sabato 10 gennaio 2015

Riuscirà il nuovo romanzo di Umberto Eco ad essere più noioso del "Cimitero di Praga"?

Umberto Eco: Numero Zero, Bompiani, pagg. 224, euro 17

Risvolto
Una redazione raccogliticcia che prepara un quotidiano destinato, più che all'informazione, al ricatto, alla macchina del fango, a bassi servizi per il suo editore. Un redattore paranoico che, aggirandosi per una Milano allucinata (o allucinato per una Milano normale), ricostruisce la storia di cinquant'anni sullo sfondo di un piano sulfureo costruito intorno al cadavere putrefatto di uno pseudo Mussolini. E nell'ombra Gladio, la P2, l'assassinio di papa Luciani, il colpo di stato di Junio Valerio Borghese, la Cia, i terroristi rossi manovrati dagli uffici affari riservati, vent'anni di stragi e di depistaggi, un insieme di fatti inspiegabili che paiono inventati sino a che una trasmissione della BBC non prova che sono veri, o almeno che sono ormai confessati dai loro autori. E poi un cadavere che entra in scena all'improvviso nella più stretta e malfamata via di Milano. Un'esile storia d'amore tra due protagonisti perdenti per natura, un ghost writer fallito e una ragazza inquietante che per aiutare la famiglia ha abbandonato l'università e si è specializzata nel gossip su affettuose amicizie, ma ancora piange sul secondo movimento della Settima di Beethoven. Un perfetto manuale per il cattivo giornalismo che il lettore via via non sa se inventato o semplicemente ripreso dal vivo. Una storia che si svolge nel 1992 in cui si prefigurano tanti misteri e follie del ventennio successivo, proprio mentre i due protagonisti pensano che l'incubo sia finito. 

Umberto Eco Cosa resta degli anni 90Tangentopoli, un giornale, la Seconda Repubblica. L’incipit del romanzo “Numero zero”UMBERTO ECO Repubblica 9 1 2015
QUESTA mattina non colava acqua dal rubinetto. Blop blop, due ruttini da neonato, poi più niente. Ho bussato dalla vicina: a casa loro, tutto regolare. Avrà chiuso la manopola centrale, mi ha detto. Io? Non so neppure dove sia, è poco che vivo qui, lo sa, e torno a casa solo alla sera. Mio Dio, ma quando parte per una settimana non chiude acqua e gas? Io no. Bella imprudenza, mi lasci entrare, le faccio vedere. Ha aperto l’armadietto sotto il lavello, ha mosso qualcosa, e l’acqua è arrivata. Vede? Lo aveva chiuso. Mi scusi, sono così distratto. Ah, voialtri single! Exit vicina, che ormai parla inglese anche lei. Nervi a posto. Non esistono i poltergeist, solo nei film. E non è che sia sonnambulo, perché anche da sonnambulo non avrei saputo dell’esistenza di quella manopola, altrimenti l’avrei usata da sveglio, perché la doccia perde e rischio sempre di passar la notte a occhi aperti sentendo tutto il tempo quella goccia, pare di essere a Valldemossa.


Infatti spesso mi risveglio, mi alzo, e vado a chiudere la porta del bagno e quella tra camera da letto e ingresso, per non sentire quel dannato sgocciolio. Non può essere stato, che so, un contatto elettrico (la manopola, come dice la parola stessa, funziona a mano) e nemmeno un topo, che anche se fosse passato di lì non avrebbe avuto la forza di muovere l’aggeggio. È una ruota di ferro all’antica (tutto in questo appartamento risale almeno a cinquant’anni fa), e oltretutto è arrugginita. Dunque ci voleva una mano. Umanoide. E non ho un camino da cui potesse passare lo scimmione della Rue Morgue.

