lunedì 1 dicembre 2014
Manjul Bhargava, matematico
“Vi spiego la musica dei numeri” Manjul Bhargava, medaglia Fields, svela la sua India tra teoremi e poesia
“Mi sono preso molti periodi di studio a Jaipur e ho imparato a suonare la tabla” “Il trattato di prosodia sanscrita di Pingala anticipò Fibonacci e il triangolo di Pascal” Con Manjul Bhargava inizia una serie di incontri con i grandi matematici del mondo
di Piergiorgio Odifreddi Repubblica 1.12.14
MANJUL Bhargava è uno dei quattro matematici che hanno vinto la medaglia
Fields a Seul lo scorso agosto. Tipico enfant prodige che brucia ogni
tappa, è stato studente del famoso Andrew Wiles, il dimostratore del
teorema di Fermat. Nella sua tesi di dottorato ha esteso il lavoro di
Carl Gauss, il principe dei matematici. E a soli ventott’anni è
diventato ordinario all’Università di Princeton. Ma i suoi interessi
spaziano ben oltre i confini della matematica e si estendono alla poesia
e alla musica indiana.
L’abbiamo incontrato al meeting di Heidelberg, l’annuale appuntamento
che raduna una dozzina di medaglie Fields, e offre a 200 studenti scelti
e a qualche fortunato invitato l’occasione di venirle a conoscere più
da vicino.
Lei è canadese di nascita e statunitense di formazione, ma sembra essere
più indiano dei nativi. L’ho sentita citare l’antico matematico
Brahmagupta: ha letto i suoi lavori?
«Sì, quand’ero studente. E sono stati una delle mie ispirazioni: le proprietà dello zero, i numeri negativi, eccetera».
Ma immagino che non glieli abbiano insegnati a scuola, a Long Island.
«Eh, no! Mio nonno era un professore di sanscrito e quando ha visto che
mi piaceva la matematica mi ha fatto conoscere alcuni dei classici
indiani. Mi ha insegnato a leggerli in originale, anche se non sono mai
arrivato a essere autosufficiente. Ma, fin quando era vivo, ogni volta
che mi bloccavo potevo consultarlo direttamente e chiedergli aiuto».
Una delle connessioni più note tra la matematica e la poesia indiane è
la grammatica sanscrita di Panini, del IV secolo prima della nostra era.
Ha studiato anche quella?
«Effettivamente, sì! E parecchio. Quand’ero all’università mi sono preso
molti periodi di studio in India, a Jaipur, dove vivevano i miei nonni.
È lì che ho anche imparato a suonare la tabla, a cui mia madre mi aveva
introdotto da bambino».
La suona ancora?
«Certo. Faccio anche concerti, da solo e in gruppo: in genere negli
Stati Uniti o in Canada, ma a volte anche in Europa. Purtroppo ci vuole
tempo per preparare un concerto: bisogna avere almeno un mese di tempo
per staccare da tutto e dedicarsi solo a quello. E nell’ultimo paio
d’anni ho avuto troppo da fare in matematica».
Lei si sente più indiano o più anglosassone?
«A dire il vero, mi sento a mio agio in entrambe le vesti. A casa
parlavamo in hindi, mangiavamo cibo indiano, leggevamo letteratura
indiana e ne discutevamo tutti insieme. Ci sono immigrati che pensano
sia meglio educare i figli unicamente in maniera locale per evitare che
crescano confusi. Ma io ho avuto un’esperienza meravigliosa con entrambe
le culture e ho cercato di prendere il meglio da tutt’e due. Credo che
questo biculturalismo mi abbia aiutato ad aprire la mente in un modo che
altri non hanno potuto avere».
È la sua cultura indiana che l’ha spinta a studiare la teoria dei numeri?
«Effettivamente ci sono molte connessioni con la teoria dei numeri: non
solo nei Sulvasutra, ma anche nella poesia di Panini e Pingala. È da
loro che ho imparato la successione di Fibonacci, ad esempio».
