta­tivi di rie­su­ma­zione di una espe­rienza sto­rica forse irri­pe­ti­bile, serve tro­vare rispo­ste inno­va­tive. È urgente la crea­zione di un fronte plu­ra­li­stico della istanze popo­lari che sor­gono dalla società civile in lotta, cer­cando di ridurle ad unità in base ad una ela­bo­ra­zione col­let­tiva e ad una rico­stru­zione di un senso comune che san­ci­sca la loro non-contraddizione; e model­lando, su que­ste nuove moda­lità di isti­tu­zio­na­liz­za­zione del con­flitto, ade­guate pro­po­ste di rin­no­va­mento demo­cra­tico delle isti­tu­zioni repub­bli­cane. Dalla rico­stru­zione di que­sto intrec­cio vir­tuoso tra con­flitto sociale e rispo­sta poli­tica dipende il futuro della nostra democrazia.

I partiti senza bussola
di Massimo L. Salvadori Repubblica 22.11.14
SI BECCANO come galli agitando gli uni contro gli altri i propri cartelli con le scritte Destra, Mezza destra, Centro, Mezzo centro, Sinistra che tende al pallido, Sinistra che vuole ravvivare il rosso, Lega dei puri ex padani ora tout court italiani, Popolo del Grillo parlante. Ma come possono gli sconcertati elettori chiamati a scegliere tra le diverse offerte se le etichette dei partiti si presentano sempre più come richiami meramente commerciali, dietro ai quali sta un disarmante vuoto di elaborazione politico-culturale? Si grida che il mondo non è più quello del Novecento, che cambia ogni giorno alla velocità della luce, che le stratificazioni sociali non sono più quelle di ieri e neppure i partiti, che occorrono strategie e approcci innovativi poiché chi si ferma è perduto. Tutto ciò dovrebbe stimolare i gruppi dirigenti e i leader dei partiti a impegnarsi in un’elaborazione intellettuale che, andando oltre gli orizzonti delle interviste ai giornali e delle ormai infinite varianti e imitazioni televisive del “Porta a porta” di Bruno Vespa, aiuti a capire dove stiamo andando. Non si ripete a ritornello che nella nuova era la cultura è la risorsa maggiore, quella risolutiva? E invece dai nostri partiti non viene niente di propriamente costruttivo. Siamo sommersi dalle battute polemiche.
Una volta, in tempi sì irrimediabilmente passati ma che dovrebbero ancora insegnare qualcosa di importante, i partiti e anche i sindacati si riunivano in congressi dove leader di alta statura presentavano non solo i loro programmi, ma anche li sostenevano con argomentazioni aventi alle spalle molta cultura. Una volta, quei leader — fossero democristiani, liberali, repubblicani, socialisti, comunisti — sapevano usare la penna, scrivevano libri e articoli: roba seria; sapevano parlare agli iscritti ai loro partiti e alla massa degli elettori, messi così in grado di cogliere dove ciascun partito, secondo la sua posizione e i suoi fini, volesse condurli. Erano i De Gasperi e i Togliatti, i Nenni e i La Malfa, i Lombardi, i Fanfani e i Moro, i Di Vittorio e i Pastore. Non si dica che questa è pruderie accademica, nostalgia di cose passate, le quali per tanti aspetti non la meritano proprio. È invece registrazione di una differenza che dà a pensare, ed esprime l’impoverimento del dibattito pubblico e il deterioramento della politica.
Vengo alla sinistra che è cara a chi scrive e semina senza risparmio motivi di sconforto. Sono tra coloro che considerano Renzi il meglio che passa il convento. Ma cert’è che anch’egli quanto a cultura politica se la cava a buon mercato, come si vede a partire dal suo commento alle recente edizione di Destra e sinistra di Bobbio, dove, da bravo rottamatore delle veteroideologie del Novecento, ha proclamato con innocente sicurezza che quel che conta per la sinistra è scegliere tra “aperto/chiuso”, “conservazione/ innovazione” (ma la Thatcher non era un turbine di innovazione?) e offrire ai più deboli “l’opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un’esistenza più ricca di esperienze”. Qui si viaggia sul troppo indeterminato. E poi: per carità, non ceda il leader alla trappola di voler fare del Pd il Partito della Nazione. Una definizione tanto altisonante quanto vacuamente retorica. Un partito della Nazione lo abbiamo già avuto uno, ed è bastato. Quanto ai dissidenti interni al Pd — i Bersani, i D’Alema, i Fassina, i Civati, i quali sprezzano un informe partito pigliatutto che si piega agli interessi degli imprenditori e perciò del Pd intendono riappropriarsi — ad essi va rivolta un’esortazione: spieghino quale tipo di partito hanno in mente, quali pensano debbano essere oggi la struttura organizzativa e il bagaglio programmatico di un “vero” partito di sinistra. Attendiamo lo sforzo teorico, anche per rispondere alla domanda se nella sostanza il Pd sia un partito che poggi su un comun denominatore.
