E assimila saltafossi, dissidenti e collaborazionisti di tutte le risme. In prima fila, Agnes Heller [SGA].
Quelle idee appassite: essere pacifisti in un mondo così bellicosoLa cultura progressista deve ripensare se stessa. Lo dice il Vangelo di
porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se
uno offende mia madre gli do’ un pugno»di Antonio Polito Corriere 17.11.14
“È un nuovo totalitarismo la sua ideologia è il terrore”
Secondo la filosofa ungherese l’unico modo per sconfiggere la jihad è scalfirne sul terreno l’alone magnetico, da grande potenza “Per riuscirci è necessario coinvolgere la Russia”
BENEDETTA TOBAGI Repubblica 18 11 2015
La filosofa ungherese Agnes Heller, allieva di Lucàks, tra le pensatrici più feconde del dopoguerra in campo di filosofia politica e morale, a 87 anni trabocca ancora passione politica e intellettuale. Dopo l’11 settembre, vissuto da vicino come titolare della cattedra Hannah Arendt alla New School for Social Research di New York, in 911: Modernity and Terror (2002) introdusse un’analogia, discussa ma stimolante, tra terrorismo islamista e sistemi totalitari (ebrea scampata all’Olocausto e poi dissidente perseguitata dal regime socialista ungherese, li ha conosciuti da vicino).
Ne è ancora convinta?
«L’islamismo è il nazismo contemporaneo e va combattuto allo stesso modo. Tutti i governi dovrebbero unirsi in una causa comune. Senza ignorare la realtà: naturalmente Assad è un orribile dittatore, ma contro questi terroristi accetterei anche lui. Obama, da buon politico, ha parlato di attacco “al mondo civilizzato”: così include la Russia, che non è una democrazia liberale. Ma dev’essere coinvolta nella lotta al terrorismo. Penso abbia ragione, anche se disprezzo il governo di Putin, come il mio (quello ungherese di Viktor Orbàn, ndr). Ma contro Hitler, Churchill e Roosevelt si allearono con Stalin, mentre i gulag erano pieni».
Nel 2003, con altri intellettuali (Hitchens, Berman, Ignatieff) appoggiò l’attacco all’Iraq per rovesciare Saddam. Guardando indietro, ha cambiato idea?
«Aristotele dice che siamo responsabili delle conseguenze prevedibili delle nostre scelte. Quanto è accaduto dopo era imprevedibile, per me. Mi dispiace. Ero in errore».
Scrive che la guerra al terrorismo non è una guerra culturale.
«Non è una “culture war”. Ma il terrorismo è una cultura. Un’ideologia, un modo di vita, un insieme di convinzioni e doveri, non solo atti di violenza. Per i terroristi è “virtù”, perché uccidono i “crociati”, il nemico assoluto - questo è tipicamente totalitario. Ma ci sono elementi di novità assoluta. Per esempio, l’Is non rappresenta nessuna nazionalità e non è propriamente uno Stato, sebbene si proclami tale: un’orda di fondamentalisti volontari che odia il resto del mondo».
C’è il rischio di cadere in semplificazioni che demonizzano tutto l’-I-slam?
«Islamismo non è Islam, come il leninismo non era il pensiero di Marx, e il nazismo non era Wagner o Nietzsche. Nel XX secolo ci furono essenzialmente ideologie secolari alla base dei totalitarismi, è la prima volta che un fondamentalismo religioso ne diventa il vettore. È basato sull’Islam, lo usa come un’arma - le ideologie sono armi. Le democrazie liberali, i diritti umani e di cittadinanza sono il nemico più grande, più di ebrei e cristiani».
André Glucksmann nel libretto “Dostoevskij in Manhattan” ha scritto che il terrorismo moderno è la piena realizzazione del nichilismo. Con gli omicidi di massa afferma “uccido, dunque sono”. È d’accordo?
«Credo sia un’idea condivisibile. Siamo nel campo del nichilismo radicale: uccidere è un fine in sé. Una fede assoluta nelle loro verità si sposa con il nichilismo. Talvolta si crede siano in totale contrasto, ma in qualche modo i due estremi finiscono per toccarsi».
In un video, un mujaheddin dichiara «la cura per la depressione è la jihad». La violenza colma un vuoto di senso. Cosa possiamo fare?
«Combattere l’Is. È una lezione che ci viene dalla storia. Alla gente piace stare dalla parte del più forte, ama i vincenti, quelli che “fanno le cose”. L’immagine di forza è un fattore d’attrazione magnetico».
Ricorda quanto accadde in Italia con le Brigate Rosse: abbattere il mito della “geometrica potenza” fu essenziale.
«Se combatti gli islamisti, se perdono il loro potere, ne scalfisci l’immagine e la forza d’attrazione viene meno. Il male è una pestilenza. È potere, ed è contagioso».
Si porrà anche in Europa la tentazione del Patriot Act?
«In Europa sono spaventata piuttosto da Marine Le Pen. Anche Orbàn gioca sull’odio, non per gli islamisti, ma per “gli stranieri”, chiunque sia diverso è “nemico”. La sua tradizione, l’estremismo nazionalista, al momento è il pericolo più grande presente in Europa».
Ha insegnato a generazioni di studenti. Lo stato di salute della filosofia oggi?
«Questa è una generazione di filosofi deboli. Per la mia generazione ci sono state molte prove: l’Olocausto, poi le dittature. Per porre domande filosofiche originali, devi avere esperienze storiche e sociali intense. L’orrore terrorismo, i dilemmi che pone, possono innescare riflessioni filosofiche originali. Non si può più rispondere al problema del male solo con Hannah Arendt».
