domenica 29 novembre 2015
L'antropofagia nella letteratura medievale
Cannibalismo in Occidente
Di là dalla rappresentazione dantesca del conte Ugolino capitava
davvero agli uomini e alle donne del Medioevo di consumare carne umana,
agli scopi più vari. Come documenta ora un brillante saggio storico
di Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 6.12.15
«Conferisce alle emicranie, al mal caduco, ed alle vertigini, tirandola
su per il naso insieme ad acqua di maggiorana». «Vale al dolore
dell’orecchie», al mal di gola, alla tosse, «alle passioni del cuore» e
alle «ventosità del corpo». «Giova» contro «li veleni mortiferi» e «le
punture degli scorpioni». «Stringe la mummia, applicata di fuori, i
flussi del sangue; e bevuta, quando esce il sangue dell’interiora». Ecco
un elenco (neppure completo) dei prodigiosi benefici terapeutici che
garantisce questa «mummia». Cioè, nel gergo farmacologico del
Cinquecento, il «liquamento d’uomini»: il succo di cadavere. Ma anche –
in un’accezione allora sempre più corrente – la polvere di cadavere: la
carne umana essiccata.
È quanto si legge in un’opera di medicina pubblicata nel 1544 da Pietro
Andrea Mattioli, gentiluomo senese emigrato a Trento, destinato a
brillante carriera quale medico di fiducia degli Asburgo alla corte di
Praga. Ed è quanto si ritrova in un libro a sua volta brillante, quello
che una giovane studiosa di storia medievale, Angelica Montanari, ha
dantescamente intitolato Il fiero pasto: un saggio (spiega il
sottotitolo) sulle Antropofagie medievali.
Decidendo di abbordare fuor di metafora il tema storico del cannibalismo
in Occidente, Montanari ha interrogato le fonti per rispondere a una
domanda urticante. Di là da rappresentazioni letterarie come quella del
conte Ugolino nella Commedia, capitava davvero agli uomini e alle donne
del Medioevo di consumare, sotto l’una o l’altra forma, carne umana?
Sono trascorsi una decina d’anni da quando un medievista italiano di
fama internazionale, Ariel Toaff, suscitò lo scandalo di una
storiografia benpensante con il libro Pasque di sangue. Dove, a partire
da un caso di infanticidio occorso proprio a Trento nel 1475, si
suggeriva che alcuni ebrei fondamentalisti di osservanza ashkenazita
avessero veramente compiuto, nell’Europa del tardo Medioevo, sacrifici
umani a scopo rituale. E che avessero impiegato sangue in polvere, umano
oltreché animale, a scopo terapeutico: secondo i dettami di una
Kabbalah pratica che sfidava l’interdetto biblico di ingerire sangue.
Oggi Angelica Montanari ritorna sul tema dell’antropofagia rituale, ma
guardando – più che al mondo ebraico – al mondo cristiano.
Tema tabù, il cannibalismo ha lasciato scarse tracce negli archivi
giudiziari. Ma ne ha lasciate in abbondanza tra le fonti normative, le
cronache cittadine, i memoriali di viaggio, le farmacopee, i testi
agiografici e teologici, i penitenziali, le fonti letterarie e
iconografiche. Sulla scorta di tale documentazione, l’autrice del Fiero
pasto ritiene plausibile che alcuni episodi di antropofagia forzosa (per
così dire) abbiano effettivamente avuto luogo nell’Occidente medievale,
in coincidenza con prolungati periodi di carestia: letteralmente, per i
morsi della fame. Meglio documentati risultano certi episodi di
antropofagia rituale durante le insorgenze urbane: in particolare
nell’Italia centro-settentrionale, fra Trecento e Cinquecento, successe
ai più fanatici di addentare, di masticare, di ingoiare il corpo del
nemico ucciso. Quanto all’antropofagia terapeutica, Montanari non ha
dubbi: i trattati medici e farmacologici attestano quale procedura
diffusa l’ingestione di preparati a base di membra, di fluidi, di
secrezioni umane.
Se torniamo a far parlare il dottor Mattioli, possiamo misurare fino a
che punto il retrobottega di uno speziale del primo Cinquecento dovesse
somigliare a un’officina per il trattamento dei cadaveri, la bollitura e
l’essicamento delle carni, la polverizzazione delle ossa, l’estrazione
dei grassi. In effetti, «vera mummia» non era la carne secca e
grossolanamente triturata che veniva spacciata in giro da ciarlatani
senza scrupoli. Per produrre il meraviglioso rimedio – spiegava il
futuro medico degli Asburgo – bisognava riempire i «corpi christiani» di
una giusta «mistura d’aloe, mirrha e zaffarano», e «al congruo tempo
torla poi fuori»: «perciocché (secondo che scrivono gli Arabi) ha la
mummia assaissima virtù».
Non che tutti i medici del Cinquecento la pensassero come Pietro Andrea
Mattioli. Via via nel corso del secolo, e tanto più quando la dissezione
anatomica divenne pratica corrente, si alzarono voci come quella di
Ambroise Paré, medico alla corte dei re di Francia. Il quale, a forza di
assistere come chirurgo le truppe francesi in battaglia e di guardare
dentro i cadaveri dei soldati uccisi, si risolse a denunciare
pubblicamente la totale inefficacia terapeutica della carne umana, in
succo o in polvere che questa fosse. «I corpi mummificati in Francia
sono altrettanto buoni di quelli d’Egitto, poiché entrambi non valgono
nulla». Anziché come «buona droga», venduta dai farmacisti a prezzi da
capogiro, la «mummia» andava tutt’al più smerciata ai pescatori,
affinché il suo odore putrescente valesse da esca per i pesci.
Ma il Discorso sulla mummia di Paré non venne pubblicato che nel 1582.
Prima (almeno dal XIV secolo, e ben dentro il XVI) tutto un mondo di
medici e di speziali, di intermediari ebrei e di trafficanti cristiani,
di imprenditori di santità e di contrabbandieri di reliquie, si era
impegnato nella preparazione e nel commercio di carne umana. Ci aveva
forse speculato, profittando della credulità popolare. O aveva forse
cercato di mettere insieme, più o meno consapevolmente, forme di
rielaborazione collettiva di quello che nella tradizione occidentale è
il pasto rituale per eccellenza: il banchetto eucaristico. La salvifica
assunzione, attraverso l’ostia consacrata, del Corpo glorioso.
Non per caso – nota Angelica Montanari – l’accusa di celebrare
eucarestie sacrileghe, con ostie impastate di sangue umano, sostenne dal
Duecento in poi le campagne cristiane contro gli eretici: la
persecuzione e la repressione dei catari, dei manichei, dei valdesi. La
stessa «accusa del sangue», l’imputazione fatta agli ebrei di compiere
riti a sfondo cannibalico, si fondò sull’incubo di un rovesciamento
sacrilego della Pasqua cristiana. E anche lo stereotipo inquisitoriale
del sabba venne costruito sopra l’accusa fatta alle streghe di uccidere
bambini per ricavarne roba «commestibile e potabile». Tanto il sistema
di pensiero dell’Occidente medievale si trovava a ruotare –
metaforicamente, ma non solo – intorno al corpo di Cristo. E gli uomi ni
e le donne del tardo Medioevo sentivano il bisogno, nel bene come nel
male, di materia almeno altrettanto che di figura. Di carne e di sangue,
almeno altrettanto che di ostia e di vino.
Angelica M. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali , il Mulino, Bologna, pagg. 238, € 22,00.
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