La sinistra uscita dalla dissoluzione del Pci nel 1991 ha un lungo e pesante debito non pagato in materia di cultura politica e quindi di identità. Il corpo maggioritario, quello post-comunista, nelle sue varie incarnazioni — il Pds, i Ds, il Pd — è passato attraverso molti tormenti irrisolti: una suggestione socialdemocratica alla D’Alema rimasta senza seguito; lo stento liberalsocialismo di Veltroni; la malriuscita combinazione tra cattolici democratici, liberaldemocratici, semi-socialdemocratici; un approdo infine al renzismo, che si muove nella battaglia politica con spregiudicatezza e determinazione ma molta incertezza in tema di indirizzi culturali (ma a cui va riconosciuto il merito di aver compiuto il passo, che le precedenti leadership non avevano avuto l’intenzione o il coraggio di fare, di portare il maggiore partito della sinistra italiana nelle file del Partito Socialista Europeo). Sia consentito di ribadire in conclusione che ogni forza politica ha bisogno — non per dotarsi di orpelli luccicanti, ma per operare con maggiore efficacia — di dotarsi di una cultura politica adeguata: perché questa soltanto dà orecchi e occhi per orientarsi in relazione a quel che avviene nel mondo e fornisce agli elettori la possibilità di comprendere verso quale società si intenda condurli.

Landini “Va bene, ho detto una cavolata ma la protesta dei lavoratori c’è il governo non può nasconderla”
I toni duri di questi giorni sono figli della mancanza di dialogo Renzi divide non solo chi lavora ma gli stessi imprenditori
intervista di Paolo Griseri Repubblica 22.11.14
GLI insulti? «Sono figli della mancanza di dialogo». Maurizio Landini riflette sulle reazioni alla sua controversa affermazione: «Renzi non ha il consenso delle persone oneste».
Landini, pensa davvero che gli onesti stiano con lei e i disonesti con Renzi?
«Non ho detto questo. È stata estrapolata una frase dal mio discorso ».
C’è il video..
«Certo, c’è il video. Ma io non ho mai pensato che solo chi è con noi è onesto».
Ma l’ha detto..
«Ho detto che la maggioranza di coloro che lavorano e di chi il lavoro lo cerca, la maggioranza di coloro che pagano le tasse e non le evadono, non appoggia le scelte del governo».
Lei crede che la maggioranza dei lavoratori sia contro Renzi?
«Io constato che le manifestazioni di protesta di questi giorni hanno una partecipazione come non si vedeva da vent’anni. E penso che questo sia il messaggio più importante di una giornata come quella di ieri a Napoli».
Messaggio offuscato da quella frase sugli onesti. Come è stato possibile?
«Non volevo certo offendere coloro che sostengono le politiche di questo governo. Poi, può far comodo utilizzare la frase di Landini per nascondere il messaggio di protesta che arriva dai luoghi di lavoro e dai pecari. È una strategia ma non serve a risolvere il problema. È un altro modo per nascondere la cenere sotto il tappeto».
Anche se fosse così, non è il caso di fornire la scopa a chi si accinge a farlo, non crede?
«I toni duri di questi giorni sono figli della incomunicabilità. Un governo che rimane indifferente di fronte alle centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che protestano nelle piazze, che si rifiuta di discutere con i sindacati sulle leggi che riguardano il lavoro, che non si confronta in Parlamento e modifica leggi fondamentali come lo Statuto dei lavoratori a colpi di fiducia, non può attendersi che nelle fabbriche e negli uffici si alzino cori di consenso ».
Lei si sente l’altra faccia di Salvini, come ha detto Renzi?
«Io non voglio trascendere e arrivare a questi livelli di personalizzazione. Non mi interessano messaggini su twitter, battutine, giochi di parole: i lavoratori italiani si attendono dal governo leggi che facciano aumentare l’occupazione, che tengano le aziende in Italia, che riducano le tasse sul lavoro, che combattano la precarietà. Invece abbiamo un governo che divide il paese, che cerca di mettere precari contro lavoratori dipendenti, cittadini contro sindacati, che divide addirittura gli imprenditori tra di loro».
Ma non era lei, nella Cgil, l’uomo del dialogo con Renzi?
«Quando ha fatto cose positive lo abbiamo apprezzato. Ritengo che sia stata positiva la scelta di mettere gli 80 euro in busta paga, penso che sia stata positiva la decisione che ha favorito l’utilizzo dei contratti di solidarietà per risolvere il caso Electrolux. Noi siamo autonomi, come sempre dovrebbe essere un sindacato. Discutiamo sul merito delle questioni. Non siamo pregiudizialmente contro o a favore del governo. Lo misuriamo e lo giudichiamo sulle scelte che fa. Quelle degli ultimi mesi sono scelte divisive, che non servono a risolvere la crisi del lavoro in Italia e che seguono ricette ormai ritenute sbagliate anche da una parte degli imprenditori».