Ma il Califfato sta diventando il nemico di se stesso
Gli ultimi attacchi mostrano anche i limiti di una strategia che punta
all’attenzione dei media. E rischia di fallire come al Qaeda a causa dei conflitti interni
OLIVIER ROY Repubblica
Come ha dichiarato il presidente francese François Hollande, il Paese è in guerra contro lo Stato Islamico. La Francia considera l’Is il più grande nemico da sconfiggere oggi. Lo combatte sulle linee del fronte accanto agli americani in Medio Oriente ed è l’unica nazione occidentale impegnata anche nel Sahel. Gli altri attori impegnati in Medio Oriente ritengono più importanti altri nemici. Il nemico principale di Bashar al-Assad è l’opposizione siriana, oggi presa di mira anche dalla Russia che gli dà manforte. Senza dubbio, Assad trarrebbe grande vantaggio se non ci fosse niente a interporsi tra lui e l’Is. Ciò gli permetterebbe infatti di presentarsi alla comunità internazionale come l’ultimo bastione contro il terrorismo islamico. Il governo turco è stato chiaro: il suo principale nemico è il separatismo curdo. Una vittoria dei curdi siriani sull’Is potrebbe consentire al Pkk, il partito dei lavoratori curdi, di conquistare una terra ben protetta, e di riprendere la sua battaglia contro la Turchia. I curdi, siano essi siriani o iracheni, più che schiacciare l’Is, intendono difendere i loro nuovi confini. Sperano che il mondo arabo si spacchi ancora di più. Gli sciiti iracheni, a prescindere dalle pressioni di cui sono fatti oggetto dall’America, non sembrano pronti a morire per riconquistare Falluja. Difenderanno i confini delle loro aree settarie, e non lasceranno cadere Baghdad, ma non hanno alcuna fretta di riportare la minoranza sunnita nell’arena politica irachena. Per i sauditi, il nemico principale non è l’Is, che rappresenta una forma di radicalismo sunnita che hanno sempre sostenuto. Quindi non agiscono, non lo affrontano, non intervengono: il loro nemico principale resta l’Iran. Dal canto loro, gli iraniani vogliono contenere l’Is ma non necessariamente annientarlo. E poi c’è Israele, che non può che essere lieto di vedere Hezbollah combattere gli arabi, la Siria al tracollo, l’Iran invischiato in una guerra dall’esito incerto e tutti che dimenticano la causa palestinese. In sintesi, nessun attore regionale è disposto a inviare proprie truppe sul terreno per reclamare territori all’Is.
La Francia è forse l’unico Paese a voler annientare l’Is e a cercare di farlo. Solo che non ha i mezzi per poter combattere una simile guerra su due fronti, sia nel Sahel, sia in Medio Oriente. Malgrado ciò, se la Francia è priva di mezzi all’altezza delle sue ambizioni, per fortuna, anche l’Is lo è. Proprio come avvenne con al-Qaeda, i successi dell’Is consistono sempre più nella conquista di titoli sui giornali e nell’attenzione dei social media. Il sistema Is è già arrivato a toccare il fondo. Aveva due punte su cui contare finora: un’espansione territoriale fulminea e il terrore, lo sgomento. L’Is non può definirsi uno “Stato” islamico. È più un califfato, sempre in modalità conquista: occupa nuovi territori, raduna sotto di sé musulmani provenienti da varie parti del pianeta. Questa caratteristica ha calamitato verso l’Is migliaia di volontari, attratti dall’idea di combattere per l’Islam globale, più che per un pezzo di Medio Oriente. Ma la portata dell’Is è circoscritta. Non ci sono più molte aree nelle quali espandersi rivendicando di essere difensori degli arabi sunniti.
L’attacco contro Hezbollah a Beirut, quello contro i russi a Sharm el Sheikh e gli attentati di Parigi hanno tutti il medesimo obiettivo: seminare terrore. Ma, proprio come l’atroce esecuzione del pilota giordano dette slancio al patriottismo perfino tra l’eterogenea popolazione giordana, gli attentati di Parigi trasformeranno la battaglia contro l’Is in una causa nazionale. L’Is andrà a sbattere contro il medesimo muro contro cui sbatté al-Qaeda: il terrorismo globalizzato non è più efficace, da un punto di vista strategico, dei bombardamenti aerei condotti senza il contemporaneo dispiegamento di truppe sul terreno. Proprio come nel caso di al-Qaeda, l’Is non gode di sostegno tra i musulmani che vivono in Europa. E riesce a reclutarne alcuni soltanto ai margini. Il problema, pertanto, adesso è capire come tradurre in azione efficace tutto lo sdegno e l’orrore innescati dagli atroci attentati di venerdì a Parigi. Un’offensiva coordinata dalle potenze locali appare altamente improbabile, tenuto conto delle divergenze nelle loro finalità e motivazioni ultime. Ne consegue che la strada che abbiamo davanti sarà lunga, a meno che l’Is non crolli all’improvviso sotto l’arroganza delle sue stesse aspirazioni espansionistiche o delle tensioni tra le sue reclute straniere e le popolazioni arabe locali. In tutti i casi, l’Is è il peggior nemico di se stesso.
