Esiste ancora la controcultura?
C’erano una volta i futuristi che scagliavano versi contro lo spirito borghese, i punk che facevano del loro corpo un messaggio anarchico, la street art che trasformava le città in opere di rivolta sociale Poi letteratura, tatuaggi, piercing, murales sono diventati “normali” Benvenuti nel secolo mainstream Concepiti per sconvolgere un borghese che non esiste più, i gesti bohémien sono depotenziati “Nell’epoca in cui le masse vogliono sembrare anticonformiste”, scriveva Warhol “l’anticonformismo dev’essere prodotto per le masse”
GUIDO MAZZONI Repubblica 29 11 2015
Uno dei paradossi apparenti dell’arte contemporanea è il favore istituzionale di cui da qualche tempo beneficia una pratica nata contro le istituzioni, una pratica che in origine era controculturale come la street art. I suoi esponenti più visibili, come Banksy o JR, hanno cominciato con opere e azioni illegali che, nel giro di pochi anni, sono state assorbite dal mercato dell’arte, dai musei e dal gusto mainstream. In realtà quello che sta accadendo alla street art è la ripetizione di un fenomeno di lunga durata che attraversa l’estetica moderna.
Le controculture degli ultimi cinquant’anni sono l’equivalente giovanile di massa di ciò che la bohème e le avanguardie storiche erano state, su un piano ristretto ed elitario, fra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Nate con l’intenzione esplicita o implicita di aggredire le forme e i comportamenti borghesi, hanno perso efficacia politica per la stessa ragione per la quale hanno perso efficacia le avanguardie: perché l’avversario contro il quale si erano costruite, la classe media, si è trasformato.
Nel 1910 Aldo Palazzeschi, futurista, pubblica la prima versione di una delle sue poesie più famose, E lasciatemi divertire! (il titolo verrà poi modificato in Lasciatemi divertire).
Palazzeschi usa il genere letterario del contrasto per mettere su carta il dialogo fra un poeta che si diverte a emettere suoni senza senso («tri tri tri, fru fru fru») e una seconda voce che lo rimprovera, e che ha i tratti del benpensante, del borghese. E lasciatemi divertire! è anche la riscrittura ironico-scherzosa degli scontri verbali e fisici che ebbero luogo in molti degli spettacoli organizzati dai Futuristi partire dal 1909 nelle città italiane per diffondere le opere del movimento e di provocare gli spettatori, che spesso reagivano.
A un certo momento, nella seconda metà del Ventesimo secolo, i borghesi hanno smesso di reagire: hanno invece cominciato ad assorbire oggetti, stili e comportamenti nati dalle avanguardie storiche e dalle controculture, a integrarli nella propria vita, a conciliarli con i propri valori. Emblematica, l’evoluzione della moda.
Poche trasformazioni del vestiario sono paragonabili, per rapidità e profondità, alla metamorfosi che ha avuto luogo fra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta — forse solo quella che ha avuto luogo, in Europa continentale, a cavallo della Rivoluzione francese. Molti dei giovani scesi in piazza nel marzo 1968 in Italia o nei primi scontri del maggio 1968 a Parigi, e magari fotografati con i sampietrini in mano, portano abiti adulti e borghesi (i maschi hanno la giacca, a volte la cravatta; le femmine sono vestite da jeune fille rangée). Nel giro di pochi mesi la moda studentesca e non studentesca, di sinistra ma anche di destra, si trasforma: assorbe stilemi messi in circolo dalle controculture giovanili, normalizza i capelli lunghi (Pasolini ne parla nell’articolo con cui dà inizio alla sua collaborazione col Corriere della Sera nel 1973), accetta la minigonna, accetta che l’età media del corpo così come la moda lo vede scivoli verso l’adolescenza e in poco tempo priva queste trasformazioni di un significato politico preciso.
