Tragica alba a Dongo (1950)
Regia: Vittorio Crucillà –
Sceneggiatura: Ettore Camesasca [V. Crucillà] –
Cronaca e commento: Vittorio Crucillà–
Fotografia: Duilio Chiaradia -
Musica: Martinelli –
Produzione: Emilio Maschera e Ugo Zanolla per la National Film
– Segretari di produzione: Milli Bahar, Antonio Zanni –
Adattamento musicale: Ferruccio Martinelli -
Durata: 37’
Interpreti e personaggi: attori non professionisti, tra i quali i coniugi
De Maria, Ivan Kiorofilian, Nino Poli
Le ultime ore di Benito Mussolini in una
ricostruzione asciutta ed efficace, girata nei luoghi reali degli
eventi, con attori non professionisti che in molti casi furono testimoni
dell’accaduto. Il film mette in scena il tentivo di fuga oltreconfine,
la cattura da parte di una brigata partigiana, l’ultima notte presso la
casa di una coppia di contadini, i coniugi De Maria, e infine la
fucilazione. Il racconto è commentato e contestualizzato dalla voce del
regista Vittorio Crucillà. I volti degli attori che interpretano
Mussolini e Clara Petacci non vengono mai inquadrati se non fuggevolmente.
La pellicola non ottenne il nulla osta
da parte Ufficio Centrale per la Cinematografia, malgrado i diversi
tentativi nel corso dei primi anni Cinquanta. Inoltre, la diffida della
famiglia Mussolini verso la casa produttrice condannò definivamente le
possibilità di distribuzione del film in Italia.
La copia nitrato conservata dal Museo
Nazionale del Cinema di Torino, di proprietà della Famiglia
Paternò-Pelos, custodita per decenni con altri beni familiari e
recentemente “ritrovata”, potrebbe essere l’unica copia d’epoca
reperibile.
Il restauro: il restauro conservativo di Tragica alba a Dongo
è stato realizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino a partire
da una copia positiva in supporto nitrato bianco e nero di 1.015 metri.
Il film è stato restaurato a una risoluzione di 2K con un intervento di
pulizia e stabilizzazione, nel rispetto delle caratteristiche del
materiale d’epoca, sia per l’immagine sia per il suono originale mono.
La lavorazione è stata realizzata presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata di Bologna nel 2014.
Adriano Palazzolo il GIornale - Lun, 23/11/2015
Tragica alba a Dongo La Resistenza negata del nostro dopoguerraRiproposto il film del 1950 che racconta la morte di Mussolini. Andreotti ne impedì l’uscita: “Danneggia l’immagine dell’Italia”Giovanni De Luna Stampa 22 11 2015
C’è un film sugli ultimi giorni di Mussolini – Tragica alba a Dongo - che gli italiani non hanno mai visto. Fu girato nel 1950, negli stessi luoghi e con gli stessi protagonisti delle convulse vicende che portarono alla cattura e alla fucilazione del Duce. Ci sono le immagini della disadorna camera da letto in cui Mussolini e Claretta Petacci trascorsero la loro ultima notte, nella casa dei coniugi De Maria; compaiono in persona gli stessi De Maria, con lo sguardo smarrito di fronte all’ampiezza degli eventi; ci sono i partigiani, quelli veri, che arrestarono il convoglio della Wermacht e scovarono Mussolini in fondo a un camion, intabarrato in un cappottone tedesco. E soprattutto ci sono i luoghi (Dongo, Germasino, Musso, Giulino di Mezzegra) di un’Italia povera e contadina, villaggi aggrappati ai costoni del lago di Como, lividi di pioggia, a sottolineare un epilogo inimmaginabile per chi era abituato ai bagni di folla di Piazza Venezia e ai fasti imperiali delle adunate oceaniche.Quel film non ottenne il visto della censura, «in quanto», era scritto in una nota, del 24 gennaio 1951, di Giulio Andreotti, sottosegretario di Stato, «si ritiene che possa ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». Questa mancata autorizzazione ci restituisce con grande efficacia il clima politico e culturale dell’Italia di allora. A partire dal 1948 (e almeno fino al 1960) contro la Resistenza si avviarono infatti pesanti iniziative giudiziarie e furono mosse accuse di ogni tipo. Nelle istituzioni, e in particolare nella magistratura, si affermò un orientamento pregiudizialmente ostile che indicava nei partigiani i responsabili morali di una lotta fratricida, protagonisti di una pagina della nostra storia da rimuovere e dimenticare.