Ragioniamo. Ogni effetto ha la sua causa, almeno dicono. Scartiamo il miracolo, non vedo perché Dio debba preoccuparsi della mia doccia, mica è il mar Rosso. Dunque, a effetto naturale, causa naturale. Ieri sera, prima di coricarmi, ho preso uno Stilnox con un bicchier d’acqua. E dunque l’acqua sino a quel momento c’era ancora. Stamattina non c’era più. Dunque, caro Watson, la manopola è stata chiusa durante la notte — e non da te. Qualcuno, alcuni, erano a casa mia e avevano paura che, più che il rumore che facevano loro (erano felpatissimi), mi svegliasse il preludio della goccia, che dava noia persino a loro e magari si chiedevano come mai non mi destasse. Pertanto, callidissimi, hanno fatto quello che avrebbe fatto anche la mia vicina, hanno chiuso l’acqua.
E poi? I libri sono disposti nel loro disordine normale, potrebbero essere passati i servizi segreti di mezzo mondo sfogliandoli pagina per pagina, e non me ne accorgerei. È inutile che guardi nei cassetti o che apra l’armadio dell’entrata. Se volevano scoprire qualcosa, al giorno d’oggi rimane una sola cosa da fare: frugare nel computer. Magari per non perdere tempo hanno copiato tutto e se ne sono tornati a casa. E appena ora, apri e riapri ogni documento, si saranno accorti che nel computer non c’era niente che potesse interessarli.
Che cosa speravano di trovare? È evidente — voglio dire, non vedo altra spiegazione — che cercavano qualcosa che riguardasse il giornale. Non sono stupidi, avranno pensato che dovrei aver preso appunti su tutto il lavoro che stiamo facendo in redazione — e quindi che, se so qualcosa della faccenda di Braggadocio, dovrei averne scritto da qualche parte. Ora avranno immaginato la verità, che tengo tutto in un dischetto. Naturalmente stanotte avranno visitato anche l’ufficio, e di dischetti miei non ne hanno trovati. Dunque stanno concludendo (ma solo ora) che magari lo tengo in tasca. Imbecilli che non siamo altro, staranno dicendosi, dovevamo frugare nella giacca. Imbecilli? Stronzi. Se erano furbi non finivano a fare un mestiere così sporco.
Adesso ci riproveranno, almeno sino alla lettera rubata ci arrivano, mi fanno assalire per strada da finti borsaioli. Devo dunque sbrigarmi prima che ritentino, spedire il dischetto a un indirizzo fermo posta, e poi vedere quando ritirarlo. Ma che sciocchezze mi passano per la testa, qui c’è già stato un morto e Simei si è reso uccel di bosco. A loro non serve neppure sapere se so, e che cosa so. Per prudenza mi fanno fuori, e la cosa finisce lì. Né posso andare a mettere sui giornali che io di quella faccenda non sapevo nulla, perché solo a dirlo faccio sapere che ne sapevo. Come sono finito in questo garbuglio? Credo che la colpa sia del professor Di Samis e del fatto che sapevo il tedesco.
Perché mi viene in mente Di Samis, una faccenda di quarant’anni fa? È che ho sempre continuato a pensare che è stato per colpa di Di Samis che non mi sono mai laureato e, se sono finito in questo intrigo, è perché non mi sono mai laureato. Del resto Anna mi ha abbandonato dopo due anni di matrimonio perché si era accorta, parole sue, che ero un perdente compulsivo — chissà che cosa le avevo raccontato prima, per farmi bello.
Non mi sono mai laureato per via che sapevo il tedesco. Mia nonna era altoatesina e me lo faceva parlare da piccolo. Sin dal primo anno di università, per mantenermi agli studi, avevo accettato di tradurre libri dal tedesco. A quell’epoca sapere il tedesco era già una professione. Si leggevano e traducevano libri che gli altri non capivano (e che allora erano ritenuti importanti), e si era pagati meglio che per il francese e persino per l’inglese. Oggi penso che succeda la stessa cosa a chi sa il cinese o il russo. In ogni caso o traduci dal tedesco o ti laurei, le due cose insieme non si possono fare. Infatti tradurre vuole dire starsene a casa, al caldo o al fresco, e lavorare in pantofole, oltretutto imparando un sacco di cose. Perché frequentare le lezioni all’università?