Quando a metà degli anni Settanta compaiono in Gran Bretagna i primi segni punk, gli orecchini maschili, le spille da balia, i capelli dipinti e a cresta o i tatuaggi sembrano inconciliabili con l’idea di normalità; due decenni dopo gli stessi stilemi (con le spille da balia diventate piercing) perdono il loro senso originario e diventano ornamenti che attraversano le classi anagrafiche e le classi sociali. In forma massiccia li troviamo addosso a Balotelli o a Nainggolan; in forma diluita (l’orecchino maschile, il tatuaggio) fanno parte della vita quotidiana. Possono significare trasgressione e espressione di sé, ma lo significano in un’epoca nella quale tutti esprimono se stessi e tutti, per qualche ora ogni giorno, o per qualche giorno la settimana, possono trasgredire. Se oggi il tradizionale abito borghese è ancora il dress code in certi luoghi di lavoro, fuori dal lavoro o sotto i vestiti è considerato normale che le stesse persone cui vengono imposte giacca, cravatta e tailleur si coprano di segni che discendono da mode in origine antiborghesi.
Le controculture continuano a esistere, producono le loro novità e i loro segni, ma l’avversario di un tempo è cambiato. Gruppo sociale egemone del mondo occidentale, la classe media ha subito una trasformazione senza precedenti: ha perso l’elemento disciplinato, severo, rigido, moralistico che la contraddistingueva e ha introiettato in parte gli atteggiamenti che le avanguardie intellettuali cresciute fra il secondo Ottocento e il primo Novecento, fra la bohème e il Manifesto del surrealismo, hanno usato contro l’etica della normalità borghese, e che le controculture giovanili del secondo Novecento hanno riproposto su scala più larga: il sesso e la droga come forme di esperienza, il rifiuto delle regole, la parresia, il sogno, l’infantilismo, l’irresponsabilità, il dandysmo, il piacere della negazione, il piacere della distruzione. La nuova borghesia ha assorbito l’anticonformismo degli artisti, lo ha posto accanto ai propri impegni di lavoro, magari concentrandolo in quel segmento di tempo magico che il capitalismo del secondo Novecento ha reso disponibile alle masse, cioè nel fine settimana, e lo ha usato per rendere quegli impegni più colorati e sopportabili.
Pensati per sconvolgere un borghese che non esiste più, i gesti dei bohémien e delle controculture sono stati accolti e depotenziati; «nell’epoca in cui le masse vogliono sembrare anticonformiste», scriveva Warhol «l’anticonformismo dev’essere prodotto per le masse». Come interpretare questo fenomeno?
A una prima lettura sembra un fallimento politico: ciò che era stato concepito per sconvolgere si riduce a ornamento trasgressivo di vite che, nelle loro strutture profonde, non trasgrediscono alcun divieto politico reale. Ma un’interpretazione simile potrebbe essere rovesciata: si potrebbe dire che la mutazione antropologica delle classe medie, il loro ammorbidimento progressivo sono anche, fra le altre cose, una vittoria controculturale. Lasciando emergere il represso, rendendolo visibile al cospetto della normalità, la bohème favorisce lo sgretolamento del Super-io borghese e contribuisce a generare un modo di essere più sciolto che, pur non essendo rivoluzionario nel senso tradizionale del termine, può essere visto come un fine in sé.
È infatti è proprio diluendosi in un comportamento generalizzato e di massa che le controculture hanno effetto, agiscono, modificano: l’ipotetica presa di potere è visibilmente fallita, sostituita però da una forma diffusa di micropotere, da un’influenza sul modo in cui le masse occidentali articolano il proprio rapporto col corpo, col sesso, con l’espressione di sé. C’è però una terza lettura possibile, meno ottimistica. Se vista in una prospettiva storica più ampia, la dialettica fra controculture e mainstream non è altro che la ripetizione di una dinamica eterna dei campi culturali: inizialmente periferici e sospetti, i nuovi entranti acquistano prestigio, si normalizzano, entrano nelle istituzioni, in un ciclo perpetuo che rinnova le forme e le mode, ma che si ripete meccanicamente, e che alla fine significa solo se stesso. È quello che scopre Proust nel finale della Recherche: i Verdurin, un tempo considerati dei volgari arricchiti, sono diventati i nuovi arbitri dell’eleganza; i segni che una generazione e un gruppo sociale ha creduto eterni sono destinati a trasformarsi, e le giovani generazioni accolgono i nuovi valori come un dato di fatto, come una norma che c’è sempre stata.
