giovedì 26 novembre 2015
Il complotto dei Musi Gialli comunisti per fotterci la Gioconda
La faccia come il culo. Se occidentale, il lusso è sinonimo di progresso dei bisogni e della stessa sfera spirituale; se non lo è, è invece goffo tentativo di lustrare il proprio arrivismo [SGA].
L’INTERVISTA. MARIO CRISTIANI
Così cercano legittimità con un brand
DARIO PAPPALARDO
«ICINESI vogliono far vedere che ora possono. E l’arte occidentale serve a legittimare non solo la loro potenza economica, ma anche la loro cultura agli occhi del mondo». Mario Cristiani è appena tornato da Pechino. Con i soci Lorenzo Fiaschi e Maurizio Rigillo ha fondato Galleria Continua a San Gimignano, l’unica italiana che dal 2005 ha una sede a Pechino e che figura costantemente nella power list dell’arte contemporanea mondiale. Rappresenta una roccaforte di opere occidentali esposte nella Repubblica di Mao: i prossimi artisti in cartellone sono il britannico Antony Gormley e l’italiano Michelangelo Pistoletto. Ma non solo, gli italiani hanno fatto “digerire” al governo cinese anche l’icona dissidente Ai Weiwei, che ora ospitano con una mostra in programma fino ai primi giorni del 2016.
Cristiani, come è cambiato il gusto cinese degli ultimi anni?
«I cinesi sono diventati cosmopoliti anche nelle scelte del collezionismo. In questo hanno influito le fiere internazionali: Art Basel a Hong Kong dal 2013 ha giocato un ruolo fondamentale. Oggi esporre in una raccolta gli artisti occidentali significa legittimare anche i maestri locali che sono inseriti nella stessa collezione. Picasso, Modigliani o un artista vivente e sul mercato come Anish Kapoor diventano brand che fanno salire il valore di una collezione. Le regalano credibilità. Così come accadeva nel Novecento con i grandi capitalisti americani che compravano i maestri europei e davano vita a fondazioni che sono diventati musei tra i più importanti del mondo».
Gli artisti occidentali sono anche blue chip per i collezionisti cinesi, investimenti sicuri e redditizi sul mercato...
«Sì, ma proprio come succede con i collezionisti occidentali. La Cina, fatto salvo il suo sistema politico, è un Paese capitalista e sta promuovendo le nuove fondazioni dedicate all’arte contemporanea. In più, ora lo stesso governo vuole sviluppare l’industria culturale coinvolgendo gli occidentali o personaggi che comunque godono di grande credibilità in Occidente».
Vale a dire?
«Archistar come Zaha Hadid e Rem Koolhaas sono stati contattati per progetti faraonici. A Shaoshan, la città dove è nato Mao, sorgerà entro un paio d’anni un enorme museo statale da 90.000 metri quadrati. Esporrà l’arte cinese, ma anche molti maestri occidentali acquistati dallo Stato. Il governo vuole organizzare per l’apertura una grande mostra sul Rinascimento italiano, mettendolo in parallelo con l’arte cinese dello stesso periodo. E anche noi, come galleristi, siamo stati contattati per fare da mediatori con le istituzioni italiane».
Quello occidentale diventa un modello anche per la costruzione e l’organizzazione dei nuovi musei?
«Evidentemente sì. Ci si affida a un modello consolidato e accettato dal mondo. Ma questo rischia di compromettere il gusto. L’Occidente vende i suoi simboli più noti, ma sarebbe anche importante alimentare uno scambio culturale autentico. Non mettendo in circolo solo gli artisti più riconoscobili e “facili”».