Per svogliatezza, mi ero deciso a iscrivermi a un corso di tedesco. Avrei dovuto studiare poco, mi dicevo, tanto so già tutto. Il luminare era all’epoca il professor Di Samis, che si era creato quello che gli studenti chiamavano il suo nido d’aquila in un palazzo barocco fatiscente dove si saliva uno scalone e si arrivava in un grande atrio. Da un lato si apriva l’istituto di Di Samis, dall’altro c’era l’aula magna, come la chiamava pomposamente il professore, insomma un’aula che teneva una cinquantina di posti.
In istituto si poteva entrare solo mettendo le pianelle. All’ingresso ce n’erano abbastanza per gli assistenti e due o tre studenti. Chi restava senza pianelle attendeva il suo turno stando fuori. Tutto era incerato, credo anche i libri alle pareti. Anche la faccia degli assistenti, vecchissimi, che da tempi preistorici aspettavano il loro turno per andare in cattedra.
L’aula aveva una volta altissima e finestre gotiche (non ho mai capito perché in un palazzo barocco) e vetrate verdi. All’ora giusta, e cioè all’ora e quattordici, il professor Di Samis usciva dall’istituto, seguito a un metro dall’assistente anziano, e a due metri da quelli più giovani, sotto la cinquantina. L’assistente anziano gli portava i libri, i giovani il registratore — i registratori ancora alla fine degli anni cinquanta erano enormi, sembravano una Rolls-Royce. Di Samis percorreva i dieci metri che separavano l’istituto dall’aula come se fossero venti: non seguiva una linea retta ma una curva, non so se una parabola o un’ellisse, dicendo ad alta voce “eccoci, eccoci!”, poi entrava nell’aula e si sedeva su una specie di podio scolpito — da attendersi che esordisse con chiamatemi Ismaele.
Dalle vetrate la luce verde rendeva cadaverico il suo volto che sorrideva maligno, mentre gli assistenti attivavano il registratore. Poi incominciava: “Contrariamente a quello che ha detto recentemente il mio valoroso collega professor Bocardo...” e via per due ore. Quella luce verde mi induceva a sonnolenze acquoree, lo dicevano anche gli occhi degli assistenti. Io conoscevo la loro sofferenza. Alla fine delle due ore, mentre noi studenti sciamavamo fuori, il professor Di Samis faceva riavvolgere il nastro, scendeva dal podio, si sedeva democraticamente in prima fila con gli assistenti, e tutti insieme riascoltavano le due ore di lezione, mentre il professore assentiva con soddisfazione a ogni passaggio che gli pareva essenziale. E si noti che il corso era sulla traduzione della Bibbia, nel tedesco di Lutero. Una libidine, dicevano i miei compagni, con lo sguardo basito. © 2-015 Bompiani / R-CS Libri S. p. A. © RIPRODUZIONE RISERVATA


Toh, Umberto Eco contro De Benedetti Ma è un romanzoUn industriale fonda un quotidiano per demolire i nemici e influenzare i politici. Si potrebbe pensare a Repubblica


Massimiliano Parente - il Giornale Gio, 08/01/2015




















L’Eco di mille complotti
Un «conte philosophique» sulla tendenza a vedere cospirazioni ovunque, che a volte si rivelano più vere del vero
11 gen 2015  Il Sole 24 Ore Di Armando Massarenti
Numero zero , il nuovo romanzo di Umberto Eco, impone a chi legge due opposti esercizi mentali. Il primo, naturale per chiunque si immerga in una narrazione, ci spinge a seguirne la trama e la coerenza costruttiva. È insomma il modo normale di leggere una storia che funziona. Niente di più. Poiché però il romanzo è incentrato sul tema del complottismo – per nulla nuovo per l’Eco saggista e narratore – le cose si complicano e si è costretti a fare anche un esercizio opposto. Eco usa ogni mezzo per mettere alla prova la credulità del lettore, costretto a fidarsi e a diffidare nello stesso tempo di ciò che gli viene detto, giocando sulla straordinaria attrazione – e insieme diffidenza – che nutriamo per le spiegazioni di carattere cospiratorio, e lo fa nel modo giocoso e parodistico cui ci ha abituati fin dai tempi del Diario minimo. Ci costringe a giocare con lui, tutto il tempo, anche se il gioco non avrà un esito allegro, e il romanzo si rivelerà una disarmante conferma del lungo declino morale e civile che l’Italia sperimenta da una cinquantina d’anni. 