Per dire tutto questo, c’era bisogno di tirare in ballo la categoria dell’onestà?
«Non ce n’era bisogno, almeno non nel senso in cui quella frase poteva essere interpretata».
Possiamo dirla in modo non democristiano?
«Certo, non mi è mai piaciuto nascondermi dietro le parole».
E’ stata una frase infelice? Come si dice, una cazzata?
«Si, è stata una cavolata. Anche perché non riflette proprio quel che penso. Non ho mai ritenuto di dividere il mondo in due, con i buoni dalla mia parte e i cattivi dall’altra. Noi lavoriamo per unire i lavoratori. E’ la politica che cerca di dividerli».

Dai fax ai girotondi Quell’eterna pretesa del monopolio morale
di Pierluigi Battista Corriere 22.11.14
Ancora una volta l’uso politico dell’«onestà». Non l’onestà che si richiede a tutti, la precondizione dell’agire politico, risorsa che nessuno schieramento può pretendere di monopolizzare. Ma l’«onestà» come arma contundente, il tic del dare del «disonesto» all’avversario politico. Malgrado le smentite, resta nel sospetto di «disonestà» lanciato ieri da Landini sui sostenitori di Renzi il retrogusto di un luogo comune avvelenato molto diffuso negli anni agonici della Prima Repubblica e nel cuore della Seconda: la pretesa della propria superiorità morale, la condanna nel girone infernale della «disonestà» del Nemico considerato antropologicamente portato all’immoralità. Una pretesa sempre meno fondata e credibile, tra l’altro, vista l’universalità trasversale di comportamenti eticamente discutibili. Nessuno è più autorizzato a scagliare la prima pietra.
È una corrente sotterranea che esonda e invade le piazze. Prima il «popolo dei fax», poi quello del «post it», poi i girotondi che si stringono non attorno a una fabbrica, luogo del lavoro e della sinistra del lavoro, ma attorno a un tribunale, luogo della legge e dell’ordine, ma soprattutto tempio dei magistrati che come angeli vendicatori rappresentavano per quel popolo là fuori il surrogato della lotta politica, la casta in toga deputata a ripulire la Nazione dai «disonesti» che la politica dei partiti, dei voti, della democrazia non riusciva a cacciar via. Una storia antica, una pretesa antica.
All’inizio degli anni Ottanta il dibattito politico italiano ruotò intorno al surreale quesito se i comunisti fossero da considerarsi veramente moralmente superiori agli altri oppure no. Una pretesa assurda ma che fu presa sul serio da tutti. La «questione morale» agitata da Enrico Berlinguer era questo: il dogma della propria diversità, il presupposto che tutti fossero cattivi, malvagi, ladri, disonesti, lottizzatori tranne i comunisti. La dicotomia di un mondo pulito e incorrotto, quello del Pci e di ciò che gli ruotava attorno, e di uno impuro, peccaminoso, immerso nel Male, quello che si identificava con tutti gli altri partiti.
Il povero Aldo Moro, prima di essere rapito e ammazzato con la sua scorta, invano in Parlamento assicurava che la Dc non si sarebbe fatta «processare» nelle pubbliche piazze. E invece la Democrazia Cristiana (con gli altri partiti di governo) si è fatta eccome processare nelle pubbliche piazze oltreché nei tribunali. Erano i «forchettoni» bersagliati dal Togliatti che nel frattempo faceva affluire nelle casse del Pci rubli a dismisura. Ma i «forchettoni» erano sempre gli altri. Nelle parole di Landini, certamente eccessive nella foga tipica del personaggio, e poi attenuate, parla inconsciamente questa tradizione. La stessa tradizione che portò un qualche «popolo» eterodiretto a circondare il Raphael, rifugio dell’Orco, dell’Arcinemico, Bettino Craxi e a umiliarlo in favor di telecamera con sprezzanti monetine: «Rubati anche queste». Non era forse il campione della Disonestà da linciare in piazza prima ancora che un tribunale ne decretasse l’eventuale colpevolezza?
Ma c’è sempre a sinistra uno più puro che ti epura, sosteneva Pietro Nenni, memore delle degenerazioni del giacobinismo che sfociò nel Terrore e nella mistica della ghigliottina tanto cara al Robespierre che veniva infatti glorificato come l’«Incorruttibile» (ma dopo averne mozzate tante, anche lui ebbe infine la testa mozzata). E anche nella Seconda Repubblica accadde che una setta dei puri, capitanata da Antonio Di Pietro, diventasse la casa di tutti gli epuratori. Per la verità non è che l’Italia dei Valori, con Razzi e Scilipoti, abbia richiamato sempre intransigenti seguaci dell’incorruttibilità alla Robespierre. E nei partiti che erediteranno la storia del Pci la pretesa tardo-berlingueriana di essere i portabandiera della «questione morale» non è stata accompagnata sempre da visibili applicazioni pratiche di quegli austeri princìpi. Era parso che il sindacato, aduso a ben altri impegni a difesa del lavoro, non si fosse fatto contaminare dai cascami velenosi del giustizialismo forcaiolo. Ma le parole (per quanto poi frenate) di Landini smentiscono questa convinzione. Noi onesti, loro disonesti appare ancora oggi una retorica facile da usare.

