Paul Valéry: Opere scelte, Mondadori pagg. CIII-1771, euro 80
Risvolto
l volume raccoglie una scelta di testi di Valéry suddivisi in sezioni per genere letterario. La poesia è presente con i grandi testi che gli hanno dato fama (Incanti - di cui fa parte il celeberrimo Cimitero marino - e La giovane Parca), un'ampia raccolta delle poesie giovanili (da lui pubblicate con il titolo Album di antichi versi) e una scelta delle poesie ritrovate nella corrispondenza con gli amici: versi finora ignoti, ove l'erotismo si fonde con la tenerezza.
l volume raccoglie una scelta di testi di Valéry suddivisi in sezioni per genere letterario. La poesia è presente con i grandi testi che gli hanno dato fama (Incanti - di cui fa parte il celeberrimo Cimitero marino - e La giovane Parca), un'ampia raccolta delle poesie giovanili (da lui pubblicate con il titolo Album di antichi versi) e una scelta delle poesie ritrovate nella corrispondenza con gli amici: versi finora ignoti, ove l'erotismo si fonde con la tenerezza.
Accanto alla poesia, il Meridiano presenta un campione di prosa poetica (Alfabeto, L'angelo),
i grandi dialoghi, il teatro e un'ampia sezione di saggistica -
dedicata all'arte, al pensiero astratto, ai problemi concreti del mondo
attuale. Ma è la sezione "Modelli e strumenti del pensiero" a delineare
il percorso del tutto personale di Valéry: da Monsieur Teste - che fece dello scrittore l'idolo dei surrealisti - al suo particolare Leonardo da Vinci, dall'analisi del funzionamento della mente condotta attraverso i Quaderni,
alle riflessioni sulla creatività letteraria che hanno costituito il
suo Corso di Poetica al Collège de France, totalmente inedito. Tutte le
traduzioni sono nuove. Il ricchissimo apparato critico, che indaga in
particolare il processo creativo di Valéry, è firmato da Maria Teresa
Giaveri, la studiosa che a Valéry ha dedicato decenni di studi e
passione.
Paul Valéry il poeta che inventò l’idea di linkSaggi e versi profetici esce il suo Meridianodi Valerio Magrelli Repubblica 12.12.14
QUELLA di Paul Valéry è la storia di una strana metamorfosi, e il Meridiano che la sua maggiore studiosa italiana, Maria Teresa Giaveri, ha appena curato col titolo Opere scelte ( Mondadori, pagg. 1771, euro 80) non fa che confermarlo nel migliore dei modi, anche grazie a un’ottima squadra di cinque traduttori (Maria Teresa Giaveri, Antonio Lavieri, Massimo Scotti, Paola Sodo e Anita Tatone). Diviso in sei parti, il volume spazia dalla poesia alla prosa poetica.
QUELLA di Paul Valéry è la storia di una strana metamorfosi, e il Meridiano che la sua maggiore studiosa italiana, Maria Teresa Giaveri, ha appena curato col titolo Opere scelte ( Mondadori, pagg. 1771, euro 80) non fa che confermarlo nel migliore dei modi, anche grazie a un’ottima squadra di cinque traduttori (Maria Teresa Giaveri, Antonio Lavieri, Massimo Scotti, Paola Sodo e Anita Tatone). Diviso in sei parti, il volume spazia dalla poesia alla prosa poetica.
Dai dialoghi al teatro, con una voce che, dedicata a Modelli e strumenti del pensiero , accoglie alcuni testi posti nel segno di tre “eroi intellettuali”: Monsieur Teste, Leonardo da Vinci e Robinson (proprio quello di Defoe, spiega la Giaveri, trasfigurato in nume tutelare della attività cerebrali). Quanto all’ultima sezione, sulla saggistica, vi ritroviamo ambiti diversi quali pittura, letteratura e estetica, senza dimenticare Attualità e politica . Davvero un bel crogiuolo! Ma come conciliare versi metricamente analoghi a quelli di un Racine, con interventi di taglio geopolitico o sociologico?