“Quel sangue sul mio quartiere simbolo di convivenza”
La scrittrice francese abita nell’XI arrondissement dove sono avvenuti i massacri. “Gli assassini non possono tollerare l’integrazione pacifica”
FABIO GAMBARO Repubblica
PARIGI La scrittrice Maylis de Kerangal abita a pochi passi dalla rue Alibert et dalla rue de la Fontaine au Roi, le strade dove venerdì sera i terroristi hanno sparato raffiche di Kalashnikov contro bar e ristoranti, seminando morte e terrore. Il suo è il quartiere simbolo della movida notturna della capitale francese, tra la rue Oberkampf e boulevard Voltaire, dove si trova il Bataclan, la sala da concerti che i terroristi islamici hanno scelto per colpire al cuore la voglia di vivere dei giovani parigini. «Abito qui, nell’XI arrondissement, da molti anni. I locali colpiti l’altra sera, Le Carillon, Le Petit Cambodge, La Bonne Bière, la Pizzeria Casa Nostra li conosco bene, ci vado spesso con mio marito e miei figli. Sono posti semplici, dove si sta bene, la gente è simpatica e l’atmosfera è sempre piacevole », racconta l’autrice di Riparare i viventi e Nascita di un ponte (entrambi da Feltrinelli), che in Francia ha appena pubblicato un libro dedicato ai migranti di Lampedusa, A ce stade de la nuit. «Non credo che sia un caso che i terroristi abbiano colpito proprio questa zona di Parigi piena di vita, di bistrot e ristoranti, frequentati soprattutto dai giovani. Qui ogni sera affluiscono moltissime persone per stare assieme, per divertirsi, per rilassarsi. Chi ha sparato voleva spazzare via questa atmosfera di festa. Voleva colpire il divertimento, la musica, la spensieratezza ».
L’XI è anche un quartiere molto meticcio...
«È vero. È una zona di frontiera, tra i quartieri signorili del centro e quelli più popolari della zona nord della capitale. Due universi che si mischiano abbastanza armoniosamente. In questa zona di Parigi convivono classi, razze, culture e religioni diverse. È la Parigi multietnica dove molti negozi e locali sono tenuti da algerini, turchi, cinesi. C’è anche un mercato pieno di vita, colori e profumi in cui tutti si ritrovano. Se gli uomini della jihad hanno attaccato questi luoghi, è proprio perché non possono ammettere l’armonia e la voglia di vivere assieme tra comunità e religioni differenti. Oltre alla vita notturna e alla gioia di vivere dei giovani, i terroristi volevano ferire la coesistenza sociale, etnica, culturale e religiosa. Una coesistenza per loro inconcepibile ».
Con i loro attacchi, i terroristi volevano imporre la paura. Ci sono riusciti?
«Per adesso direi di no. Il giorno dopo, più che la paura dominava la tristezza. Quando, dopo una notte insonne, dopo aver sentito gli echi delle raffiche dei kalashnikov e le sirene delle ambulanze e della polizia, siamo usciti per le strade del quartiere, si respirava un’atmosfera da day after. Un’atmosfera pesante e silenziosa. La città era ferita e sotto shock, ma al contempo si percepiva un forte desiderio di solidarietà e il bisogno di ritrovarsi in una comunità unita. Per esempio, quando siamo andati all’ospedale vicino a casa per donare il sangue, c’erano già moltissimi donatori che erano affluiti spontaneamente. Davanti ai luoghi degli assalti, la visione di morte e desolazione era impressionante. Ma c’era anche molta gente venuta per rendere omaggio alle vittime della strage. Molte persone erano in lacrime di fronte all’ingiustizia di questa morte che ha colpito ciecamente. È assurdo pensare che si possa morire perché ci si è seduti con un’amica ai tavolini di un caffè o perché si è andati a un concerto».
Qual è il sentimento dominate nel quartiere?
«Un’immensa tristezza. Dappertutto si percepisce la prostrazione e lo stupore. E nello stesso tempo una sorta di pace e di raccoglimento. Al di là dello shock e dell’incredulità per tanta violenza e per i tanti morti, nel quartiere non vedo né collera né spirito di vendetta. Vedo invece la volontà di continuare a vivere, comunque e ad ogni costo. Come noi, molti abitanti del quartiere, il giorno dopo sono usciti in strada proprio per non cedere alla paura. Volevamo riprendere possesso della città per non lasciarla in mano ai terroristi. Uscire in strada, tornare a sedersi ai tavolini di un bistrot, entrare nei negozi per fare la spesa è un modo semplice per riappropriarci del nostro spazio e sfidare il terrore. È un modo per riaffermare la nostra libertà di vivere».
Non teme che i massacri perpetrati nel nome dell’islam mettano a rischio la coesistenza tra le comunità di cui parlava?
«Certo è un rischio, ma per ora mi sembra che ciò non stia accadendo. Oggi per le strade del quartiere non c’era nessuna animosità nei confronti dei musulmani. Nessuno li accusa di quanto è accaduto. Per ora dominano la compassione e la solidarietà. Nei prossimi giorni però il mondo politico dovrà essere molto vigile, per difendere l’unione nazionale e la coesione del paese. Deve impedire che la comunità nazionale si spacchi e che i musulmani siano messi all’indice, diventando il capro espiatorio della violenza terrorista. Insomma, la politica deve dimostrarsi forte e all’altezza della situazione, per riuscire a difendere la nostra idea di repubblica, i suoi valori e le sue libertà. Di fronte al terrorismo non bisogna cedere di un millimetro».
L’Equilibrio TRA Libertà e sicurezza
Si è fino ad ora sempre detto che la vittoria dei terroristi sarebbe loro assicurata se lo Stato democratico abdicasse ai suoi fondamenti, rinunciasse alle libertà costituzionali, cancellasse le garanzie riconosciute ai singoli nei confronti dei poteri pubblici.
Vladimiro Zagrebelsky Stampa 18 11 2015
L’Italia si fa vanto di avere combattuto il terrorismo rosso e nero che l’ha insanguinata negli Anni 70 e 80, senza rinunciare ai principi di libertà e democrazia che ne fondano la legittimità costituzionale.