La crepa a sinistra e il futuro di Landini
di Marcello Sorgi La Stampa 22.11.14
Mitigato appena dalle scuse del segretario della Fiom (aveva detto che gli onesti non dovrebbero votare Pd) e da una reazione controllata del premier, lo scontro Landini - Renzi ha animato l’ultima giornata di campagna elettorale, aprendo una crepa a sinistra che entrambi forse si sarebbero volentieri risparmiata. La rottura tra il presidente del consiglio e il leader dei metalmeccanici infatti è recente. In tutta la prima fase della segreteria dell’ex-sindaco, e anche dopo il suo approdo a Palazzo Chigi, il braccio di ferro era stato (e rimane) con la Camusso. La discriminante che ha finito con l’allineare la segretaria della Cgil e quello della Fiom è stato il Jobs Act, con la cancellazione dell’articolo 18 e del diritto alla reintegra per i licenziamenti ingiustificati, che il sindacato era riuscito a salvare anche dalla riforma Fornero.
Né Camusso né Landini inoltre hanno gradito che la parte bersaniana della minoranza Pd, inizialmente schierata contro la riforma del mercato del lavoro progettata dal governo (e ieri, dopo l’infelice frase sugli «onesti», schierata con Orfini contro Landini) sia arrivata facilmente all’accordo sui licenziamenti disciplinari, che ha consentito di far uscire in breve tempo il testo del Jobs Act dalla commissione e potrebbe permettere di vederlo definitivamente approvato alla Camera entro il 9 dicembre.
A quel punto il governo sarebbe in grado di mantenere l’impegno del varo definitivo della riforma entro la fine dell’anno e dell’entrata in vigore, dopo l’emanazione dei decreti connessi alla delega, a partire da gennaio 2015: ciò che Renzi ha ribadito ieri, parlando a suocera (sindacati e Confindustria) perché nuora (Bruxelles e la Commissione europea) intendano.
Seppure Cgil e Fiom non riusciranno a fermare il Jobs Act e la battaglia del sindacato - che culminerà il 12 dicembre nello sciopero generale organizzato con la Uil - è dunque destinata, almeno per il momento, a restare di testimonianza, non è un mistero che su Landini negli ultimi tempi si concentrino le attenzioni della sinistra radicale e della parte della minoranza Pd (Fassina, D’Attorre, Civati), che continua ad opporsi alla cancellazione dell’articolo 18 e potrebbe votare contro alla Camera. Landini insomma ieri ha perso il primo tempo della partita. Ma ha portato all’estremo la rappresentazione della rottura tra Pd, governo e una parte consistente del mondo del lavoro. Per questo, in caso di scissione del partito, è atteso al secondo tempo come leader della nuova formazione che potrebbe nascere a sinistra.

Si complica l’accordo sull’Italicum del premier
di Massimo Franco Corriere 22.11.14
Matteo Renzi comincia a rendersi conto che senza completare la riforma del Senato, gli sarà difficile avere quella elettorale. Nascerebbero tali e tante questioni, anche di costituzionalità, da scoraggiare qualunque forzatura. Silvio Berlusconi, invece, è sempre più convinto che l’Italicum abbozzato dal premier e dal suo alleato Angelino Alfano non convenga a Forza Italia. La soglia del 3 per cento per entrare in Parlamento favorisce i piccoli partiti e impedisce l’eventuale ricomposizione del centrodestra. E il premio alla lista darebbe un vantaggio indubbio al Pd.
Per questo, i contorni della riforma del voto stanno diventando più confusi e sfuggenti. I tempi si possono allungare, sebbene Renzi sia convinto di poter chiudere per fine anno. La verità è che oggi Berlusconi, l’uomo-simbolo del sistema maggioritario, ne è il più acerrimo avversario. E considera l’odiato proporzionale la formula magica per la sopravvivenza. Non a caso, da qualche giorno il suo partito getta parole di scetticismo sull’Italicum nella versione governativa. E lascia filtrare la tentazione di elezioni anticipate; ma non con le regole abbozzate da Renzi e prefigurate dalla trasformazione del Senato. Forza Italia accarezza l’idea di andare alle urne seguendo le indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale dell’anno scorso: quella che ha bocciato il cosiddetto Porcellum e suggerisce una legge fondata sul massimo di proporzionalità. Insomma, la sensazione è che le distanze tra premier ed ex premier vadano accentuandosi non solo sulla politica economica. I loro interessi elettorali divergono. E le fronde simmetriche e opposte dentro il Pd e dentro FI rendono il patto del Nazareno tra loro un’intesa a rischio di tenuta.
