Un secolo fa usciva il capolavoro di James Frazer che indagava sui riti e sulla forza della sovranità e che influenzò psicanalisi, filosofia, letteratura e cinema
di Marino Niola Repubblica 17.11.15
Senza “Il ramo d’oro”
di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi,
iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi
del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia,
credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca
della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo
evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente
tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe
dell’eurocentrismo della sua epoca. Il risultato è un monumentale
compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour
dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di
Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco
sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era
stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre
Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare
figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della
natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto
tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza
misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.
Insomma una
carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli
era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato.
Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza
periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era
necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una
notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e
strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo
d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli
inferi.
Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al
prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo
le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e
ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto —
che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un
regicidio di Stato — serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano,
l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che
lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di
rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership.
La
grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla
mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in
grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi
chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come
avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma.
Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione
naturale, trasformando la physis in polis.
Questa Bibbia
dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud
ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che
sta al cuore edipico di Totem e tabù.
Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul
Ramo
d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri
Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello
slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta
come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo
riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence,
l’autore di L’amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini
il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph
Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina
frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di
Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot,
il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può
considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro
la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia
contagia la terra trasfor-mandola in una landa arida e senza vita.
Fino
ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal
capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che
costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa
nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di
Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla
cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George
Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal
regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex
nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è
il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua
volta ispirata all’opera di Frazer.
Il regista tesse una tela di
ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che
illuminano la conclusione del se- colo breve, il tramonto di una storia
esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha
due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla
il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo
se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista,
che sta trasformando il mondo in una terra desolata. L’ex soldato
modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in
un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e
Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea
cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al
destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al
capitano Willard, ha le cadenze di un rito.
A confermarlo è la
colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La
canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una
desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in
un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e
quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.
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