All’epoca vi sono state modifiche legislative per consentire ai poteri pubblici – ciascuno del ruolo che gli è proprio- di affrontare la specificità del fenomeno terroristico.
Ma lo stato di diritto non è diventato uno stato di polizia.
E’ vero che vi è poca analogia con l’attuale attacco che viene portato alla gente nelle nostre città. Ieri a Parigi, altrove prima e forse anche dopo. Ma anche ora resta ineludibile la determinazione del punto di equilibrio, tra il ripristino di un accettabile livello di sicurezza e le garanzie di libertà delle persone. Il primo criterio che rende possibile ammettere straordinarie restrizioni alle libertà costituzionali è quello della loro efficacia. E’ appena ovvio che si parla di efficacia pensando alla capacità delle nuove misure di favorire la identificazione dei terroristi, la prevenzione delle loro azioni, l’arresto dei responsabili e la loro punizione.
Non c’entra con l’efficacia, la presumibile idoneità delle nuove misure a fermare l’emorragia di voti che colpisce il presidente e il suo partito al governo a vantaggio dei partiti rivali. Un elettorato sedotto da proclamazioni marziali e reso irriflessivo dalla paura seminata dai terroristi sembra chiede di farla finita. Ma non vi sono soluzioni facili e risolutive. E le iniziative annunciate, quando alla prova dei fatti si dimostrino inutili, hanno un effetto di ritorno terribile sul terreno della fiducia dei cittadini nella serietà e capacità di chi governa.
Quando invece si pensa a provvedimenti che possano effettivamente essere messi in pratica e risultare efficaci alla prova dei fatti, in situazioni di emergenza e tanto più di emergenza di lunga durata, occorre aprirsi alla discussione e alla decisione. Non c’è dubbio che la situazione che viviamo richieda maggiore efficacia investigativa, preventiva e repressiva e che in qualche misura ne derivi la compressione di talune libertà di cui ordinariamente nei Paesi liberi godiamo. Ma ha senso ed è accettabile che la legge imponga restrizioni se ad esse corrisponda una ragionevole previsione di efficacia. Non se si tratta di propaganda. Non se si tratta solo della rincorsa degli avversari alle prossime elezioni.
Così il socialista presidente Hollande, che nella notte stessa delle stragi di Parigi ha potuto, secondo la Costituzione in vigore, proclamare lo stato di emergenza, con tutti i poteri che esso riconosce alla forza pubblica, chiede ora addirittura che si modifichi la Costituzione per dare ancor maggiori poteri al governo. Ed elenca un’impressionante serie di «dover essere» per la polizia, la magistratura, i servizi di sicurezza. A vedere l’elenco punto per punto si ha la sconfortante impressione di inutilità o impraticabilità. E infastidisce il continuo ripetere, come formula vuota, che tutto avverrà nel rispetto dello stato di diritto. Come se sia compatibile con lo stato di diritto qualsiasi misura, per il solo fatto che viene introdotta con una legge.
Recentemente la Francia ha modificato le sue leggi per consentire ai servizi di sicurezza di utilizzare le più recenti innovazioni tecniche per controllare le comunicazioni di soggetti sospettati di preparare azioni criminali. L’Italia sembra andare nella stessa direzione. Non condivisibili sono le voci che si sono levate per protestare contro la riduzione della riservatezza delle comunicazioni dei cittadini. Non ha senso che lo sviluppo dei mezzi di comunicazione profitti solo a che vi fa ricorso per fini criminali. Naturalmente però è necessario che le attrezzature e le capacità di usarle siano effettivamente rese disponibili. Viene in mente ciò che è stato tante volte lamentato in Italia dalle forze dell’ordine, le cui pattuglie devono ridurre i servizi perché manca la benzina per farle circolare.
La questione dei mezzi materiali è centrale, insieme all’aumento dell’efficienza pratica nel loro uso e nel ricorso agli strumenti previsti dalle leggi. Cosa serve dire ai Francesi che il presidente ha «chiuso le frontiere», se qualche ora dopo uno dei terroristi in fuga, già registrato come pericoloso, è stato identificato in uscita verso il Belgio e lasciato passare? E senza necessità di nuove leggi, già ora se vi è sospetto di detenzione di armi ed esplosivi la polizia, senza necessità di autorizzazione preventiva da parte della magistratura, può procedere a perquisizioni. Quei sospetti di essere collegati con gli ambienti del terrorismo, già segnalati dai servizi di sicurezza, perché hanno potuto spostarsi in Francia e magari arrivarvi dal Belgio con quantità di kalashnikov e di esplosivi? E’ la mancanza di leggi che lo spiega, oppure è la mancanza di coordinamento tra le articolazioni dello Stato o la mancanza di azione?
Insieme ai mezzi materiali (e agli stanziamenti che richiedono) vi sono certo esigenze di strumenti normativi utili ad affrontare la situazione più problematica. Si tratta dei casi in cui a carico di certe persone esistono sospetti o anche gravi sospetti, ma non prove: persone ritenute pericolose che nulla hanno ancora messo in atto che ne consenta l’arresto. A questo proposito val la pena di notare che ai servizi di sicurezza francesi viene addebitato, come prova di inettitudine, il fatto che anche questa volta (ma già nell’attacco all’Hypercacher e a Charlie Hebdo) alcuni dei terroristi erano segnalati e registrati come pericolosi. A ben vedere invece si dovrebbe riconoscere che le indagini dei servizi di sicurezza avevano visto giusto. Ma è mancata da parte della polizia la capacità di neutralizzare la pericolosità rilevata. E’ questo il problema più drammatico per le conseguenze che ne abbiamo visto e per la difficoltà di risolverlo. Occorre provvedere sul piano delle possibilità di agire, oltre che con i controlli, le perquisizioni e le intercettazioni, anche con restrizioni della libertà delle persone, quando si sia in presenza di indizi di pericolosità, ma non di prove di reati commessi. Con il controllo del giudice, misure di sicurezza, previste dalla legge e fondate sulla pericolosità, rappresentano certo una restrizione di diritti, ma per la loro efficacia possono rappresentare un ragionevole equilibrio tra libertà e sicurezza.