Sulle prospettive della legislatura a questo punto non pesa solo l’incognita delle dimissioni di Giorgio Napolitano dal Quirinale. Va valutato anche se e come si evolverà il rapporto tra il presidente del Consiglio e Berlusconi. Per Renzi, andare al voto senza un premio di seggi alla forza maggiore significherebbe ritrovarsi con un Parlamento perfino più frammentato dell’attuale; e senza la certezza di poter governare. Berlusconi, invece, per quanto indebolito politicamente e numericamente, conserverebbe comunque la speranza di entrare in una coalizione; senza contare che rinvierebbe la resa dei conti con i suoi oppositori interni.
Rimane un aspetto non secondario: l’acuirsi delle tensioni sociali e dello scontro tra premier e sindacati. La tensione tra Renzi e la Cgil è tale che si comincia a ipotizzare una mediazione per evitare lo sciopero generale del 12 dicembre: sebbene non si capisca come. La Fiom, la federazione dei metalmeccanici, sta andando fuori misura. Il segretario Maurizio Landini ieri è arrivato a dire che a votare il leader del Pd non c’è «la gente onesta»: un autogol seguito da una rettifica imbarazzata. L’episodio, tuttavia, conferma a che livello sia arrivato il conflitto. Bisogna solo capire se lo si vuole contenere o cavalcare, da parte di entrambi: magari per calcoli elettorali.

Alle urne con il Consultellum La tentazione di Berlusconi
Renzi vuole l’Italicum dal Senato come regalo di Natale, Berlusconi invece spera di trovare nell’uovo di Pasqua le elezioni con il Consultellum.di Francesco Verderami Corriere 22.11.14
La politica riflessa nello specchio offre sempre di sé un’immagine rovesciata: così il premier — che sembra desideroso delle urne — sta dando in realtà «ampie garanzie» al capo dello Stato e agli alleati di governo, sostenendo di non voler interrompere la legislatura; mentre il Cavaliere — che fa mostra di temere il voto — vorrebbe tanto un lavacro elettorale. C’è più di un motivo che divide i pattisti del Nazareno, e il mini-test delle Regionali porterà tutto alla luce.
Perché non c’è dubbio che l’astensionismo potrebbe macchiare la vittoria del Pd, data per scontata, ma una debacle di Forza Italia spalancherebbe le porte degli inferi davanti a Berlusconi, che ieri si è già precostituito l’alibi in previsione della sconfitta: «Il mio partito è stato ingiustissimamente mutilato dall’assenza del suo leader». È un pezzo di verità, a cui va aggiunto però l’altra parte, visto che il Cavaliere si è preclusa anzitempo in Calabria la possibilità di competere con il Pd, rompendo l’alleanza di centrodestra.
Si vedrà se l’idea di ricongiungere la coalizione da lunedì prossimo è una manovra tattica o un progetto strategico, ma è evidente che il tempo è nemico di Berlusconi, e che i suoi avversari proprio sul fattore tempo fanno affidamento. Le elezioni in primavera con il Consultellum sarebbero quindi l’unico modo per rompere l’assedio a cui va incontro, ecco perché ieri — per una volta — Brunetta ha interpretato autenticamente il pensiero di Berlusconi: «Prima si va alle urne con il Consultellum, meglio è».
Per quanto ridimensionato nella forza, il Cavaliere — con il proporzionale — si garantirebbe comunque un ruolo al fianco di Renzi per un governo che, dietro il solenne impegno di varare le riforme, porterebbe indietro le lancette della storia. Per arrivarci, però, sarebbe necessario che qualcuno staccasse la spina all’attuale esecutivo. E siccome il premier dice di voler «vincere o perdere da solo», toccherebbe a Ncd aprire la crisi, dopo che l’«operazione Lassie» è fallita e Berlusconi non è riuscito a smontare i gruppi parlamentari di Alfano. Sono davvero queste le intenzioni del Cavaliere? Perché due settimane fa si rivolse così al suo ex delfino: «Si dia una mossa». Senza questa «mossa», e in caso di sconfitta alle Regionali, il leader di Forza Italia dovrebbe fronteggiare — oltre l’Opa di Salvini — anche l’offensiva interna di Fitto, che da giorni si chiede se il ricovero per l’uveite sia servito a Berlusconi solo per porre rimedio al malanno o anche per evitare il loro programmato faccia a faccia. Una cosa è certa: l’ex governatore della Puglia non ha accettato di sconvocare la manifestazione organizzata per il 27, nonostante le richieste pressanti del Cavaliere.
La «pace armata» sta per terminare, e un risultato negativo alle Regionali riaprirebbe il conflitto in Forza Italia. La tempistica dipenderà da Renzi, per quel gioco di incastri che tiene assieme le cose della politica.