Siamo a Milano, nel 1992. Il commendatore Vimercate vuole fondare un giornale che in realtà non dovrà mai uscire. I numeri di prova serviranno da arma di ricatto per entrare nel salotto buono dell’editoria e della finanza. Il protagonista, un giornalista poco più che cinquantenne, un perdente di talento, dovrà scrivere un libro che racconta la vicenda della mancata uscita del quotidiano come se si trattasse di un attentato alla libertà di informazione da parte dell’establishment che non vuole emergano le verità scottanti che vi verrebbero raccontate. Partecipa dunque a tutte le riunioni della redazione, di cui fanno parte, tra gli altri, una vera e propria spia e una giovane brillante collega, Maia. Tutti, tranne lui e il direttore, sono convinti di lavorare sul serio alla costruzione di un giornale libero e indipendente. In realtà, nel tener conto degli interessi del generoso finanziatore, si moltiplicano le restrizioni e si assemblano le notizie con modalità che costituiscono un vero e proprio manuale del cattivo giornalismo che si sarebbe visto in opera nei vent’anni successivi. Le idee più brillanti e giocose proposte da Maia vengono invece cassate sistematicamente, o piegate anch’esse alla logica della disinformazione. Dai loro dialoghi emerge la ricostruzione dei decenni precedenti: Gladio, Licio Gelli, la P2, la morte sospetta di papa Luciani, il golpe borghese, le stragi, le Br, la strategia della tensione, le indagini depistate, il ruolo della Cia, i Lupi grigi, l’attentato a papa Giovanni Paolo II. La cornice per tenere insieme tutto questo è fornita dal personaggio più logorroico del romanzo, Braggadocio, presentato fin dall’inizio come il tipico esponente di una mentalità cospiratoria. Egli è convinto che tutto possa essere spiegato a partire dalla tesi strampalata secondo cui il corpo di Mussolini esposto a piazzale Loreto non era quello del duce, che sarebbe sopravvissuto fino all’inizio degli anni Settanta, e che tutte le possibili trame sarebbero dovute sfociare in un suo glorioso ritorno. 
Numero zero, come Sottomissione di Michel Houellebecq, è il romanzo di una resa. Solo che mentre quella è una distopia che ci proietta in una Francia islamizzata del 2022 – e che, a parte la coincidenza fortuita con l’attentato a «Charlie Hebdo», sicuramente non si realizzerà – il romanzo di Eco ci riporta indietro nel tempo, al 1992, nei mesi in cui sta per esplodere Mani Pulite e si compie l’escalation dei delitti di mafia, e ci trasmette il senso del reale, definitivo fallimento, di quello che avrebbe dovuto essere l’inizio di un rinnovamento morale del nostro Paese. 