Come far convivere nella stessa persona lo
studioso di matematica e quello di estetica, il critico letterario e
l’esperto di medicina? In verità ci troviamo di fronte a un essere
“almeno” doppio, come i mostruosi fauni tanto cari al suo grande
maestro, Mallarmé. D’altronde, ultimo erede del simbolismo, Valéry fu
anche l’intellettuale capace di prevedere l’avvento della televisione
già nel 1928: «Verrà un giorno in cui un tramonto sul Pacifico, o un
Tiziano del museo di Madrid, appariranno sul muro della nostra camera in
modo altrettanto potente ed illusorio di una sinfonia diffusa via
radio. Come l’acqua, il gas o l’energia elettrica, con uno sforzo quasi
nullo arrivano nelle case da lontano per rispondere ai nostri bisogni,
così saremo alimentati da impulsi visivi o auditivi, che nasceranno o
svaniranno a un minimo segno, quasi un cenno». Inoltre, descrivendo un
futuro gestito da una “società per la distribuzione di Realtà Sensibile a
domicilio”, il poeta si spinge addirittura a preconizzare la moderna
nozione di link: « Prima o poi, sarebbe interessante fare un’opera che
mostrasse in ognuno dei suoi nodi, la diversità che vi si può presentare
alla mente, e tra cui essa sceglie l’unico seguito che sarà offerto nel
testo». Comunque, a ben vedere, non c’è da stupirsi troppo, tenendo
conto dei suoi vivi interessi scientifici, e di una corrispondenza in
cui troviamo, tra i nomi di filosofi e di fisici, quelli di Henri
Bergson o Albert Einstein.
Dicevamo però delle mutazioni a cui andò
incontro la sua figura. Nel 1896 bastò una sua breve prosa, La serata
con Monsieur Teste , per farne la stella dei giovani letterati francesi,
destinati a innescare di lì a poco la bomba dada e l’incendio
surrealista. André Breton, che in seguito lo volle come testimone di
nozze, dichiarò di avere conosciuto quasi a memoria quell’opera, apparsa
proprio l’anno della sua nascita. E questo fu solo l’inizio di un
successo letterario e mondano dai particolarissimi risvolti. Dopo quasi
un ventennio di apparente silenzio, tra il 1917 e il 1920 apparvero
infatti una serie di poemetti che abbagliarono alcuni fra i massimi
poeti europei, Ungaretti, Rilke e Guillén, che di lì a poco ne
diverranno anche i traduttori. Dopo LaGiovane Parca, fu soprattutto il
Cimitero marino che impose Valéry agli occhi del mondo: «Non è forse la
poesia più famosa del nostro tempo?», si chiedeva ad esempio, ancora nel
1957, uno storico dell’arte come Cesare Brandi.
Le trasformazioni,
tuttavia, non erano finite. In certo modo, nemmeno l’autore di quegli
abbaglianti alessandrini o decasillabi corrisponde allo stesso che
leggiamo oggi. Ad esso, infatti, è andato sostituendosi un nuovo, per
così dire “terzo”, Valéry. Sia chiaro, dopo le delusioni subite da
Breton e compagni (che videro con orrore il proprio idolo volgersi al
classicismo), non mancarono i detrattori della poesia valeriana. Basti
citare Nathalie Sarraute, Cioran, Gombrowicz o Bonnefoy, radicalmente
contrari a una versificazione rimata, anacronistica e aliena come un
“meteorite”. Tuttavia, lo si è detto, ormai tali reazioni appaiono,
sotto molti aspetti, datate, poiché dopo la morte dello scrittore è
emerso un continente sconosciuto, un’autentica Atlantide letteraria.
Mi
riferisco agli ormai leggendari Quaderni , delle cui venticinquemila
pagine esiste un’edizione fotografica in 29 volumi, mentre sta
lentamente uscendo un’edizione critica integrale (Adelphi ne ha
pubblicato una scelta in cinque volumi). Se si pensa che, secondo molti
critici, l’insieme di questi testi costituisce l’impresa suprema di
Valéry, è facile capire quanto sfocati risultino i giudizi finora
formulati. È un po’ come parlare della Francia senza aver visitato
Parigi...
Di cosa si tratta? Immaginate una specie di diario mentale,
o meglio, un laboratorio autocognitivo approntato, mattina dopo
mattina, nel corso di mezzo secolo. Gran parte dei Cahiers fu composta
all’alba, da un “pensatore mattiniero” che ricorreva a innumerevoli
tazze di caffè (vedi Balzac).
Dopo quelle poche ore di assoluta
concentrazione, Valéry rivendicava il diritto di essere stupido per
tutto il resto del giorno. «Amo il pensiero come altri amano il nudo,
che disegnerebbero per tutta la vita», leggiamo in un suo aforisma. Ma a
parte queste vere folgorazioni («Il ciclone può distruggere una città
[..] ma non riuscirà mai a sciogliere un nodo»), i Cahiers , nota la
Giaveri, sono soprattutto uno strumento gnoseologico: “esercizio
spirituale” secondo l’esempio di Ignazio di Loyola, “ginnastica” come
per un atleta, “dressage” come per il cavallo Gladiator, o danza,
scherma, scacchi – insomma, l’occasione per un processo di
perfezionamento personale. Per questo sembra giusto terminare con il
breve, toccante necrologio di Borges: «Yeats, Rilke e Eliot hanno
composto versi più memorabili […] Joyce e Stefan George hanno compiuto
modificazioni più profonde nel loro strumento linguistico; ma dietro
l’opera di quegli eminenti artefici, non c’è una personalità
paragonabile a quella di Valéry».