“Sbagliato parlare di guerra di religione sono fanatici e noi siamo impotenti”
Il cardinale francese: i terroristi usano la fede in modo distorto, inneggiano ad Allah ma in realtà si appellano a un falso Dio
ORAZIO LA ROCCA Repubblica
CITTÀ DEL VATICANO. Cardinale Poupard, dietro agli attentati di Parigi c’è davvero una guerra di religione?
«No, per carità. È sbagliato parlare di guerre di religione nella tragedia di Parigi, come in altre tragedie simili. Sono massacri senza senso, contro gente inerme, per mano di chi usa la religione in maniera distorta. Sono atti mostruosi per i quali parlare di guerre di religione è fuorviante e pericoloso. Come ricorda il Papa: chi uccide in nome di Dio bestemmia, dice il falso ed agisce in nome di una falsa religione ».
Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la cultura, è uno dei tre cardinali francesi della Curia pontificia. Gli altri due sono Jean-Louis Tauran e Roger Etchegaray. A tre giorni dagli attentati è ancora sotto choc, ma di una cosa si dice certo: «Gli aggressori non hanno agito per motivi di religione. Qui la fede non c’entra nulla, siamo di fronte ad una sorta di terza guerra mondiale: lo ha detto più volte il Papa, ma nessuno lo ha ascoltato seriamente».
Eppure, cardinale, mentre venerdì sera sparavano nei locali parigini i terroristi urlavano «Allah è grande!». Difficile non pensare ad uno scontro di civiltà e di religione.
«È sbagliato parlare di religione. Quella è falsa religione, che con l’islam non ha nulla a che vedere. E chi inneggiava ad Allah mentre ammazzava gente inerme, inneggiava ad un falso Dio. Ha fatto bene Papa Francesco domenica scorsa a ricordare, nell’incontro con la comunità luterana di Roma, quanto in più occasioni ha detto anche Giovanni Paolo II, e cioè che uccidere in nome di Dio è una mostruosità, un peccato ingiustificabile».
Ma allora, chi può esserci dietro a quei killer che comunque si proclamavano seguaci di un islam estremo e radicale?
«Se non sbaglio, parliamo di persone non arrivate da paesi arabi, ma di nativi francesi, nostri connazionali che hanno abbracciato una causa perversa e inumana. È lo stesso scenario che si è verificato in Gran Bretagna, anche lì gli attentatori erano nativi inglesi».
Bisogna quindi avere paura dei figli di seconde e terze generazioni nati nelle comunità di immigrati che si trovano in quasi tutti i Paesi europei, a partire dalla Francia?
«Generalizzare è sempre sbagliato. La gran parte degli immigrati è perfettamente integrata in Francia, come in Italia e come in tutti gli altri paesi a forte presenza di comunità straniere. Ma occorre interrogarci su cosa viene messo in testa a quei giovani figli e nipoti di immigrati che non riescono ad integrarsi, che non trovano lavoro e che diventano facile preda di falsi predicatori e di chi fomenta odio e morte nel nome di un falso Dio. Dobbiamo cercare di capire cosa può causare nella mente di questi giovani, che in genere sono fragili e malleabili, tanto odio e tanta voglia di dare la morte ad innocenti, e che vivono nel loro stesso Paese».
Come ci si può difendere da questi pericoli? La Francia ha risposto agli eccidi di Parigi bombardando i centri dell’Is in Siria.
«Da uomo di Chiesa dico, come insegna la dottrina e il Santo Padre, che al male della guerra si risponde pregando il Dio della pace. Per il resto, di fronte ad atti che rappresentano la negazione dell’umanità, mi sento impotente ed incapace di dare risposte. Provo lo stesso sentimento di smarrimento espresso una decina d’anni fa dal compianto cardinale Carlo Maria Martini che, ad una domanda su come difenderci dai pericoli di attentati di estremisti islamici, rispose con disarmante umana sincerità: “Noi che facciamo tante prediche e innumerevoli sermoni per questi tragici eventi non abbiamo risposte adeguate, siamo come impotenti”. Oggi mi sento come il cardinale Martini».
Subito dopo l’attentato, alcune voci hanno chiesto di rinviare il Giubileo. Il presidente del comitato organizzatore, l’arcivescovo Rino Fisichella, ha escluso che possa essere rinviato. È d’accordo?
«Non ho elementi diretti per dare un giudizio in merito. Ma se chi ha competenze sulla materia giubilare ha deciso che nulla cambi, lo avrà certamente fatto a ragion veduta e in piena coscienza. Per il resto preghiamo il Dio della Misericordia».