Per chi legge, tutto è già avvenuto. Un lector più che mai in fabula, e tuttavia impotente, partecipa interattivamente all’intreccio, e ne può trarre una soddisfazione intellettuale, ma non morale. In Italia, infatti, la realtà finisce per superare la fantasia. Il protagonista progetta di fuggire dal Paese perché, essendo a conoscenza di numerose verità che potrebbero essere considerate pericolose – anche se non sa bene quali e da chi orchestrate – teme per la propria incolumità. Fa mille piani insieme a Maia ma poi i due incappano in un programma della Bbc su Gladio, che viene visto da decine di milioni di italiani, che ricostruisce le vicende italiche quasi alla maniera di Braggadocio. Tutto ormai è alla luce del sole, nessuno si vergogna di nulla, i tessitori di trame se ne vantano pubblicamente, «la corruzione è autorizzata», il mafioso può sedere direttamente in Parlamento, e «in galera solo i ladri di pollame albanesi». 
Numero zero si chiude con un finto lieto fine che lascia l’amaro in bocca. A cosa serve prendersi la briga di smascherare bufale e complotti, o complotti di complotti che magari sviano dai veri complotti, se poi tutto si risolve nel lasciare le cose come stanno e si resta invischiati in eterno nella medesima situazione? 
In realtà proprio questa attività apparentemente vana può offrire un barlume di speranza. Può spingere a recuperare la mentalità illuministica che aveva spinto per esempio Karl Popper ad analizzare «la teoria sociale della cospirazione», frutto della irresistibile tendenza degli uomini a sostituire le trame tessute dagli dei dell’Olimpo descritto da Omero con versioni più laiche del medesimo teismo, dove i responsabili occulti dei fatti più eclatanti sono gruppi di potere animati da incoffessabili interessi.
Non che i complotti non esistano nella realtà. Ma quasi mai sortiscono gli effetti descritti dai fanatici che li ricostruiscono, e spesso falliscono. A volte basta informarsi leggendo i testi meglio accreditati. Il corpo del duce di Sergio Luzzatto, per esempio, basterà a confutare Braggadocio. A volte è più complicato e bisogna imparare a districarsi con tesi assurde ma esposte in maniera seria e articolata. Non è tutto ciarpame ciò che ha a che vedere coi complotti. Spesso sono molte verità a portare a conclusioni palesemente errate. Basta vedere quante prove e quanti fatti contengono i libri sulla morte di Kennedy, o sugli americani che non sarebbero mai andati sulla Luna, o su Bush che avrebbe organizzato in prima persona l’attentato alle Torri Gemelle. Ma mentre la storiografia seria, se va bene, può fornire una verità plausibile, spesso piena di lacune e di problemi aperti esplicitati dall’autore, quel genere di letteratura spesso tende a spiegare tutto, e in maniera definitiva. E questa è già una spia accesa che dovrebbe indurci a diffidarne. 
Il successo del complottismo risiede inoltre nella sua indubbia capacità affabulatoria. È in grado di affascinare, scaldare i cuori, in confronto a certe spiegazioni documentate e razionali che però paradossalmente appaiono meno credibili. Ma è anche stato sostenuto che chi dispone di informazioni capaci di confutare le teorie della cospirazione ha delle ragioni in più per appassionarsi seriamente alla politica. 


Numero Zero è chiaramente un complotto ordito da Umberto Eco ai danni del lettore, per mostrargli quanto della nostra vita e della nostra storia sia frutto di narrazioni, letterarie o meno, affinché infine disponga, senza neppure rendersene conto, di molte più armi e strumenti di analisi per difendersi dalle bufale, dalla cattiva informazione e dalle teorie della cospirazione. Dovrebbe essergliene grato.