Pensiero stupendo Rinnovare le idee col metodo Valéry
Eclettico, libero, leonardesco: l'intellettuale che cambia il mondo non cresce in accademia - il Giornale Dom, 04/01/2015
Paul Valéry, il mondo è un cristallo in versi
Un filo rosso percorre tutti gli scritti del poeta francese: la ricerca di una sintesi tra arte e conoscenza scientificadi Federico Vercellone La Stampa TuttoLibri 14.2.15
A più riprese il nostro tempo si è richiamato alla necessità di superare le due culture, di realizzare una sintesi fruttuosa di arte e scienza. Un grande antesignano di questo cammino, quasi un veggente in grado di scrutare in epoca remota questo nuovo orizzonte è stato Paul Valéry del quale viene ora pubblicato un pregevolissimo Meridiano Mondadori a cura di Marina Giaveri. Ne va qui, fra l’altro, di un pensiero che riflette sulla natura poietica della tecnica, suggerendoci così di proseguire per conto nostro sino a oggi, e cioè sino alla presenza dominante e tuttavia quanto mai affabile delle tecniche digitali.
Il percorso di Valéry è così oggi, e sotto ogni aspetto, quanto mai significativo. Egli sembra affrontare in controtendenza, con sguardo di veggente, un’epoca attraversata da una crisi di valori profonda che leverà dolente le proprie antenne sensibili dapprima nell’arte simbolista e poi nella grande cultura filosofica e sociologica della crisi dei primi decenni del ventesimo secolo.
In questo quadro la crisi personale attraversata dal Valéry ventenne nel 1892 assume i toni di una vera e propria conversione evangelica. Consapevole della debolezza della propria vocazione e delle proprie capacità letterarie, Valéry rinnova il proprio cammino in direzione di un’arte di ispirazione gnoseologica, volta cioè a riattivare il nesso arte-conoscenza. E’ questo probabilmente il filo rosso più evidente che attraversa questa silloge di Opere scelte. Essa contempla in modo esauriente la produzione di Valéry dalla poesia (dagli Album d’antichi versi, agli Incanti, alle Poesie sparse), per venire alla prosa poetica, a Monsieur Teste e all’insegnamento di Poetica al Collège de France, ai dialoghi, tra cui spicca il famoso Eupalinos o L’architetto, al teatro, ai saggi di pittura (Degas, Manet, Berthe Morisot, la prefazione al catalogo di arte italiana), alla letteratura (dalla Fedra di Racine a Mallarmé), all’estetica e alla poetica e ai temi di politica e di attualità.
A proposito di questo quadro tanto mosso e pur così ben composto di un’attività molteplice che si sviluppa su molti piani correlati viene da riprendere quanto Valéry afferma nel Discorso in onore di Goethe definito PATER ÆSTHETICUS IN ÆTERNUM. Goethe è colui il quale è in grado di realizzare, con ritmo volutamente lento, un’opera grandiosa che racchiude in sé le più diverse sfere dell’essere e del sapere. Egli «visse tutto il tempo che era necessario per sperimentare più di una volta ognuna delle molle del suo essere; per farsi di sé molte e diverse idee, di cui disfarsi per riconoscersi sempre più grande». Entriamo così nell’ambito di un pensiero fondamentalmente dialogico. L’io è sempre un noi, un dialogo costante che procede non deduttivamente, ma sulla base dell’analogia, come fra l’altro si ricava dall’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci. L’analogia si affida al linguaggio delle immagini e scopre nella struttura intima dell’oggetto relazioni segrete tra esseri all’evidenza profondamente diversi. Essa attraversa dunque i campi del sapere, e va al di là di ogni artificiosa divisione tra le scienze per rinnovare il legame misterioso che attraversa le forme del mondo. Non c’è dunque, né potrebbe darsi mai un sistema esaustivo; se ne possono edificare bensì molti a seconda delle relazioni che si vengono a rilevare e a creare. Lo spirito di sistema cede dunque il passo a una logica poetica che è anche una logica poietica: essa crea il sapere non descrivendo il mondo ma insediandosi nel processo del suo stesso farsi. Dice Valéry: «Il segreto, quello di Leonardo come quello di Bonaparte, come quello che talora possiede un’intelligenza sovrana, risiede, e non potrebbe essere che così, nelle relazioni che essi hanno trovato – che sono stati costretti a trovare – tra elementi la cui legge di continuità ci sfugge».
