Fabio Galvano: Tre funerali al Cremlino. Cronache dalla fine di un impero (1980-1991), Della Porta Editori, pp 409, € 20
Risvolto
Quando le bandiere rosse furono ammainate dai
pennoni del Cremlino, il 25 dicembre 1991, il mondo fu testimone di un
cambiamento epocale. A 74 anni dalla rivoluzione bolscevica il grande
impero si disgregava con una facilità irriverente. La caduta dell'Unione
Sovietica sorprese molti, ma negli anni in cui Andropov, Cernenko e
Gorbacev si susseguirono al potere tutti i segnali c'erano già. Fabio
Galvano li analizza e li racconta in queste pagine, dove la cronaca
diventa storia.
Mamma, ho perduto l’Unione Sovietica
InTre funerali al Cremlino,la sorpresa dei corrispondenti a Mosca per il crollo dell’Urss
Claudio Gallo Stampa 19 11 2015
Nel troppo confortevole orizzonte del mondo unipolare, le polemiche che il Novecento chiamava ideologiche sono svanite. Che senso ha allora scrivere un libro come 1980-1991 Tre funerali al Cremlino
(Della Porta Editori, pp 409, € 20)? La risposta dell’autore, Fabio Galvano, ex corrispondente de
La Stampa da Mosca e da altre capitali europee, non è scontata. Non vuole, infatti, raccontare per l’ennesima volta com’è crollata l’Urss. La differenza è un punto di vista rovesciato: vi racconto perché nessuno si accorse che l’Unione Sovietica stesse crollando.
Il materiale da cui attinge sono le sue corrispondenze del periodo («l’unico giornalista italiano a essere stato a tutti e tre i funerali degli ultimi leader sovietici: Breznev, Andropov e Cernenko») e dalla sua lunga esperienza di «vita quotidiana ai tempi dell’Urss».
Il fatto che i sovietologi videro sfaldarsi davanti ai loro occhi l’Impero comunista senza rendersene conto ha scatenato molte acute osservazioni di altri specialisti. Galvano sceglie piuttosto la freschezza del testimone diretto che giudica se stesso a posteriori. Non che proprio nessuno se ne fosse accorto, uno per tutti Andrej Amalrik con il suo straordinario Sopravvivrà l’Unione Sovietica fino al 1984? uscito nel 1970. Sarebbe forse un po’ azzardato, come fanno molti, mettere in questa nobile compagnia le visioni messianiche di Reagan o, addirittura, le divertenti boutades russofobe di Custine (1790-1857), uno che in Russia c’era stato tre mesi e non parlava russo.
I se non faranno la storia ma intrigano il lettore: scorrendo i reportage di Galvano sulla fine dell’era Breznev, ci si domanda con lui «se in migliori condizioni di salute Andropov sarebbe riuscito a dare una svolta in un paese immobile e incarognito, senza provocare i danni che Gorbaciov (…) avrebbe provocato negli anni seguenti».
L’inaspettato già davanti agli occhi eppure invisibile, le possibilità stritolate dalla storia nel suo prendere forma sono il filo conduttore che lega i dispacci «dal nostro corrispondente da Mosca», attraverso lo sguardo retrospettivo dell’autore. Schema certo generalizzabile ma che sembra appartenere in modo speciale alla Russia moderna. Nella sua biografia del giornalista e scrittore Ilya Ehrenburg, uno dei pochi che riuscì a sopravvivere a Lenin, Stalin e Krusciov, Joshua Rubinstein apre il capitolo sulla caduta di Krusciov (l’alba dell’era Breznev, quella da cui Galvano comincia) giocando al solito gioco: «Nessuno era stato capace di prevedere la tempesta che stava per abbattersi».
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