Come si combinano la matematica e la poesia indiane?
«Anzitutto, i testi sono scritti in versi metrici: meravigliosi, tra
l’altro. E poi i numeri più comuni sono indicati con espressioni
metaforiche: si parla degli occhi, ma si intende il numero due. Leggere e
tradurre queste cose è impegnativo, ma mi piacerebbe farlo prima o
poi».
Cosa in particolare?
«Il trattato di prosodia sanscrita di Pingala, nel quale si parla per la
prima volta di cose che noi chiamiamo la “successione di Fibonacci” o
il “triangolo di Pascal”, benché quel lavoro risalga a due secoli prima
della nostra era».
Mi sembra ci sia addirittura l’aritmetica binaria, oggi usata dai
computer, che interveniva tramite la distinzione fra sillabe corte e
lunghe dei versi.
«È vero. Pingala contiene un modo esplicito di trasformare numeri
decimali in binari e viceversa. Non è un caso che ci siano molti
riferimenti ai precursori indiani nella famosa Arte della programmazione
del
computer di Donald Knuth».
Un po’ come nelle grammati-
che generative di Chomsky.
«Si può dire che Panini sia un preludio a Chomsky, mentre il lavoro di
Gautama è un preludio alla teoria matematica degli algoritmi, con tanto
di dimostrazioni. E questo va contro il pregiudizio che la matematica
indiana antica sia un insieme di ricette calate dall’alto, senza
dimostrazioni. Purtroppo, queste cose le sanno gli specialisti di
sanscrito, che però non sono interessati alla matematica».
Oltre che per la poesia, la matematica serve anche per la musica indiana?
«Certamente, perché i ritmi delle tabla sono un sottoinsieme di quelli
per la poesia: quando i cantanti salmodiano i versi, i musicisti devono
capire cosa succede per poterli seguire adeguatamente. E questo è ancora
più vero per i mridangam e i ghatam del Sud dell’India, che per le
tabla del Nord».
Lei è il primo indiano a vincere la medaglia Fields. Come mai un paese
con una tale tradizione ne ha avute così poche? E lo si potrebbe dire
per i premi Nobel.
«L’antica tradizione matematica risale a prima dell’invasione
britannica. E nel periodo successivo all’indipendenza le menti migliori
si sono dedicate tutte all’ingegneria e alla medicina. A causa della
povertà del paese: se si vuole vivere decentemente e mantenere una
famiglia non ci sono molte altre alternative sicure e l’università e la
ricerca non sono certo fra quelle».
Negli Stati Uniti, però, ci sono moltissimi studenti indiani (oltre che cinesi) a matematica e informatica.
«Sicuramente hanno molto talento e lì l’università e la ricerca non sono
così mal messe come in India. Quegli studenti poi rimangono e non
tornano a casa».
Noi li chiamiamo “cervelli in fuga”. Ma resta comunque il problema del
perché anche loro non arrivino alla medaglia Fields o al Nobel.
«Effettivamente alcune delle università più prestigiose, da Harvard a
Princeton, non hanno mai avuto un professore indiano in matematica pura.
In informatica e in matematica applicata è diverso e ce ne sono».
L’India ha invece avuto il campione mondiale di scacchi Viswanathan Anand.
«È un mio amico. L’ho conosciuto a Madrid, dove vive, in occasione del
Congresso Internazionale dei Matematici del 2006 e da allora ci teniamo
in contatto. Anche perché è interessato alla matematica e legge libri
divulgativi».
Pensa che aver vinto la Fields le cambierà la vita?
«Spero di no, anche se certo finora l’ha fatto. Ma all’assegnazione
delle medaglie Fields i media e il pubblico mostrano un temporaneo
interesse per la matematica ed è sia un’opportunità che un dovere
approfittarne: non personalmente, ma per il bene della disciplina. Spero
però che non duri molto perché amo sia la matematica che la musica, e
non voglio lasciar perdere né l’una, né l’altra».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento