Guillaume Apollinaire: Sade, Elliott
Risvolto
Le opere di Sade, protagonista emblematico di
un'epoca culminata nella Rivoluzione francese, hanno trovato lettori
d'eccezione in Baudelaire, Rimbaud, Nietzsche, nei surrealisti e in
genere nei ribelli ai canoni borghesi. Apollinaire gli dedicò questo
saggio equanime e chiarificatore, oltre che ricco dove occorra di
sotterranee complicità. Leggendolo si arriva a capire come il genio, mal
amministrato e peggio consigliato da una vocazione alle esperienze
estreme, abbia condotto il "divin marchese", discendente della Laura
petrarchesca e amico d'infanzia del principe Luigi Giuseppe di Borbone, a
trascorrere ventisette dei suoi settantacinque anni in carcere o in
manicomio. Introduzione di Giuseppe Scaraffia.
Sade non fu mai messo all’Indice
In Francia si fece 28 anni di carcere, le sue opere erano un caso editoriale che dura tutt’ora
In Francia si fece 28 anni di carcere, le sue opere erano un caso editoriale che dura tutt’ora
di Francesco Margiotta Broglio Corriere 1.12.14
Nel 1947, per la prima volta, varie opere di Sade vengono pubblicate a
Parigi con il nome e l’indirizzo di un editore, Jean-Jacques Pauvert,
che inizia con La storia di Juliette ovvero le prosperità del vizio ,
apparsa in origine nel 1797 con il falso luogo «In Olanda» e arricchita
da cento incisioni. Di essa l’autore negò la paternità, ma i librai non
esitarono a tradirlo, mentre du Ravel dichiarò che egli aveva superato
se stesso con uno scritto ancora più detestabile di quell’infame
«capolavoro di corruzione» rappresentato da Justine (1791), sorella di
Juliette, che sarà seguito dai 4 volumi della Nuova Justine . Nel marzo
1801 Sade viene nuovamente arrestato (in tutto saranno 28 i suoi anni di
carcere) e il manoscritto di Juliette viene sequestrato dalla polizia,
ma i librai parigini nel 1802 fanno a gara per ristampare e diffondere
le sue opere. Si trattava, e così sarà fino al 1947, di edizioni
clandestine o di tirature molto ridotte.
Pauvert, che aveva sfidato tabù sociali e leggi sulla censura
pubblicando 24 volumi di Sade, venne «severamente condannato» nel 1957
dal tribunale di Parigi per aver stampato opere contrarie al buon
costume (delle quali vennero ordinate la confisca e la distruzione),
denunciate dalla Commissione per i libri prevista dalle leggi: tra i
testimoni Paulhan, Bataille, Cocteau, Bréton. L’anno successivo
l’editore, difeso da un principe del foro, Maurice Garçon, accademico di
Francia, verrà assolto in appello per l’acclarata nullità della
decisione della Commissione per l’assenza di alcuni suoi membri.
Come ha scritto lo stesso Pauvert, per la prima volta «veniva
riconosciuto il diritto di esistere all’opera più scandalosa di tutti i
tempi», ma il 21 dicembre 1958 la Francia di de Gaulle approverà una
legge che ripristinava la censura con misure definite da Garçon più dure
di quelle di Napoleone, in quanto con la scusa di tutelare l’infanzia
esse davano il potere al ministro dell’Interno di predisporre una lista
di libri proibiti. Dopo qualche garanzia per gli editori negli anni
Sessanta, il nuovo codice penale del 1994 introdurrà pene severe contro
libri o audiovisivi che diffondessero messaggi violenti o pornografici
violando la dignità umana: ancora Garçon qualificherà le relative norme
«il capolavoro della Censura».
Gli ultimi anni Novanta del Novecento vedranno però l’opera di Sade
consacrata nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard, a
cura di Michel Delon. Gli studi su di lui si erano, peraltro,
moltiplicati, come l’attenzione dei più accreditati intellettuali
mondiali.