L’INTERVISTA / NANNI BALESTRINI
“Il mercato ha stravinto ma i ventenni di oggi saranno i nuovi ribelli” STEFANIA PARMEGGIANI
Per Nanni Balestrini il linguaggio è sempre stato opposizione, lotta e rivoluzione. Rileggere i versi che hanno segnato i suoi esordi, oggi pubblicati da DeriveApprodi nel primo volume dell’edizione completa della sua opera poetica ( Come si agisce e altri procedimenti) significa rivivere non solo il suo percorso intellettuale, ma anche una stagione, l’ultima in Italia, che è stata avanguardia: I novissimi e il Gruppo 63. Poi, poco altro.
Cosa c’è stato di irripetibile nella sua generazione?
«Tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia ha vissuto una trasformazione profonda, da paese agricolo a industriale. C’è stato un sovvertimento del modo di vivere, dei costumi, della lingua stessa. Gli artisti, gli scrittori, i poeti, gli intellettuali hanno partecipato a questa trasformazione. Non è stata neanche una controcultura, ma una nuova cultura che si è imposta».
I novissimi e il Gruppo 63 sperimentarono un nuovo linguaggio nella lirica e nella narrativa. Perché avete sentito il bisogno di una frattura così netta con il passato?
«Ci sembrava che la letteratura dei nostri predecessori non fosse consona alla trasformazione che stavamo vivendo. Non la esprimeva, non aveva nessun rapporto con la nuova realtà».
Dopo che il ’68 impose un impegno diverso da quello letterario, lei scrisse “Vogliamo tutto”, un libro che è diventato manifesto delle lotte operaie...
«Nella letteratura precedente la fabbrica era descritta dall’alto, quasi idealizzata. Io ho dato la parola a un operaio arrivato dal Sud a Torino, un uomo che insieme alla metropoli aveva scoperto la violenza e l’oppressione capitalistica. Registrandolo, smontando e rimontando il suo parlato, ho raccontato una storia collettiva».
La rivolta stava per esplodere.
«Gli anni Sessanta e Settanta sono stati molto effervescenti. Quello che di clamoroso c’è stato non è esploso all’improvviso ma dopo una lunga preparazione. L’aspetto sociale, quello politico, la teorizzazione a un certo punto hanno trovato un coagulo e si sono espressi in modi imprevisti e poi tragici».
Quando è finito tutto?
«Negli anni Ottanta è iniziato il dominio del mercato, che ha divorato tutto, i comportamenti, i pensieri, i punti di vista, le attività... Il consumismo ha appiattito la nostra vita e i nostri pensieri. È ancora così, appena nasce qualcosa di nuovo, di interessante, di potenzialmente rivoluzionario ecco che il mercato se ne impossessa e in qualche modo lo snatura».
Anche gli intellettuali sono preda del mercato?
«Esistono persone che hanno una volontà di reagire, che si impegnano e cercano di dare vita a movimenti collettivi, ma tutti rischiano di finire preda del mercato. È un gioco pericoloso a cui è difficile sottrarsi. Il campo in cui tutto questo è più evidente è la moda: ci sono stati anni in cui i movimenti giovanili si opponevano all’idea borghese di dovere essere vestiti in modo decoroso. Si indossavano stracci come gesto di sfida. Oggi i jeans più venduti sono quelli pieni di strappi. La stessa cosa è accaduta nel mondo dell’arte, con i graffitari che vengono imitati dalle arti grafiche e dalla pubblicità».
E l’editoria?
«A parte qualche eccezione, si è appiattita su una forma di consumo immediato e senza possibilità di incidere sulla realtà ».
Cosa possono fare i poeti?
«Possono resistere alle lusinghe del mercato, non illudendosi di avere un riscontro immediato. La poesia non cambia il mondo, ma può cambiare le persone ».
Quindi non crede che siano maturi i tempi per una nuova controcultura?
«Anche la parola cultura è invecchiata. Credo che una delle conseguenze peggiori del berlusconismo sia stata quella di deprezzare la cultura, di relegarla a questione per pochi illusi... Contro una cultura che non ha alcuna importanza che senso ha fare una controcultura?».
È pessimista?
«No, penso che dai ventenni arriverà qualcosa di nuovo. I loro fratelli maggiori sono una generazione umiliata, indebolita, che vive in una condizione terribile, oppressiva e senza futuro, di desideri non realizzati. Ho una vaga sensazione che quelli più giovani, quelli che oggi non si lamentano, che sembrano indifferenti, porteranno invece qualcosa di diverso, si faranno avanguardia».
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