La difesa? Prevenzione e intelligence
La strategia. Le scelte possibili sul fronte internodi Christian Rocca Il Sole 17.11.15
Nessuno, figuriamoci io, sa come affrontare il nuovo mondo uscito dall’ennesima strage islamista di Parigi. Non so se avete notato come le risposte di politici, intellettuali ed editorialisti siano unanimi nel condannare l’ideologia di morte dei terroristi islamici, nel sottolineare l’attacco alle libertà e alla tolleranza occidentale di cui Parigi è simbolo e nel promettere che la risposta dovrà essere adeguata, spietata, senza precedenti. Ma nessuno ha proposto nulla di concreto. Nessuno sa che cosa fare. Un piano di azione, purtroppo, non si vede. I populisti in campagna elettorale perenne, anche davanti a tragedie come questa, urlano di rispondere alla guerra con la guerra, ma in realtà nemmeno loro sanno che cosa fare: dove mandi le truppe, chi bombardi, con chi te la prendi?
Ma ora c’è una maggiore consapevolezza. Il direttore di questo giornale, Roberto Napoletano, ha scritto che bisogna “combattere uniti per difendere la civiltà”. Un intellettuale come Claudio Magris ha spiegato che si è aperta la Quarta guerra mondiale (la Terza è quella Fredda), e poco importa se quando lo scrisse Norman Podhoretz nel 2004, cioè undici anni fa, fu preso per un fanatico guerrafondaio. Questo per dire che la guerra è stata dichiarata molti anni fa, ben prima dell’11 settembre 2001 o del 13 novembre 2015, e che la brutalità senza senso manifestata dallo Stato Islamico – le stragi, le decapitazioni, le impiccagioni, la schiavitù, gli stupri, la distruzione del patrimonio artistico – ha reso la minaccia al nostro modo di vivere più difficile da minimizzare e ha anche limitato la solita grottesca ricerca occidentale delle cause di questa manifestazione d’odio e delle nostre presunte colpe.
La cosa più sconcertante è che dopo 14 anni dall’11 settembre, anzi dopo 14 secoli da Maometto, non si sia ancora capito, o non si voglia accettare, che l’Islam non è soltanto una religione spirituale come le altre, ma per una parte consistente dell’élite musulmana anche un sistema politico, una forma di governo e una dottrina totalitaria. Chi si fa saltare in aria e uccide come animali gli “infedeli”, compresi i correligionari musulmani che i terroristi considerano apostati e quindi meritevoli di morte, è una porzione piccolissima del mondo islamico. Ma l’islamismo politico che li permea, li provoca e li accende è un’ideologia maggioritaria, diffusa e anche al governo, nelle sue diverse varianti, nei paesi leader del mondo islamico: l’Arabia Saudita e l’Iran.
Da quasi quarant’anni il terrorismo islamico di varia natura è figlio delle politiche, delle influenze, dei finanziamenti dell’Arabia Saudita wahabita e dell’Iran degli Ayatollah. Due Paesi e due visioni dell’Islam diverse ma impegnati entrambi a radicalizzare lo scontro intra-islamico per continuare la guerra intestina che seguì lo scisma sciita di Alì qualche anno dopo la morte di Maometto. Uno scisma che, ancora una volta, fu sia teologico sia temporale. Di nuovo c’è che da qualche anno si è aperto pure un fronte intra-sunnita per la leadership nel mondo arabo-musulmano, con nuovi attori come il Qatar e la Turchia a far concorrenza all’Arabia Saudita. L’Isis è un problema piccolo, residuale.
La triste verità è che, giusta o sbagliata, l’unica strategia che il mondo occidentale è riuscito ad elaborare contro l’ideologia dell’odio islamista è quella, poi fallita, di George W. Bush e di Tony Blair dopo l’11 settembre del 2001: liberiamo i Paesi mediorientali dai loro despoti, cambiamo i regimi dittatoriali, apriamo le società e soltanto così i popoli oppressi potranno immaginare e costruire un futuro libero e democratico. Al netto degli errori nella realizzazione del piano, e dell’impossibilità di sostenere uno sforzo così grande nel lungo periodo, i leader occidentali post 11 settembre non avevano tenuto conto del fattore religioso: in Medio Oriente, l’Islam è un’ideologia incommensurabilmente più forte e radicata dell’Illuminismo. L’Illuminismo è un sistema di pensiero estraneo in quella parte di mondo. Quelli che noi consideriamo principi universali, come i diritti dell’uomo, non sono affatto universali. Sono semplicemente occidentali.
Da allora le si è tentate tutte. Non ha funzionato la rimozione dei regimi dittatoriali né il tentativo di nation building in Afghanistan e in Iraq, organizzati da Bush, Blair e gran parte delle nazioni europee con l’eccezione di Francia e Germania. Ma non ha funzionato nemmeno il disimpegno obamiano, né l’intervento dall’alto e senza truppe sul terreno per cambiare il regime libico di Gheddafi, voluto da Francia e Germania, oltre che da Obama. Non ha funzionato non fare nulla, non intervenire per niente contro le stragi del dittatore siriano Bashar Assad, e lo vediamo proprio in questi giorni.
Obama sta cercando di coinvolgere l’Iran, con il patto sul nucleare e sulla Siria, ma il risultato è di aver accelerato gli sforzi pro Isis dei sunniti e, come da recente intervista ad Haaretz di uno dei principali leader sauditi, anche la corsa all'atomica dei paesi arabi.
Siamo out of options, non sappiamo più che cosa fare e non sono di aiuto le parole apparentemente di buon senso di Quinn, un personaggio della serie tv Homeland: «Quale strategia? Mi dica qual è la strategia, e le dirò se funziona. Questo è il problema. Perché loro ce l’hanno una strategia: si stanno riunendo a Raqqa a decine di migliaia, si nascondono tra i civili, puliscono le armi, e sanno benissimo perché sono lì. La chiamano la fine dei tempi. A cosa pensate che servano le decapitazioni? Le crocifissioni? La schiavitù? Pensate che si siano inventati questa merda? È tutto nel libro. L’unico libro che hanno mai letto. Lo leggono tutto il tempo, non si fermeranno mai. Sono là per un'unica ragione: morire per il Califfato e creare un mondo senza infedeli. Questa è la loro strategia, è così dal VII secolo. Pensate che poche forze speciali possano scalfirli? Servono duecentomila soldati americani e dovranno restare per sempre sul terreno in modo da garantire sicurezza e sostegno a un eguale numero di dottori e maestri di scuola. Oppure premere il tasto reset e ridurre Raqqa a un parcheggio».