Qualora il premier garantisse la prosecuzione della legislatura e si chiudesse la finestra elettorale di primavera, a fianco di Fitto si potrebbero schierare molti di quei parlamentari azzurri finora rimasti prudenti per paura delle urne. A quel punto, basterebbe una parola a provocare il terremoto: «Primarie». Sarebbe un big bang che aprirebbe nuovi scenari dentro il centrodestra, preludio magari di quel «nuovo contenitore» evocato nei giorni scorsi da Gasparri e in cui potrebbero infine ritrovarsi le forze che in Italia si rifanno al Ppe, così da ridimensionare le mire leghiste e per rilanciare un’area moderata di governo credibile nella sfida con Renzi. Nessuna manovra nell’ombra contro Berlusconi, «io faccio tutto allo scoperto» ha detto ieri in un comizio Fitto, convinto che il premier non voglia nè possa andare alle urne, ma in attesa di avere «una prova».
E la «prova» si materializzerà la prossima settimana, quando sull’Italicum il leader del Pd ufficializzerà lo «scambio» al Senato: Renzi chiederà che palazzo Madama esamini la riforma del sistema elettorale tra il 21 e il 24 dicembre, e accetterà al contempo una norma transitoria che renderà inapplicabile il nuovo meccanismo di voto fino alla riforma del bicameralismo. Ecco il regalo di Natale che si aspetta. Per Berlusconi sarebbe come trovarsi il carbone sotto l’albero.

Sull'Italicum frenatori all'opera
di Roberto D'Alimonte Il Sole 22.11.14
L'ultima novità in tema di riforma elettorale è questa: il Parlamento non dovrebbe legiferare nei prossimi giorni perché un voto definitivo sull'Italicum creerebbe una situazione in cui non si potrebbe tornare a votare per mancanza di uno strumento elettorale costituzionalmente legittimo.
È la tesi di alcuni costituzionalisti ed ex giudici della Consulta. Secondo questa tesi un premio di maggioranza, come quello previsto dall'Italicum, va bene solo se garantisce la governabilità. Solo in questo caso diventa ragionevole, e pertanto costituzionalmente accettabile, il sacrificio della rappresentatività conseguente alla distorsione del rapporto tra voti e seggi causato dal premio.
Se il Parlamento fosse composto da una sola camera che dà la fiducia, l'Italicum andrebbe bene. Ma le camere sono attualmente due e allora la possibilità che si possa andare alle urne, dopo l'approvazione dell'Italicum e prima della approvazione della riforma del Senato, con due sistemi elettorali diversi, uno maggioritario e l'altro proporzionale renderebbe l'Italicum incostituzionale. La ragione starebbe nel fatto che il premio previsto dal nuovo sistema elettorale non garantirebbe comunque la governabilità. Il risultato del Senato infatti potrebbe non dare una maggioranza assoluta di seggi al vincente, come avviene alla Camera, o addirittura potrebbe produrre una maggioranza completamente diversa da quella della Camera. La conclusione di questo ragionamento è che non si può approvare l'Italicum senza riformare il Senato oppure senza estendere al Senato un sistema elettorale simile a quello della Camera. Per essere ancora più precisi, l'approvazione dell'Italicum, rebus sic stantibus, creerebbe una situazione di vuoto normativo. Il paese sarebbe senza un sistema elettorale utilizzabile per andare alle urne.
Quindi, niente riforma elettorale per ora. Infatti è del tutto irrealistico che i partiti consentano a Renzi di estendere l'Italicum, o una sua versione, al Senato. Nessuno vuole il voto. Dare a Renzi la possibilità di andare alle urne sarebbe irrazionale dal punto di vista degli attuali deputati e senatori il cui unico interesse è quello di conservare il seggio e non certo quello di fare una buona riforma elettorale. Seguendo questo ragionamento l'Italicum dovrebbe essere accantonato e il parlamento dovrebbe concentrarsi sulla riforma del Senato. Solo dopo la sua approvazione, e cioè tra un anno o più, si potrebbe ripescare l'Italicum. Si capisce l'entusiasmo di tanti di fronte alle parole degli ex-giudici della Consulta sentiti dalla commissione affari costituzionali del Senato nei giorni scorsi. Chi voleva rinviare alle calende greche l'approvazione di una nuova legge elettorale ha trovato un avvallo insperato.