Abbiamo così a che fare con un pensiero sintetico e dunque simbolico che si immerge nelle sorprendenti regolarità del mondo. «Il mondo» - scrive Valéry - «è irregolarmente disseminato di disposizioni regolari. Fra queste i cristalli; i fiori, le foglie; ornamenti scanalati, pellicce maculate, ali, conchiglie; tracce del vento sulla sabbia e sulle acque ecc.». E’ una geniale anticipazione della teoria della complessità venuta poi a svilupparsi, in particolare nella filosofia della scienza, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. E’ un pensiero che rifiuta dunque la specializzazione per inseguire le ramificazioni di senso delle cose. E’ un pensiero poetico che conosce e sperimenta le gioie del costruire come un essere l’edificio della conoscenza, che pone dunque al centro della riflessione estetica l’architettura. Per quanto riguarda quest’ultimo versante è in gioco un ampliamento gigantesco dei confini della disciplina filosofica che non indagherà più semplicemente i principi del bello e dell’opera d’arte, ma quelli della strutturazione sensibile e oggettiva del mondo fornitaci dalle diverse scienze e, in particolare, dalla fisica.
Valéry nume della nostra modernità
Nel periodo fra le due guerre, Il cimitero marino era
probabilmente la poesia contemporanea più celebre in Europa; il
suo autore, Paul Valéry, senz’ombra di dubbio l’intellettuale più
omaggiato del continente. Perfino una sua raccolta di articoli sul
presente, gli Sguardi sul mondo attuale, composta di pezzi
d’occasione per lo più pensosamente superficiali (e alquanto
reazionari: non manca un elogio dell’Idea di dittatura, ispirato
da un libro d’interviste di Salazar, e datato sinistramente 1934), ha
potuto essere per anni, in Francia, poco meno che un best seller.
Vate incensato, maître à penser, emblema del ritorno all’ordine
dopo il carnevale delle avanguardie, l’uomo che per più di vent’anni
si era quasi completamente negato alla parola pubblica,
concentrandosi sul quotidiano esercizio di autoanalisi
affidato alla scrittura privata dei Quaderni, sale
improvvisamente con La giovane Parca, nel 1917, al rango di poeta
ufficiale; e si costringe fino alla morte, avvenuta nel 1945,
a alimentare, con rare pubblicazioni poetiche – per l’essenziale,
la raccolta Charmes (Incanti), del 1922 – e innumerevoli
interventi di circostanza, spesso su commissione, la figura
mummificata del classico vivente.
Oggi, i versi di Paul Valéry sono certamente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti laureati del Novecento europeo. Li condanna con poche eccezioni all’obsolescenza, se non addirittura all’illeggibilità, proprio quell’ambizione di coniugare la modernità di un linguaggio poetico intransitivo e l’impeccabile versificazione del grand siècle (Racine redivivo!), proprio quell’innesto sistematico di oscurità mallarmeana e di fulgido formalismo classicista che a suo tempo ne giustificò la canonizzazione, ad opera del cenacolo raffinato (e spesso miope) della «Nouvelle Revue Française». Un altro classicismo, quello modernista e paradossale di Eliot e di Montale, capace di riscattare poeticamente le rovine della storia e gli oggetti poveri della quotidianità, nutrirà quel che conta della poesia del Novecento (e oltre); non avranno domani, invece, la censura di ogni contingenza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni giorno, delle sue occasioni e soprattutto «della massa» che la popola, l’epurazione lessicale di ogni scoria contaminata dal tempo umano, i capisaldi, insomma, della poetica degli Incanti. A rileggerla oggi, la stroncatura sbarazzina di Nathalie Sarraute, che fece scandalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tradotto da Einaudi nel 1988, oggi purtroppo esaurito), sembra addirittura ovvia.
Eppure, uno stesso punto di partenza storico e teorico accomuna l’autore della Giovane Parca e i poeti maggiori del primo Novecento: la convinzione controintuitiva, che Valéry meglio di chiunque altro ha saputo esprimere in un saggio memorabile su Baudelaire, che «ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore», perché «l’essenza del classicismo è di venir dopo», e «l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito di ridurre». Idea di cui si appropria tempestivamente, in Italia, un ammiratore e emulo di Valéry – poeticamente, diciamolo pure, assai più dotato di lui – Giuseppe Ungaretti, per motivare la svolta restauratrice che dall’Allegria conduce a Sentimento del tempo. Come per Baudelaire l’effusione sentimentale dei romantici è al tempo stesso presupposto imprescindibile e oggetto di polemico rifiuto, così la rottura avanguardista, lo scardinamento delle forme tradizionali, lo sberleffo all’istituzione letteraria sono ineludibile pietra di paragone (per emulazione o per antitesi) di ogni poesia che si voglia, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, all’altezza dei tempi.