Il museo cinese
Da Jack Ma a Liu Yiqian, i miliardari di Pechino vanno a caccia dei tesori dell’arte, diventando i primi clienti delle aste in Occidente. Picasso, Van Gogh e ora un Modigliani per 170 milioni. Dietro ai nuovi mecenati c’è il piano del regime: diventare la capitale culturale del mondo. Ma in Europa è allarme: per la svendita della “civiltà” ai maestri del falso
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO
«Sì, io sono un tuhao. Ma questo tuhao sta portando in patria i capolavori dell’arte, per ricostruire anche la cultura dei cinesi».
Liu Yiqian sceglie l’autoironia e non si vergogna di rappresentare i «nuovi ricchi» della Cina che si compra il mondo. Assieme alla moglie Wang Wei, è il simbolo dei ”magnifici cafoni”, i nipoti dei rivoluzionari di Mao Zedong che succhiano caviale iraniano dal polso e acquistano navi di sabbia delle Seychelles per le ville hollywoodiane, nascoste sulle colline a nord di Pechino. I loro figli animano invece i circoli esclusivi dei fuerdai, la seconda generazione dei nababbi rossi, che prima di andare al parco allacciano due Apple watch d’oro alle zampe anteriori dei cuccioli di husky, tanto per sapere quanto tempo perdono.
La prima fase dell’esibizionismo comunista da parvenu, che ha segnato pure la Russia dopo il crollo dell’Urss, sta però finendo anche in Cina. Dalla razzia del lusso, si passa all’ostentazione della beneficienza e della cultura. I nuovi miliardari, nell’era Xi Jinping, non vogliono più essere invidiati, ma pretendono di essere amati e stimati: dal consumo passano al possesso, dall’impeto dell’eccesso all’investimento, dalla fuoriserie alla scultura.
Fino a due settimane fa solo gli specialisti sapevano chi fosse Liu Yiqian. Poi, al telefono da Shanghai, per 170 milioni di dollari ha comprato il Nu Couché di Amedeo Modigliani, battuto all’asta di Christie’s a New York. Gerard Lyons, di Standard Chartered sintetizza l’evento così: «Si chiude il trentennio del “made in China” e si apre quello del “owned by China”, la “fabbrica del mondo” si trasforma nell’«”azionista di maggioranza” del pianeta ». L’obbiettivo di Stato è chiaro: fare della seconda economia globale una capitale anche dell’arte e della cultura moderne e contemporanee, sostenendo i privati che accettano di diventare i nazionalisti mecenati del presente. Liu Yiqian, 52 anni, è uno di questi. Nei primi anni ’80 cuciva borse di finta pelle in uno scantinato di Shanghai e per pagare l’affitto faceva il taxista abusivo. Vent’anni fa ha scoperto la Borsa: vanta oggi un portafoglio da 1,5 miliardi di dollari e guida il gruppo Sunline, colosso di chimica, immobiliare, farmaceutica e finanza. Si definisce però, prima di tutto, un «fanatico dell’arte», un «collezionista compulsivo» di quadri e oggetti. Risultato: nel 2012 ha aperto il «Long Museum » a Pudong, nel 2014 la seconda sede sul Bund, sempre a Shanghai, mentre è in progetto il terzo museo, nella megalopoli di Chongqing. Il primo colpo mediatico, lo scorso anno: all’asta di Sotheby’s, a Hong Kong, ha acquistato una tazzina Ming per 36 milioni di dollari, pagando con la carta di credito per ottenere i punti necessari per far volare gratis tutta la famiglia per un anno, classe business. Per celebrare lo shopping si è fatto subito servire un tè nella preziosa ceramica, appartenuta all’imperatore Qianlong. I cedimenti infantili alla vanità non ostacolano però la sfida della sua vita: spingere i suoi musei al livello del Moma e della Guggenheim di New York, trasformando la Cina nella destinazione mondiale preferita del turismo culturale, superando Europa e Usa. Nelle collezioni dei miliardari cinesi figurano già Picasso, Monet, Van Gogh, Munch, Chagall, Warhol, Kounellis, Rothko, Koons, oltre