Su giornali conservatori come Il Giornale d’Italia o Il Tempo, i giudizi oscillavano tra l’ironico ridimensionamento delle figure degli antifascisti («rubagalline» e pronti solo ad andare in soccorso al vincitore) e le esplicite denigrazioni personali, con frammisti apprezzamenti sulla viltà («nascosti nei conventi vaticani») e ingiurie sulla loro mancanza «di onore». Era uno zoccolo duro di opinione su cui si plasmava fedelmente l’operato dell’intero apparato dello Stato, dei magistrati come dei prefetti, dei questori, di una intera burocrazia ministeriale, come quella dipendente dal ministero della Pubblica Istruzione che, per il decennale della Resistenza, il 25 aprile 1955, inviò una circolare solenne ai presidi di tutte le scuole italiane per invitarli a festeggiare, quel giorno, l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi.
Altro che Repubblica «fondata sulla Resistenza»! Per sopravvivere, l’antifascismo si costruì una sorta di nicchia difensiva, con una battaglia politico-culturale condotta all’insegna del «dovere di non dimenticare» che indusse molti ex-partigiani a farsi storici della propria memoria, a diventare «archivisti», gelosi custodi dei «documenti» che testimoniavano di una pagina di storia che troppo presto gli altri volevano cancellare.
Tragica alba a Dongo si inseriva in questo contesto. Il film era stato prodotto da una cooperativa di giornalisti, e la richiesta di autorizzazione per la proiezione aveva un tono dimesso («Narra obiettivamente e porta per la prima volta sullo schermo, nella nuda cronaca cinematografica dei fatti, cose, ambienti e uomini, così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate di aprile. Il tempo, i luoghi, i costumi e financo i gesti e le parole, caratterizzano il valore essenzialmente documentaristico di questa ricostruzione»), insistendo sulla sua oggettiva neutralità. Una successiva lettera ad Andreotti, il 2 marzo 1951, era quasi una supplica: «I giornalisti in questione non hanno esitato a sacrificare in questa impresa tutte le loro economie personali, sì che un rifiuto ripetuto significherebbe, per essi, e per le loro stesse famiglie, la certa rovina, essendosi essi stessi, tra l’altro, anche indebitati pur di realizzare questo film. Vostra eccellenza, che proviene dal giornalismo, non mancherà di valutare a pieno e con competenza la portata di questo rifiuto…».
Niente da fare; Andreotti fu irremovibile. Contro la programmazione intervennero anche la famiglia Mussolini (con una diffida a «non alterare arbitrariamente nel detto film la realtà storica») e, successivamente il comune di Dongo («questa popolazione è sempre stata, per sé stessa, elemento di ordine sotto l’Alta guida di ben quattro Deputati, tre Senatori, più volte di un Ministro»). E il film fu cancellato. Andò meglio ad
Achtung! Banditi
!, di Carlo Lizzani, che raccontava la lotta partigiana alle spalle di Genova, pure finanziato da una cooperativa di operai; giudicato in prima istanza «dannoso sia per i riflessi interni nel momento attuale, sia per i riflessi esterni in quanto ripropone, in tutta la sua asprezza, l’odio contro i tedeschi», in quello stesso 1951, pur tagliato e sforbiciato, il film arrivò comunque nelle sale. Pochi spettatori si accorsero che i partigiani combattevano con fucili di legno, abilmente riprodotti da artigiani locali; il ministero della Difesa aveva proibito che nelle riprese si usassero fucili veri, anche se disattivati.
ll film censurato sulla fine del Duce
Cinema.