La consapevolezza di «venir dopo», appunto, è il primum della scrittura: solo il provincialismo dei nostri ermetici potrà rimuoverla tout court, nella velleità di una poesia sedicente pura. I modernisti la integrano invece, questa consapevolezza, nella sostanza stessa dei testi: così nella poetica del correlativo oggettivo; così nella rifrazione degli eteronimi in Pessoa; così nell’ostentata, artefatta naturalezza di Saba (gli esempi, diversissimi e convergenti, si potrebbero moltiplicare). Valéry segue un percorso diverso: espunge quasi ogni riverbero di creaturale impurità dai suoi rari, algidi versi, peraltro sempre mirabili per levigata fattura, e affida al contrario alla prosa saggistica, e più ancora alle pagine tormentate dei Quaderni, una riflessione inquieta e spregiudicata, che ha tratti di vertiginoso acume e di assoluta modernità. Quasi, si direbbe, con una sorta di lucida schizofrenia: come se rifiutasse di spezzare il cristallo polito della metrica regolare, il vieto simulacro del bello tradizionale, pur riconoscendone l’intima, insostenibile vacuità di «piccolo monumento forse funebre», fatto delle «parole più pure» e della «forme più nobili» della lingua francese – e non senza intuire, forse, che i suoi confusi brogliacci avrebbero trovato grazia, presso i posteri, assai più degli aridi frutti del labor limae.
Per questo conviene salutare con gratitudine il lavoro immenso che ha consentito a Maria Teresa Giaveri di offrire, per la prima volta in Italia, e con cura editoriale impeccabile, una corposa silloge di Opere scelte («I Meridiani», Mondadori, pp. CIII + 1782, euro 80,00), capace di restituire, in sei ampie sezioni (Poesia, Prosa poetica, Modelli e strumenti del pensiero, Dialoghi, Teatro, Saggi: traduzioni tutte rigorosamente nuove), l’immagine complessa e sfaccettata di uno scrittore molto diverso da quello canonizzato negli anni trenta e, al contrario di quello, in parte ancora incontestabilmente vivo: non solo (non tanto) nella levigata lentezza, punteggiata di squarci illuminanti, dei dialoghi socratici (in specie i celeberrimi Eupalinos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprattutto) nella prosa giovanile di Monsieur Teste e nello sterminato cantiere dei Quaderni: al tempo stesso traboccante zibaldone di pensieri e ascetica ginnastica della mente, cui sono dedicate ogni mattina le energie più fresche; e, ancora, nella tendenziosa lucidità dei saggi letterari, che costruiscono una genealogia della lirica moderna con cui rimane inevitabile fare i conti (la linea Baudelaire, Mallarmé, Valéry), anche se è viziata da un’ottica nazionale angusta – questo scrittore come pochi intimamente franco-francese (ancorché di origini italiane per parte di madre, e di costumi cosmopoliti) elegge a testa di turco un romanticismo sentimentale di cui fa mostra d’ignorare la complessità filosofica sviluppata oltre Reno.
Di Valéry, dunque, reggono oggi soprattutto i Quaderni: esercizio di scrittura inaugurato, non a caso, nel 1894, dopo che, due anni prima, si è incrinata – fra le ambasce della celebre notte di Genova, e non solo – la fiducia nel platonismo del maestro riverito, Stéphane Mallarmé, e nella possibilità, per la parola poetica, di attingere l’ideale. L’interesse della ricerca si concentra ormai sui meccanismi di funzionamento della mente; il valore della scrittura diventa meramente gnoseologico: non più l’opera perfetta, ma la conoscenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mallarmé, s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo dell’autocoscienza, e alla cui filosofia della composizione vota un autentico culto. Rari gli altri interlocutori di questo autentico «Robinson intellettuale», che sfiora l’egotismo forgiando di volta in volta i concetti di cui si serve, e fingendo di ignorare il contemporaneo dibattito culturale – i riferimenti alle scienze esatte sono più pregnanti di quelli al dibattito filosofico o letterario. E, di quaderno in quaderno, delinea, con puntiglioso rigore razionale, l’abbozzo di una dottrina della creazione artistica, per poi offrirne un compendio, a partire dal 1937, nel corso di Poetica al Collège de France, di cui Giaveri regala al lettore italiano la traduzione di tre lezioni (due inedite anche in francese).
Quella dei Quaderni è una nebulosa di appunti, aforismi, formulazioni parziali che non trovano mai (e probabilmente non potevano trovare) definitiva sistemazione; ma pochi altri testi contengono un insieme più fecondo di intuizioni disparate, capaci di nutrire gli studi letterari (e non solo) dei decenni a venire. Il catalogo è impressionante (e incompleto).
Il formalismo e lo strutturalismo degli anni sessanta e settanta, prevedibilmente, hanno potuto vedere in Valéry un precursore – al punto che le due riviste parigine più significative di quella stagione, «Tel Quel» e «Poétique», gli sono debitrici del titolo. Il ruolo riconosciuto, nella genesi del testo letterario, a «non so qual presentimento delle reazioni esterne», e la consapevolezza che l’opera d’arte vive solo «in atto», nella concreta singolarità della lettura («è l’esecuzione della poesia che è poesia»), anticipano – ed era cosa molto meno scontata – le tesi della critica della ricezione.