che il meglio dell’arte andata all’asta nell’ultimo decennio. Quest’anno la Cina ha sorpassato Stati Uniti e Gran Bretagna, diventando il primo cliente mondiale di un mercato da 50 miliardi di euro: Pechino, via Hong Kong, ha raddoppiato gli acquisti sia da Christie’s che da Sotheby’s, di cui è primo cliente. L’evoluzione però, nella nazione che ha appena superato gli Usa per numero di miliardari, è evidente. Fino a ieri lo Stato e pochi collezionisti protetti dal governo rastrellavano i pezzi antichi trafugati all’estero, durante le invasioni straniere o per sottrarli alla rivoluzione culturale maoista. Oggi, oltre alle star contemporanee cinesi, come Cai Guo Qiang, Yue Minjun e Zhang Xiaogang, gli investimenti di centinaia di tuhao fanno rotta sulle icone della bellezza occidentale. «I cinesi — ha detto Liu Yiqian al New York Times — non dovranno più andare in Occidente per ammirare i grandi maestri e gli stranieri dovranno venire in Cina per vedere alcuni tra i pezzi più famosi ». Dietro gli acquisti record, le quotazioni folli e le decine di musei inaugurati in tutto il Paese, emerge così il piano del partito- Stato, deciso a sfruttare la vanità privata per accelerare la potenza pubblica, che Xi Jinping chiama «espansione culturale» cinese nel mondo. Da Jack Ma a Wang Jianlin, da Alan Lau a Wang Zhongjun, da Lu Xun a Qiao Zhibing, da Lin Han a Li Hejun, tutti i nuovi miliardari cinesi sanno che investire in tesori dell’arte oggi è «patriottico» e garantisce l’impunità dalla guerra contro «corruzione, eccessi e stravaganze», dichiarata dalle autorità. «Quadri, sculture e simboli globali della cultura — dice il neo-miliardario Cheng Wei — sanciscono l’ultima fase della rinascita cinese. Non siamo più quelli che si fanno consegnare il mastino tibetano in Rolls-Royce: compriamo anche scuole private e università inglesi, grattacieli Usa, vigne francesi e industrie in Germania. Dopo Picasso e Modigliani potremmo decidere di fare un’offerta per acquistare in Occidente interi musei e monumenti: non ci sono confini, grazie agli sponsor la migrazione dell’arte verso Oriente è solo agli inizi». Galleristi e antiquari confermano che in Cina sono già custodite alcune tra le più ricche collezioni d’arte del mondo e che Pechino ha stanziato il più alto budget statale per la cultura tra le super- potenze. «L’opera sotto il milione di dollari — dice Thomas Galbraith, direttore della galleria Paddle 8 — non viene nemmeno considerata. C’è una parte di snobismo e una di ignoranza: ma la tensione a puntare al massimo sta costruendo un patrimonio artistico senza precedenti, che fonde Oriente e Occidente». In Europa monta così l’allarme per la «svendita di una civiltà» ai «maestri dell’imitazione»: la Cina, grazie agli interessi delle multinazionali, comincia ad acquistare in blocco anche le grandi mostre e i critici si oppongono alle «tournée dei capolavori nella culla dei falsari ». Il rischio, sostengono, è «svuotare l’Occidente dalla bellezza che ancora caratterizza la sua identità».
E’ però proprio questa, la bellezza della creatività, che interessa ai nuovi ”padroni del mondo”. Senza di essa ai soldi non rimane che la volgarità e i neo-profeti del capitalismo di Stato hanno imparato che l’eleganza è l’apparenza indispensabile per essere globalmente accolti in società. «Il messaggio è semplice — ha detto Liu Yiqian dopo essersi assicurato il Modigliani record —: abbiamo comprato i vostri palazzi, abbiamo comprato le vostre aziende, è tempo di comprare le vostra arte e la vostra cultura». Altro non c’è, nemmeno per tuhao e fuerdai: e questa, va riconosciuto, è una buona notizia.
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