Colpisce comunque che negli anni trascorsi dal tempo di Sade, scomparso
esattamente due secoli fa il 2 dicembre 1814, la Chiesa di Roma non paia
essersi accorta dei suoi scritti particolarmente violenti contro la
religione. Negli «Indici dei libri proibiti» pubblicati dal papato in
questo lasso di tempo (l’ultimo è del 1948, nel 1966 l’ Index verrà
eliminato) mai l’autore o qualcuna delle sue opere blasfeme si rinviene
nella nota collezione quasi completa di normative, documenti, elenchi di
scritti pubblicata a Ginevra e a Montréal dal De Bujanda. Non mancano
Voltaire e Rousseau, Casanova e d’Annunzio, Beccaria, Sartre e Simone de
Beauvoir, Zola e Balzac, Fogazzaro e Moravia, Gioberti e Rosmini, Croce
e Gentile, George Sand e Ada Negri, che certo non appartengono al
«mondo alla rovescia» del nostro marchese. Sade peraltro era un grande
conoscitore della Bibbia e la sua «religione» appare «molto più
complessa e paradossale di una antiteologia che si contentasse di
proclamare tutto il contrario dei valori della Chiesa» (Vilmer).
Non si rinviene traccia di Sade nella documentazione conservata negli
archivi romani della «Congregazione dell’Indice», soppressa nel 1917 da
Benedetto XV con l’attribuzione delle relative competenze a quella del
Sant’Uffizio. Non è agevole, quindi, spiegare i silenzi della Chiesa,
che non possono essere dovuti né a distrazione dei censori
ecclesiastici, né alla scarsa notorietà o alla paternità non
immediatamente dichiarata di alcuni scritti, né, ancora, al fatto che le
opere lascive sarebbero ricadute in una generica e originaria condanna.
Opere del genere infatti, in diverse epoche, si ritrovano tra quelle
condannate. Si aggiunga che alla sua morte, nonostante le diverse
disposizioni testamentarie, Sade ebbe diritto ai funerali religiosi e
venne sepolto nel cimitero del manicomio di Charenton in una tomba senza
nome, ma con solo una grande croce di pietra. Le autorità di polizia
furono tranquillizzate: metà dei suoi numerosi manoscritti vennero da
esse sequestrati e dati alle fiamme, l’altra metà chiusi in un baule e
consegnati alla famiglia che, fino alla quinta generazione dei Sade, si
guardò bene dall’aprirlo.
Solo di recente è stato ritrovato ed esposto a Parigi al Museo dei
manoscritti il famoso rouleau , un insieme di fogli clandestini
incollati tra loro sui quali Sade aveva trascritto Le 120 giornate di
Sodoma e che restarono nella sua cella alla Bastiglia quando venne
trasferito a Charenton e, dopo la presa della fortezza nel 1789,
finirono in mani private.
C’è la diffusa convinzione che tutta l’opera di Sade si iscriva «nel
pensiero del suo secolo», rielaborando «assunti ampiamente diffusi della
filosofia illuministica soprattutto nel suo versante ateo e
materialista» (Gorret). Si è parlato di lui come «figlio maledetto dei
Lumi» (Deprun), ma anche di un suo collegamento con la «dottrina
agostiniano-calvinista-giansenista della totale depravazione dell’uomo»
(Crocker), mentre Barthes lo ha accostato a sant’Ignazio e Lacan a Kant.
Di certo il silenzio ecclesiastico sulle sue opere appare tanto più
stupefacente se si tiene conto che, proprio in Juliette , egli immagina
un episodio nettamente blasfemo e mette in ridicolo papa Braschi (Pio
VI) — alla cui «incoronazione» aveva assistito — facendogli scrivere una
lunga «enciclica», intitolata Di tutte le stravaganze dell’uomo , piena
di dottrina e di riferimenti storici, filosofici e teologici, che
esalta l’assassinio e gli assassini. Quel che è più grave è che Juliette
negozia con il Papa — che lei provoca in tutte le forme e definisce
«fantasma orgoglioso» e «vecchia scimmia» — la dissertazione e i suoi
contenuti in cambio di una «immensa orgia, piena di lussuria e di
libertinaggio» che si sarebbe svolta intorno all’altare di San Pietro
protetto da enormi paraventi. Pio VI, comunque, riconosce che
l’elevazione delle idee di Justine è estremamente rara tra le donne e
conclude il suo testo con queste parole: «Tutti i popoli hanno sgozzato
uomini sugli altari dei loro dei. In ogni tempo l’uomo ha provato
piacere versando il sangue dei suoi simili e… talvolta ha mascherato
questa passione con il velo della giustizia, talvolta con quello della
religione. Ma il fondamento, lo scopo era, senza dubbio alcuno, lo
stupefacente piacere che ne provava». Un testo profondamente… sadico (o
sadista?) che sicuramente non dovette sfuggire ai censori ecclesiastici,
ma che continua, dopo più di due secoli, a poter essere letto senza
tema di pene anche solo spirituali.
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