La volontà di promuovere la «fabbricazione dell’opera» a «cosa principale» (perché «fare una poesia è poesia»), lo studio instancabile dei processi mentali che presiedono alla creazione artistica (intesa («come danza, come scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita interiormente», e anche il fascino per i manoscritti del passato (di Stendhal, di Hugo), lo predisponevano a diventare il nume tutelare, oltre che un oggetto d’indagine privilegiato, della critique génétique (versione francese, teoricamente più agguerrita, della nostrana critica delle varianti e degli scartafacci). Infine, l’odierna voga degli studi cognitivi può trovare stimolo e riscontro in quell’instancabile autoanalisi del pensiero, e dei suoi più sottili meccanismi, che sembra fare dell’impresa intellettuale di Paul Valéry il rovescio difensivo, ma non per questo meno grandioso, dell’opera di Sigmund Freud.
Perché davvero, come l’avanguardia è l’implicito antimodello della sua poesia, così la psicoanalisi pare il rimosso – o, se si preferisce, il bersaglio nascosto – della sua personale filosofia della mente: che dei sogni, della memoria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei meccanismi psichici, cerca ostinatamente di descrivere il funzionamento facendo economia di ogni ipotesi di inconscio.
Una postura intellettuale, questa, che non poteva non entrare in rotta di collisione con il movimento surrealista, a lungo egemone sulla scena letteraria francese; ma che sul medio e lungo periodo si è rivelata più produttiva dell’opera in versi anche in termini di discendenza letteraria, come mostra bene un esempio italiano. È infatti alle prose e ai Quaderni, assai più che agli Incanti, che ha guardato un poeta come Valerio Magrelli: non solo nel saggio einaudiano che ha dedicato all’autoscopia di Monsieur Teste e alla ripresa del mito di Narciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche nei temi e nelle forme delle raccolte in versi degli anni ottanta.
I due episodi maggiori della ricezione italiana di Valéry – Ungaretti e Magrelli, appunto – disegnano esemplarmente il destino di un’opera: da monumentale cauzione di un irrigidimento classicista a stimolo seminale, e disperso nell’infinibilità del work in progress, di un’autorappresentazione fluida, metamorfica, aporetica. Anche se poi quell’«Inesausta volontà di autocostruzione», che dà il titolo all’elegante introduzione di Maria Teresa Giaveri, quel rifiuto di oggettivare sé stesso nella materialità finita dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia mente»), quel subordinare la conoscenza e la scrittura stessa alla trasformazione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in definitiva, è Paul Valéry), se per un verso è lascito di stupefacente, quasi situazionista modernità, per un altro – ancora un paradosso – affonda le sue radici nell’humus del dandysmo fin de siècle, si ammanta di pretese estetizzanti, e insomma rivela insospettabili parentele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pacchiano vate: ovviamente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Giovane Parca non manca di render visita e omaggi.
Per l’allievo più dotato dello schivo Mallarmé, del poeta moderno più autenticamente alieno da esibizionismo, per il poeta metafisico che nel finale del Cimitero marino ha offerto un precoce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il celebre «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre», che nella traduzione di Giaveri suona (svantaggiosamente infedele): «S’alza il vento!… Affrontiamo la vita» – pare l’ennesima ironia della sorte.
Oggi, i versi di Paul Valéry sono certamente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti laureati del Novecento europeo. Li condanna con poche eccezioni all’obsolescenza, se non addirittura all’illeggibilità, proprio quell’ambizione di coniugare la modernità di un linguaggio poetico intransitivo e l’impeccabile versificazione del grand siècle (Racine redivivo!), proprio quell’innesto sistematico di oscurità mallarmeana e di fulgido formalismo classicista che a suo tempo ne giustificò la canonizzazione, ad opera del cenacolo raffinato (e spesso miope) della «Nouvelle Revue Française». Un altro classicismo, quello modernista e paradossale di Eliot e di Montale, capace di riscattare poeticamente le rovine della storia e gli oggetti poveri della quotidianità, nutrirà quel che conta della poesia del Novecento (e oltre); non avranno domani, invece, la censura di ogni contingenza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni giorno, delle sue occasioni e soprattutto «della massa» che la popola, l’epurazione lessicale di ogni scoria contaminata dal tempo umano, i capisaldi, insomma, della poetica degli Incanti. A rileggerla oggi, la stroncatura sbarazzina di Nathalie Sarraute, che fece scandalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tradotto da Einaudi nel 1988, oggi purtroppo esaurito), sembra addirittura ovvia.