Siamo occidentali, siamo i buoni, non abbiamo forza e convinzione per invadere e occupare i territori dello Stato Islamico a tempo indeterminato e da circa 70 anni non radiamo al suolo le città nemiche. Di nuovo, nessuno sa che cosa fare.
Qualcosa è possibile sul fronte interno, forse. Decuplicare fondi, uomini e mezzi per l’intelligence, fregandosene del Patto di Stabilità. Chi se la prende con gli immigrati, e peggio ancora con chi scappa dall’inferno siriano di Assad e dell’Isis, è ridicolo, disumano e fa finta di non sapere che non serve a niente. Semmai andrebbero chiuse le moschee dove si professa la cultura dell’odio, magari commissariare tutte le altre e metterle assieme a quartieri come Molenbeek sotto il controllo rispettoso ma attento delle forze dell’ordine – del resto mandiamo un prefetto a Roma a sospendere la democrazia per storielle di mazzette, di favori e di assunzioni, potremo ben farlo anche per evitare che sotto casa si inciti alla guerra santa. La prevenzione e l’intelligence, anche invasive, sono la nostra prima e ultima difesa, e personaggi come Snowden e Assange, consapevoli o no, hanno contribuito a indebolirla. Il giurista Philip Bobbitt, nel libro Terror and Consent del 2008, ha spiegato che i metodi antiterrorismo non dovrebbero essere misurati soltanto rispetto alle libertà che queste pratiche potrebbero limitare, ma anche rispetto alle libertà che potrebbero proteggere.
La strategia. Le scelte possibili sul fronte internodi Christian Rocca Il Sole 17.11.15
Nessuno, figuriamoci io, sa come affrontare il nuovo mondo uscito dall’ennesima strage islamista di Parigi. Non so se avete notato come le risposte di politici, intellettuali ed editorialisti siano unanimi nel condannare l’ideologia di morte dei terroristi islamici, nel sottolineare l’attacco alle libertà e alla tolleranza occidentale di cui Parigi è simbolo e nel promettere che la risposta dovrà essere adeguata, spietata, senza precedenti. Ma nessuno ha proposto nulla di concreto. Nessuno sa che cosa fare. Un piano di azione, purtroppo, non si vede. I populisti in campagna elettorale perenne, anche davanti a tragedie come questa, urlano di rispondere alla guerra con la guerra, ma in realtà nemmeno loro sanno che cosa fare: dove mandi le truppe, chi bombardi, con chi te la prendi?
Ma ora c’è una maggiore consapevolezza. Il direttore di questo giornale, Roberto Napoletano, ha scritto che bisogna “combattere uniti per difendere la civiltà”. Un intellettuale come Claudio Magris ha spiegato che si è aperta la Quarta guerra mondiale (la Terza è quella Fredda), e poco importa se quando lo scrisse Norman Podhoretz nel 2004, cioè undici anni fa, fu preso per un fanatico guerrafondaio. Questo per dire che la guerra è stata dichiarata molti anni fa, ben prima dell’11 settembre 2001 o del 13 novembre 2015, e che la brutalità senza senso manifestata dallo Stato Islamico – le stragi, le decapitazioni, le impiccagioni, la schiavitù, gli stupri, la distruzione del patrimonio artistico – ha reso la minaccia al nostro modo di vivere più difficile da minimizzare e ha anche limitato la solita grottesca ricerca occidentale delle cause di questa manifestazione d’odio e delle nostre presunte colpe.
La cosa più sconcertante è che dopo 14 anni dall’11 settembre, anzi dopo 14 secoli da Maometto, non si sia ancora capito, o non si voglia accettare, che l’Islam non è soltanto una religione spirituale come le altre, ma per una parte consistente dell’élite musulmana anche un sistema politico, una forma di governo e una dottrina totalitaria. Chi si fa saltare in aria e uccide come animali gli “infedeli”, compresi i correligionari musulmani che i terroristi considerano apostati e quindi meritevoli di morte, è una porzione piccolissima del mondo islamico. Ma l’islamismo politico che li permea, li provoca e li accende è un’ideologia maggioritaria, diffusa e anche al governo, nelle sue diverse varianti, nei paesi leader del mondo islamico: l’Arabia Saudita e l’Iran.
Da quasi quarant’anni il terrorismo islamico di varia natura è figlio delle politiche, delle influenze, dei finanziamenti dell’Arabia Saudita wahabita e dell’Iran degli Ayatollah. Due Paesi e due visioni dell’Islam diverse ma impegnati entrambi a radicalizzare lo scontro intra-islamico per continuare la guerra intestina che seguì lo scisma sciita di Alì qualche anno dopo la morte di Maometto. Uno scisma che, ancora una volta, fu sia teologico sia temporale. Di nuovo c’è che da qualche anno si è aperto pure un fronte intra-sunnita per la leadership nel mondo arabo-musulmano, con nuovi attori come il Qatar e la Turchia a far concorrenza all’Arabia Saudita. L’Isis è un problema piccolo, residuale.