Anche Dio sa ridere 
Dai roghi cristiani per le streghe ai terroristi islamici per chi fa satira. “L’uomo ride per tenere lontana la morte, e il riso mina il potere”. A colloquio con Umberto Eco

FRANCESCO MERLO Repubblica 11 1 2015

MORIRE DAL RIDERE — gli dico — sino a tre giorni fa era un tic linguistico, come alzare il gomito, baciamo le mani e colpo di fulmine. Ora invece morire dal ridere è realismo: «L’uomo ride per tenere lontana la morte». E invece qui... «I kamikaze che cercano il martirio, i fanatici come quelli che a Parigi hanno ucciso, non hanno paura della morte. E dunque non capiscono il riso». Il tabù del riso è più forte della morte? «Ridere e sapere di dover morire sono proprie dell’uomo, sono le due caratteristiche che lo distinguono dagli altri animali». E la iena ridens? «Emette un verso che somiglia alla nostra risata, ma non ride. Tranne che nei cartoni animati». Come Topolino, Paperino e Nonna Papera. «Già. Topi, papere e iene non sanno che omnia animalia mortalia sunt ». Ma ridere non salva l’uomo dalla morte. «Lo aiuta».
In un angolo dello studio di Umberto Eco c’è, in cornice, una foto di un raro Totò su sfondo buio, seduto, neri il cappello che indossa e il cappotto che lo copre tutto. «È bellissima, è di Ugo Mulas». Wolinski era malinconico? Eco mi mostra una caricatura che Wolinski gli dedicò nel 2002: «Forse non era un grandissimo disegnatore, ma sicuramente era bravo e molto simpatico». Perché gli umoristi e i comici sono sempre tristi? «Non è vero. Il punto è che osservandoli nella vita quotidiana appaiono ovviamente molto più compassati. E dunque chi incontrava Achille Campanile non incontrava Il povero Piero ». Beh, però Totò in questa foto di Mulas è affascinante proprio perché è triste. «È vero» dice Eco e scherza sul principe de Curtis: «Magari stava pensando a ripristinare lo Stato asburgico». Pare infatti che Totò fosse malato di quella nobiltà che poi la sua comicità smontava: «Il riso mina il potere, questo è il punto di partenza». Anche la bestemmia mina il potere? «La bestemmia è un vilipendio della religione. Noi non bestemmiamo in chiesa. Esiste una bestemmia popolare, quella che magari si autofrena da sola, per consapevole timor di dio. Nel mio Piemonte, quando ero piccolo, non capivo perché i contadini dicessero “Dio Faust”. Era la correzione di “Dio faus” che vuol dire falso. In Toscana c’è “maremma maiala”, e poi “porco zio”... La regola è che non si bestemmia, come non si sputa per terra. Ma se uno sputa per terra, non lo mandiamo certo ad Alcatraz».
E la bestemmia al Dio degli altri? «Sui nostri giornali noi oggi non prendiamo in giro il Dalai Lama né gli altri capi e i simboli religiosi. Ma pensi a quanta fatica abbiamo impiegato prima di arrivare a non disegnare più il negro con la sveglia al collo, gli indiani d’America che facevano augh attorno a un pezzo di legno chiamato Manitù, pensi alle descrizioni che si permetteva Salgari dei sacrifici alla dea Kali... Certo ci siamo spinti sino al vezzo retorico di chiamare “non vedente” il cieco per non ferirne la suscettibilità, ma la civiltà del rispetto valeva la fatica. Anche se, come vede, i neri li ammazzano ancora».
Tra tutti gli autori seri che si sono occupati di riso, dal pedante Kant al cupo Pirandello al disperato Baudelaire, Eco è uno dei pochi che il riso lo pratica pure, con il suo corpo allegro da Obelix, con la sua passione per il dettaglio arguto, per i fumetti, per i segni. È l’Obelix della semiotica: «Faccio pure i giochetti. Insomma, rido». A ottantatré anni il riso, forse più di prima, è la libertà che allontana la morte. «Ma non sono un compulsivo della barzelletta» mi dice, e me ne racconta una sulla bestemmia che non trascrivo qui perché ho deciso di mandarla a Charlie Hebdo.