Eppure, uno stesso punto di partenza storico e teorico accomuna l’autore della Giovane Parca e i poeti maggiori del primo Novecento: la convinzione controintuitiva, che Valéry meglio di chiunque altro ha saputo esprimere in un saggio memorabile su Baudelaire, che «ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore», perché «l’essenza del classicismo è di venir dopo», e «l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito di ridurre». Idea di cui si appropria tempestivamente, in Italia, un ammiratore e emulo di Valéry – poeticamente, diciamolo pure, assai più dotato di lui – Giuseppe Ungaretti, per motivare la svolta restauratrice che dall’Allegria conduce a Sentimento del tempo. Come per Baudelaire l’effusione sentimentale dei romantici è al tempo stesso presupposto imprescindibile e oggetto di polemico rifiuto, così la rottura avanguardista, lo scardinamento delle forme tradizionali, lo sberleffo all’istituzione letteraria sono ineludibile pietra di paragone (per emulazione o per antitesi) di ogni poesia che si voglia, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, all’altezza dei tempi.
La consapevolezza di «venir dopo», appunto, è il primum della scrittura: solo il provincialismo dei nostri ermetici potrà rimuoverla tout court, nella velleità di una poesia sedicente pura. I modernisti la integrano invece, questa consapevolezza, nella sostanza stessa dei testi: così nella poetica del correlativo oggettivo; così nella rifrazione degli eteronimi in Pessoa; così nell’ostentata, artefatta naturalezza di Saba (gli esempi, diversissimi e convergenti, si potrebbero moltiplicare). Valéry segue un percorso diverso: espunge quasi ogni riverbero di creaturale impurità dai suoi rari, algidi versi, peraltro sempre mirabili per levigata fattura, e affida al contrario alla prosa saggistica, e più ancora alle pagine tormentate dei Quaderni, una riflessione inquieta e spregiudicata, che ha tratti di vertiginoso acume e di assoluta modernità. Quasi, si direbbe, con una sorta di lucida schizofrenia: come se rifiutasse di spezzare il cristallo polito della metrica regolare, il vieto simulacro del bello tradizionale, pur riconoscendone l’intima, insostenibile vacuità di «piccolo monumento forse funebre», fatto delle «parole più pure» e della «forme più nobili» della lingua francese – e non senza intuire, forse, che i suoi confusi brogliacci avrebbero trovato grazia, presso i posteri, assai più degli aridi frutti del labor limae.
Per questo conviene salutare con gratitudine il lavoro immenso che ha consentito a Maria Teresa Giaveri di offrire, per la prima volta in Italia, e con cura editoriale impeccabile, una corposa silloge di Opere scelte («I Meridiani», Mondadori, pp. CIII + 1782, euro 80,00), capace di restituire, in sei ampie sezioni (Poesia, Prosa poetica, Modelli e strumenti del pensiero, Dialoghi, Teatro, Saggi: traduzioni tutte rigorosamente nuove), l’immagine complessa e sfaccettata di uno scrittore molto diverso da quello canonizzato negli anni trenta e, al contrario di quello, in parte ancora incontestabilmente vivo: non solo (non tanto) nella levigata lentezza, punteggiata di squarci illuminanti, dei dialoghi socratici (in specie i celeberrimi Eupalinos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprattutto) nella prosa giovanile di Monsieur Teste e nello sterminato cantiere dei Quaderni: al tempo stesso traboccante zibaldone di pensieri e ascetica ginnastica della mente, cui sono dedicate ogni mattina le energie più fresche; e, ancora, nella tendenziosa lucidità dei saggi letterari, che costruiscono una genealogia della lirica moderna con cui rimane inevitabile fare i conti (la linea Baudelaire, Mallarmé, Valéry), anche se è viziata da un’ottica nazionale angusta – questo scrittore come pochi intimamente franco-francese (ancorché di origini italiane per parte di madre, e di costumi cosmopoliti) elegge a testa di turco un romanticismo sentimentale di cui fa mostra d’ignorare la complessità filosofica sviluppata oltre Reno.
Di Valéry, dunque, reggono oggi soprattutto i Quaderni: esercizio di scrittura inaugurato, non a caso, nel 1894, dopo che, due anni prima, si è incrinata – fra le ambasce della celebre notte di Genova, e non solo – la fiducia nel platonismo del maestro riverito, Stéphane Mallarmé, e nella possibilità, per la parola poetica, di attingere l’ideale. L’interesse della ricerca si concentra ormai sui meccanismi di funzionamento della mente; il valore della scrittura diventa meramente gnoseologico: non più l’opera perfetta, ma la conoscenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mallarmé, s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo dell’autocoscienza, e alla cui filosofia della composizione vota un autentico culto. Rari gli altri interlocutori di questo autentico «Robinson intellettuale», che sfiora l’egotismo forgiando di volta in volta i concetti di cui si serve, e fingendo di ignorare il contemporaneo dibattito culturale – i riferimenti alle scienze esatte sono più pregnanti di quelli al dibattito filosofico o letterario. E, di quaderno in quaderno, delinea, con puntiglioso rigore razionale, l’abbozzo di una dottrina della creazione artistica, per poi offrirne un compendio, a partire dal 1937, nel corso di Poetica al Collège de France, di cui Giaveri regala al lettore italiano la traduzione di tre lezioni (due inedite anche in francese).
Quella dei Quaderni è una nebulosa di appunti, aforismi, formulazioni parziali che non trovano mai (e probabilmente non potevano trovare) definitiva sistemazione; ma pochi altri testi contengono un insieme più fecondo di intuizioni disparate, capaci di nutrire gli studi letterari (e non solo) dei decenni a venire. Il catalogo è impressionante (e incompleto).
Il formalismo e lo strutturalismo degli anni sessanta e settanta, prevedibilmente, hanno potuto vedere in Valéry un precursore – al punto che le due riviste parigine più significative di quella stagione, «Tel Quel» e «Poétique», gli sono debitrici del titolo. Il ruolo riconosciuto, nella genesi del testo letterario, a «non so qual presentimento delle reazioni esterne», e la consapevolezza che l’opera d’arte vive solo «in atto», nella concreta singolarità della lettura («è l’esecuzione della poesia che è poesia»), anticipano – ed era cosa molto meno scontata – le tesi della critica della ricezione.
La volontà di promuovere la «fabbricazione dell’opera» a «cosa principale» (perché «fare una poesia è poesia»), lo studio instancabile dei processi mentali che presiedono alla creazione artistica (intesa («come danza, come scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita interiormente», e anche il fascino per i manoscritti del passato (di Stendhal, di Hugo), lo predisponevano a diventare il nume tutelare, oltre che un oggetto d’indagine privilegiato, della critique génétique (versione francese, teoricamente più agguerrita, della nostrana critica delle varianti e degli scartafacci). Infine, l’odierna voga degli studi cognitivi può trovare stimolo e riscontro in quell’instancabile autoanalisi del pensiero, e dei suoi più sottili meccanismi, che sembra fare dell’impresa intellettuale di Paul Valéry il rovescio difensivo, ma non per questo meno grandioso, dell’opera di Sigmund Freud.
Perché davvero, come l’avanguardia è l’implicito antimodello della sua poesia, così la psicoanalisi pare il rimosso – o, se si preferisce, il bersaglio nascosto – della sua personale filosofia della mente: che dei sogni, della memoria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei meccanismi psichici, cerca ostinatamente di descrivere il funzionamento facendo economia di ogni ipotesi di inconscio.
Una postura intellettuale, questa, che non poteva non entrare in rotta di collisione con il movimento surrealista, a lungo egemone sulla scena letteraria francese; ma che sul medio e lungo periodo si è rivelata più produttiva dell’opera in versi anche in termini di discendenza letteraria, come mostra bene un esempio italiano. È infatti alle prose e ai Quaderni, assai più che agli Incanti, che ha guardato un poeta come Valerio Magrelli: non solo nel saggio einaudiano che ha dedicato all’autoscopia di Monsieur Teste e alla ripresa del mito di Narciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche nei temi e nelle forme delle raccolte in versi degli anni ottanta.
I due episodi maggiori della ricezione italiana di Valéry – Ungaretti e Magrelli, appunto – disegnano esemplarmente il destino di un’opera: da monumentale cauzione di un irrigidimento classicista a stimolo seminale, e disperso nell’infinibilità del work in progress, di un’autorappresentazione fluida, metamorfica, aporetica. Anche se poi quell’«Inesausta volontà di autocostruzione», che dà il titolo all’elegante introduzione di Maria Teresa Giaveri, quel rifiuto di oggettivare sé stesso nella materialità finita dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia mente»), quel subordinare la conoscenza e la scrittura stessa alla trasformazione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in definitiva, è Paul Valéry), se per un verso è lascito di stupefacente, quasi situazionista modernità, per un altro – ancora un paradosso – affonda le sue radici nell’humus del dandysmo fin de siècle, si ammanta di pretese estetizzanti, e insomma rivela insospettabili parentele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pacchiano vate: ovviamente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Giovane Parca non manca di render visita e omaggi.
Per l’allievo più dotato dello schivo Mallarmé, del poeta moderno più autenticamente alieno da esibizionismo, per il poeta metafisico che nel finale del Cimitero marino ha offerto un precoce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il celebre «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre», che nella traduzione di Giaveri suona (svantaggiosamente infedele): «S’alza il vento!… Affrontiamo la vita» – pare l’ennesima ironia della sorte.
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