La tesi appena esposta però non sta in piedi. È irragionevole che un sistema elettorale previsto per la elezione dei deputati venga giudicato costituzionale o meno non in base ad un principio generale ma a seconda di un dato di fatto ipotetico, cioè quello che potrebbe succedere al Senato. In altre parole, se gli elettori votano allo stesso modo sia alla Camera che al Senato il sistema elettorale è costituzionale. Se invece votano in maniera diversa, con un esito tra le due camere diverso, il sistema è incostituzionale. Detto altrimenti, se l'Italicum fosse approvato anche per il Senato in una versione simile a quella della Camera non ci sarebbe nessuna certezza che assicurerebbe la governabilità, dando luogo allo stesso risultato nei due rami del parlamento. La governabilità che secondo i giudici rende costituzionalmente legittimo il premio di maggioranza non è solo una funzione del sistema elettorale, ma anche delle preferenze degli elettori che a loro volta dipendono dalla offerta politica. Una offerta politica diversa tra le due camere può dar luogo ad un risultato diverso indipendentemente dal fatto che il sistema elettorale della Camera - l'Italicum - sia col premio e quello del Senato - il consultellum - no.
Insomma, premio o non premio in un sistema bicamerale l'esito del voto tra le due camere può essere divergente. E così è stato anche ai tempi della Mattarella, senza che giudici e giuristi sollevassero il problema della costituzionalità di due diversi sistemi maggioritari (tutti e due a premio, anche se un premio diverso da quello dell'Italicum) che potevano produrre risultati non coincidenti. E questo anche in virtù del fatto che i due elettorati, allora come ora, erano diversi visto che alla Camera si vota a 18 anni e al Senato a 25. C'è qualcuno che alla Corte sollevò il problema? E la legge elettorale del 1953 quando il premio fu introdotto alla Camera e non al Senato? Era incostituzionale anche quella?

La scommessa del premier
di Lina Palmerini Il Sole 22.11.14
La linea di confine non è, come vorrebbe Maurizio Landini, tra onesti e disonesti ma tra europeisti e non. E ieri Matteo Renzi è sembrato più convintamente tra i primi, nonostante le polemiche anche recenti. Di certo perché martedì lo attende il primo esame sulla manovra.
Sono passati pochi mesi da quando si parlava di un premier pronto a violare la regola del 3 per cento. Una strada che è stata poi velocemente abbandonata per intraprendere quella esattamente opposta: un percorso di riforme che sta costando a Matteo Renzi quello che lui temeva, un calo di consensi e proteste in piazza. Seguire una linea pro-Europa ha un prezzo politico che, però, ora il premier sembra volersi giocare in un'altra chiave. Non più della polemica a distanza contro i burocrati della Commissione, come ha fatto fino a qualche giorno fa mettendo un piede nel mainstream anti-Ue, ma cercando risultati spendibili in chiave nazionale. Quali? Innanzitutto uno a brevissimo termine. Martedì prossimo la Commissione – sembra – approverà la nostra legge di stabilità senza chiedere ulteriori correzioni. E questo Renzi lo userà sul piano interno: per contrastare scioperi sindacali e l'opposizione interna dirà di aver vinto il primo round con Bruxelles.
Il prossimo round, più importante, è quello del piano Juncker da 300 miliardi. Quello che c'è sul piatto l'ha detto chiaramente ieri intervenendo al summit della Confindustria europea: scorporare gli investimenti dal calcolo del deficit. Dunque, se la revisione dell'articolo 18 gli costa un calo di consensi a sinistra e lo sciopero generale del 12 dicembre, lui punta a smontare l'opposizione sociale mettendo sul piatto una scommessa più grande: risorse per rilanciare l'economia e l'occupazione. Ma è una partita che si giocherà il 18 dicembre, quando si riunirà il Consiglio Ue e comincerà a prendere forma e sostanza quel piano. In vista di quell'incontro Renzi potrà dire che la riforma del lavoro fa parte di un negoziato per incassare quello che nessun premier italiano ha finora ottenuto: tenere fuori dal parametro del 3% la quota di investimenti pubblici.
Troppo presto per dire se la spunterà ma comunque Renzi, tatticamente, ha messo la sua asticella lì, a Bruxelles. E le proteste sindacali non fanno che aiutarlo a dimostrare all'Europa quanto stia facendo sul serio. È chiaro che in questa scommessa il premier traccia anche una linea di campo tra europeisti e anti scavalcando quella tra onesti e disonesti tracciata – ieri – da un Maurizio Landini incappato in una frase poi corretta. Segno che davvero gli scioperi contro le politiche del Governo hanno ragioni deboli se non sono declinati anche in una chiave anti-europeista. Un campo, però, dove dominano i populismi da cui finora anche la sinistra si è tenuta a distanza.
La scommessa di Renzi con l'Europa ha quindi almeno tre date per essere verificata. La prima, martedì prossimo. La seconda il 18 dicembre con il Consiglio Ue sul piano Juncker. La terza, dei primi mesi del 2015, riguarda la partita nella Bce sull'approvazione del Quantitative easing. È in questa prospettiva che si collocano le parole di ieri di Renzi che erano molto in sintonia con Bruxelles, Francoforte e Berlino. «Noi siamo sicuri della necessità di cambiare l'Ue ma prima dobbiamo cambiare noi stessi. Dobbiamo dare un messaggio di cambiamento radicale». Parole che sembrano quasi ispirate a Mario Monti. È però prevedibile che se tutto si dovesse complicare, la strategia di Renzi segnerà un'altra inversione a U. E il premier riprenderà il linguaggio di qualche mese fa, colpendo con più forza l'obiettivo che oggi dice di voler rispettare: quel 3% di deficit/Pil. 