Spesso i vecchi sono acidi. «Forse invecchio con allegria perché penso che invecchiare sia bellissimo. Non capisco i miei coetanei che si lamentano: sono convinto di avere la stessa memoria d’acciaio di quando ero ragazzo, anche se passo notti a cercare libri con il dorso giallo che hanno invece il dorso rosso. Di sicuro ho anche una grande esperienza. E poi... sono contento di avere fregato tutti quegli altri che sono morti prima di me». I libri qui sono trentamila: «Stipendio uno per spolverarli, ma ha il divieto di toccarli ». E mi precede: «Questo è il corridoio della letteratura. Qui invece c’è il salone della saggistica». C’è la sezione dei cretini e «qui siamo al mio cimitero personale » , due pareti di foto «con i grandi amici che non ci sono più, lì con Montale, e poi Musatti, Foucault, Barthes, Pratolini, Volponi, Berio… Invece questi lunghi scaffali contengono tutta l’ Opera Eci che poi in latino sarebbe Econis ».
Ha scritto della risata di Dio e del tabù del riso e anche chi non ha letto Il nome della rosa sa che lì c’è un monaco, Jorge, che sparge veleno sulle pagine della Poetica, il libro che Aristotele dedicò appunto al riso, in modo che a ogni leccata di dito il lettore... “Non elimini il riso eliminando il libro” gli obietta però il frate Gugliemo. Le religioni hanno paura del riso? «Nei primi secoli del Cristianesimo anche i rigoristi, come i fondamentalisti musulmani di oggi, non avevano paura della morte, e dunque, a loro volta, non capivano il riso. Pure tra i cristiani c’erano quelli che cercavano la morte, gli eremiti...».
Ci sono molti libri che hanno tentato di alleggerire le religioni monoteiste cercandovi l’umorismo, scoprendo l’ironia non solo nelle piaghe d’Egitto, nella trasformazione dell’acqua del Nilo in sangue e in tutte le altre enormità della Bibbia, ma anche nelle parabole. «Le religioni politeiste sono invece allegre. E con qualche Dio divertito e divertente. Priapo era addirittura comico e forse perché la sua comicità non insidiava la grandezza di Giove. Anche Schelm, una divinità folletto, era un Dio briccone con il pene enorme». E però, diciamo la verità, Gesù non ride mai. Per non parlare della Madonna. «Forse gli evangelisti non volevano o magari non potevano perdere tempo a raccontare le risate di Gesù. In fondo non è interessante sapere come ridevano la sera quando si rilassavano Gesù e i suoi apostoli. È però sicuro che l’Occidente cristiano ha dovuto fare un lungo esame di coscienza prima di accettare il riso. Un tempo bastava poco per mandare gli spiritosi al rogo».
Soprattutto le donne che era facile bruciare come streghe. Ci penso guardando passare la moglie di Eco, un’ottantenne che ricorda una fata celtica, con un viso da filosofia tedesca. L’intellettuale di casa sembra lei. Eco mi mostra una vecchia foto che gli scattò Furio Colombo. Sua moglie Renate — gli dico — era ed è rimasta bellissima. Mi guarda e non sa cosa rispondere. Prende tempo. Poi: «Se la cava. Siamo sposati da oltre cinquant’anni ». Nel nuovo libro che ha scritto, Numero zero (Bompiani), c’è il gioco delle domande cretine e delle risposte cretine, tipiche di ogni intervista. Ecco un esempio a pagina 67: “Perché le dita hanno le unghie?”, “Perché se avessero le pupille sarebbero occhi”. In un’altra intervista feci con Eco il gioco delle domande cretine, ma con risposte intelligenti. Domanda: “Qual è il suo piatto preferi- to?”. Risposta: “I piselli ripieni”. Ripropongo il gioco: i suoi cinquant’anni di matrimonio sono stati divertenti? La risposta è “uhm” e in piedi, con il sigaro spento in bocca, Eco sembra il fratacchione goloso de Il nome della rosa.