Al Torino Film Festival 33 tra archivi e sorprese spicca «Tragica alba a
Dongo», girato nel 1950 dal giornalista Vittorio Crucilà che racconta
la cattura di Mussolinidi Giuliana Muscio il manifesto 26.11.15
TORINO Tragica alba a Dongo era un film perduto prima ancora di
esistere, nel senso che non era mai stato proiettato. Girato nel 1950
dal giornalista Vittorio Crucillà e restaurato ora dal Museo del Cinema
di Torino, racconta la cattura di Mussolini (e di Claretta Petacci) a
Dongo e la notte da loro trascorsa nella casa dei De Maria prima della
fucilazione.
Questa «pagina di storia visiva» come dice la didascalia iniziale, è una
docu-fiction rigorosa nella cronologia e nella messa in scena, visto
che utilizza alcuni partigiani che avevano partecipato all’azione e gli
stessi coniugi De Maria nella loro la casa. Sgradito sia alla famiglia
di Mussolini poiché la donna accanto al Duce nell’ora fatale era la sua
amante, che ai paesani di Dongo, in quanto la fucilazione era opera di
partigiani venuti di fuori (per non parlare della sparizione del bottino
che il duce si portava dietro, l’«oro di Dongo») il film, dalla strana
durata di 38 minuti, non fu mai proiettato in sala.
La censura di Andreotti gli negò persino il visto per l’esportazione,
con la motivazione che avrebbe portato disdoro alla patria. Così si era
ridotto infatti in guerra fredda il ricordo della Resistenza, qui
proposta senza retorica garibaldina (nella colonna sonora citazioni di
canti risorgimentali) e con la scelta di mostrare Mussolini e Petacci
solo di spalle o come ombre, per preservare la qualità documentaristica
del film — un neorealismo alla De Santis, con monumentalizzanti primi
piani sovietici, dal basso, dei partigiani, contrasti di luce e ombra e
il dramma sentimentale della Petacci aggrappata al suo uomo (quando lo
storico Giovanni De Luna ha ricordato invece come la pubblicazione del
suo epistolario la riveli lucida compagna di strada.)
Prima che la vita cambi noi di Felice Pesoli racconta il cosmopolitismo
del movimento hippy milanese prima degli anni di piombo, con materiali
di repertorio, filmini amatoriali e interviste: il salotto alternativo
di Pivano, le reazioni della stampa borghese ai «capelloni», la musica,
le droghe, le comuni, i viaggi in India e soprattutto le attività di «Re
Nudo», la rivista perno del movimento — una cultura che ha inciso sulla
storia sociale molto più della «lotta armata» con cui ha finito per
essere sussunta.
Per quel che concerne il concorso Torino 33, per ora niente di
eccezionale, ma neppure da lamentare; fresco e ben scritto il messicano
Sopladora de Hojas, in cui tre ragazzini (il grasso, il bello e il
buono) cercano in un mucchio di foglie secche un mazzo di chiavi,
svelando la loro inadeguatezza generazionale e il distacco emotivo dai
«grandi»; e d’altro canto il cinema messicano ben figura al festival con
Te prometo anarquia, già apprezzato a Locarno, o dovremmo dire il
cinema latinoamericano, perché si distingue in concorso anche La patota
Paulina che affronta con sensibilità nuova e provocatoria la violenza
sulle donne.
L’americano God Bless the Child segue cinque bambini dall’infante alla
teenager (strepitosi interpreti) lasciati a casa da soli da una mamma
depressa, nelle loro esplosioni di violenza e in momenti di commovente
tenerezza.
La prima tragica notte di Benito e Claretta
Il Duce e l'amante dormirono insieme una sola volta, in attesa di essere uccisi
Antonio Pennacchi il Giornale
- Ven, 27/11/2015
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