Minoranza dem in trincea trenta verso il no alla riforma Guerini: costretti alla fiducia
di Francesco Bei Repubblica 22.11.14
ROMA La ferita del lavoro sanguina, la voglia di «farla pagare» a Renzi è forte. C’è anche un documento in gestazione contro il Jobs Act. Una lettera aperta per gridare al mondo la distanza fra il PdR, il partito di Renzi e il vecchio Pd versione analogica, quel mondo antico vicino alla Cgil che il premier sbeffeggia ogni giorno. La crisi è scoppiata ieri mattina, in una riunione a porte chiuse del gruppo dem alla Camera, un’assemblea che avrebbe dovuto sancire la ricomposizione del partito ed è invece stato il film della lacerazione tra la maggioranza e l’area dei dissidenti. Un processo al Jobs Act e al premier dai toni durissimi, con Bindi, Fassina, D’Attorre e Cuperlo a sparare ad alzo zero contro il quartier generale.
A poco serve una lunga dissertazione di Cesare Damiano, sinistra collaborativa, che spiega come e perché la legge delega uscita dalla commissione lavoro sia molto diversa da quella approvata in Senato. «Al di là del dato tecnico — attacca Rosy Bindi — resta un interrogativo politico di fondo: può il principale partito della sinistra essere lontano dal mondo del lavoro, estraneo a quelle che il Papa chiama le periferie esistenziali? Io due anni fa, da presidente del Pd, insieme a Bersani ho fermato la mano della Fornero sull’articolo 18. E ora cosa dovrei fare? ». Lorenzo Guerini, incaricato di difendere la linea, prova a mediare: «Il governo ha recepito le indicazioni del partito. Il nostro atteggiamento va misurato sulla distanza tra il provvedimento e l’ordine del giorno della direzione del Pd. Quella distanza si è annullata, è una cosa che tutti possono rivendicare». Manco per niente. Alfredo D’Attorre: «Secondo Guerini il Pd ha ottenuto tutto. Non sono d’accordo. Renzi diceva di voler superare l’apartheid del mondo del lavoro, ma qui dal Sudafrica passiamo all’India delle caste: si rende permanente la discriminazione tra lavoratori». Dopo D’Attorre, Stefano Fassina elenca senza sconti tutti i punti «inaccettabili» del testo: «Purtroppo è tutta l’impostazione di fondo della delega che non va. Non c’è il contratto unico, non si tagliano i contratti precari, non c’è il miliardo e mezzo di risorse aggiuntive per gli ammortizzatori sociali. La parte destruens è molto chiara, la parte construens invece è virtuale». Non è che l’inizio: «Quando Renzi parla di lavoro — prosegue l’arringa Fassina — utilizza il linguaggio dei peggiori conservatori. Cavalca l’antipolitica per colpire i sindacati». È un crescendo. E da ultimo arriva Gianni Cuperlo, ormai lontano dall’ala bersaniana dialogante. L’ex sfidante di Renzi alle primarie lamenta una «compressione dei diritti», una cosa «che dovrebbe essere inaccettabile per un partito che si dice ancora di sinistra». Poi la pietra dello scandalo: «Questo Jobs Act svende i lavoratori: chiedo la libertà di coscienza per i parlamentari ». È un punto delicato, c’è la disciplina del gruppo in discussione. Un rapido scambio di occhiate tra Guerini e il capogruppo Speranza segnala che si è arrivati al bivio decisivo. E qualcuno s’incarica di stoppare subito l’incursione di Cuperlo. Sono proprio i bersaniani a farlo, quelli che sul Jobs Act sono per rivendicare i miglioramenti fatti e per votare sì al provvedimento. Davide Marantelli s’inalbera: «Dov’era Fassina quando abbiamo votato la Fornero, non era il nostro responsabile economico?» E a Cuperlo risponde: «Parli di libertà di coscienza? Quando mi è stato fatto votare l’articolo 81 della Costituzione avrei voluto anch’io appellarmi alla libertà, ma non mi è stato concesso». Enza Bruno Bossio, area riformista, spara una bordata ancora più pesante: «Chiedere la libertà di coscienza significa voler additare come traditori noi che rispettiamo la disciplina di partito».
Alla fine lo spettro della fiducia aleggia sulla riunione. La minoranza potrebbe votarla, salvo poi votare no sul provvedimento finale e rendere pubblico un documento di dissenso. Si parla di un gruppo di una trentina di ribelli. Finita la riunione, Guerini s’allontana scuotendo la testa: «Non vorrei che la fiducia fossimo costretti a metterla per colpa del Pd».

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