I preti ridono? «Si, ma il loro tabù rimane il sesso, la loro trasgressione si ferma alla cacca». Ma l’offesa a Dio è ancora spirito? «Ci sono molti modi di fare satira. C’è la satira terapeutica, che aiuta a capire, anche Dio e anche la morte; c’è quella eccessiva che può offendere; e poi c’è anche la satira che non fa ridere. Ma appunto la civiltà ci ha insegnato che una cosa è offendersi e un’altra uccidere. La libertà di satira è un momento della libertà di espressione. Ti risenti per la caricatura che ti fanno, ma finisce lì. Se poi ti senti diffamato c’è il Diritto. Ma va garantita anche la libertà di vilipendio». E il capo dello Stato? «Quello è un residuo di una legge illiberale. Non c’è un vilipendio peggiore di un altro».
Nella storia della satira italiana non c’è un Charlie Hebdo . «No. E sui nostri giornali non prendiamo in giro Dio. Anche se la satira c’è sempre stata. Abbiamo avuto il Becco giallo, il Bertoldo, il Marc’Aurelio, ma non giornali importanti che praticassero un’irrisione così forte, con il gusto della bestemmia. Un po’ forse Cuore e, ancora di più, il Male. La Francia però ha un’altra storia. C’è Rabelais... E ci sono gli chansonnier, i teatrini dove si rideva di gusto del potere ricorrendo alla volgarità. È un’eredità della Rivoluzione francese». Bernardo Valli mi ha detto che in Charlie Hebdo c’è probabilmente anche un po’ di Céline e della tradizione dell’invettiva. «Si, è sensato. Le nostre invettive, di Petrarca e di Dante, sono poetiche. In Francia invece l’invettiva, che arriva sino a Houellebecq, è un genere molto violento». A partire dal J’accuse di Zola. «Sì, certo». Forse perché in Italia il potere è meno tollerante? «Quando il presidente Gronchi in teatro cadde dalla sedia, Tognazzi e Vianello lo presero in giro in tv e furono cacciati dalla Rai». E però la satira oggi in Italia è molto praticata. «Ma è un’altra cosa. Oggi la satira in Italia ha sostituito la politica. I comici sono i soli da cui gli italiani prendono lezioni di morale. La politica infatti non ci riesce più. Altan è uno dei più grandi moralisti italiani. E anche Giannelli. E infatti Renzi ha molta più paura di Crozza che di Salvini. E pensi a Benigni che, mi ha detto un amico...». Chi? «Un amico intelligente». Cosa ha detto? «Che è l’erede della tradizione dei predicatori toscani, alla Savonarola».
Benigni — dico — è un fenomeno straordinario di ex comico autodidatta che sfida le cattedre dei grandi pensatori, un caso tutto italiano difficile da spiegare agli stranieri, persino agli americani che pure hanno avuto Reagan. «E infatti in America le cose che dice Woody Allen sono di meno effetto delle cose che dice Obama. Benigni invece è a metà tra i fioretti di San Francesco e Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno». Quindi oggi non rapirebbero Aldo Moro, ma un comico. «A Parigi non hanno colpito alla cieca. È vero che potrebbero sparare anche in un caffè o in un metrò, ma lì sapevano quel che facevano. Sicuramente sono informati e molto attenti. Volevano colpire la libertà d’espressione, e meglio ancora la satira, il riso che li offende perché non lo capiscono». E mi mostra un piccolo scritto del 2000 nel quale diceva: “L’Europa sarà un continente multirazziale. Se vi piace sarà così e se non vi piace sarà così lo stesso. Ma questo confronto (scontro) di culture potrà avere esiti sanguinosi, e sono convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a lungo”. Dunque lei pubblicherebbe quelle vignette per solidarietà? «Io no, perché non le avrei pubblicate neanche prima. Penso anche che solo nelle guerre totali i nemici si caricaturizzano a vicenda, come fecero cattolici e luterani per esempio». E chiudiamo allora con la satira: mandiamo un vignettista al Quirinale? «Sì. Ma non facciamo nomi sennò lo bruciamo». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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