La triste verità è che, giusta o sbagliata, l’unica strategia che il mondo occidentale è riuscito ad elaborare contro l’ideologia dell’odio islamista è quella, poi fallita, di George W. Bush e di Tony Blair dopo l’11 settembre del 2001: liberiamo i Paesi mediorientali dai loro despoti, cambiamo i regimi dittatoriali, apriamo le società e soltanto così i popoli oppressi potranno immaginare e costruire un futuro libero e democratico. Al netto degli errori nella realizzazione del piano, e dell’impossibilità di sostenere uno sforzo così grande nel lungo periodo, i leader occidentali post 11 settembre non avevano tenuto conto del fattore religioso: in Medio Oriente, l’Islam è un’ideologia incommensurabilmente più forte e radicata dell’Illuminismo. L’Illuminismo è un sistema di pensiero estraneo in quella parte di mondo. Quelli che noi consideriamo principi universali, come i diritti dell’uomo, non sono affatto universali. Sono semplicemente occidentali.
Da allora le si è tentate tutte. Non ha funzionato la rimozione dei regimi dittatoriali né il tentativo di nation building in Afghanistan e in Iraq, organizzati da Bush, Blair e gran parte delle nazioni europee con l’eccezione di Francia e Germania. Ma non ha funzionato nemmeno il disimpegno obamiano, né l’intervento dall’alto e senza truppe sul terreno per cambiare il regime libico di Gheddafi, voluto da Francia e Germania, oltre che da Obama. Non ha funzionato non fare nulla, non intervenire per niente contro le stragi del dittatore siriano Bashar Assad, e lo vediamo proprio in questi giorni.
Obama sta cercando di coinvolgere l’Iran, con il patto sul nucleare e sulla Siria, ma il risultato è di aver accelerato gli sforzi pro Isis dei sunniti e, come da recente intervista ad Haaretz di uno dei principali leader sauditi, anche la corsa all'atomica dei paesi arabi.
Siamo out of options, non sappiamo più che cosa fare e non sono di aiuto le parole apparentemente di buon senso di Quinn, un personaggio della serie tv Homeland: «Quale strategia? Mi dica qual è la strategia, e le dirò se funziona. Questo è il problema. Perché loro ce l’hanno una strategia: si stanno riunendo a Raqqa a decine di migliaia, si nascondono tra i civili, puliscono le armi, e sanno benissimo perché sono lì. La chiamano la fine dei tempi. A cosa pensate che servano le decapitazioni? Le crocifissioni? La schiavitù? Pensate che si siano inventati questa merda? È tutto nel libro. L’unico libro che hanno mai letto. Lo leggono tutto il tempo, non si fermeranno mai. Sono là per un'unica ragione: morire per il Califfato e creare un mondo senza infedeli. Questa è la loro strategia, è così dal VII secolo. Pensate che poche forze speciali possano scalfirli? Servono duecentomila soldati americani e dovranno restare per sempre sul terreno in modo da garantire sicurezza e sostegno a un eguale numero di dottori e maestri di scuola. Oppure premere il tasto reset e ridurre Raqqa a un parcheggio».
Siamo occidentali, siamo i buoni, non abbiamo forza e convinzione per invadere e occupare i territori dello Stato Islamico a tempo indeterminato e da circa 70 anni non radiamo al suolo le città nemiche. Di nuovo, nessuno sa che cosa fare.
Qualcosa è possibile sul fronte interno, forse. Decuplicare fondi, uomini e mezzi per l’intelligence, fregandosene del Patto di Stabilità. Chi se la prende con gli immigrati, e peggio ancora con chi scappa dall’inferno siriano di Assad e dell’Isis, è ridicolo, disumano e fa finta di non sapere che non serve a niente. Semmai andrebbero chiuse le moschee dove si professa la cultura dell’odio, magari commissariare tutte le altre e metterle assieme a quartieri come Molenbeek sotto il controllo rispettoso ma attento delle forze dell’ordine – del resto mandiamo un prefetto a Roma a sospendere la democrazia per storielle di mazzette, di favori e di assunzioni, potremo ben farlo anche per evitare che sotto casa si inciti alla guerra santa. La prevenzione e l’intelligence, anche invasive, sono la nostra prima e ultima difesa, e personaggi come Snowden e Assange, consapevoli o no, hanno contribuito a indebolirla. Il giurista Philip Bobbitt, nel libro Terror and Consent del 2008, ha spiegato che i metodi antiterrorismo non dovrebbero essere misurati soltanto rispetto alle libertà che queste pratiche potrebbero limitare, ma anche rispetto alle libertà che potrebbero proteggere.
Scacco al terrore in quattro mosse
di Lucio Caracciolo Repubblica 17.11.15
IN QUESTA battaglia la vittoria non dipende dai carnefici ma dalle vittime. I terroristi non possono vincere. Non hanno i mezzi per sopraffarci, per governarci. La bandiera nera non sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla “guerra santa”.
SE CI FAREMO ipnotizzare dal nemico non perderemo solo la guerra. Molto peggio: perderemo noi stessi, ovvero quel che resta delle nostre libertà. Se invece sapremo leggere la cifra di questa sfida e reggere nel tempo agli attacchi con cui i jihadisti cercheranno di convertirci alla loro barbarie, finiremo per averne ragione.
Conviene perciò chiedersi chi siano e quali progetti abbiano i nostri nemici.
I jihadisti sono umani. Certo, usano tecniche disumane. Molti (non tutti) paiono ubriachi di fanatismo. Ma non sono insensibili alla fama, al denaro e al potere. Si occupano anzi di accumularne. In attesa di farsi trovare dalla parte giusta allo scoccare dell’Apocalisse. L’ideologia da fine del mondo è un formidabile magnete, capace di attrarre non solo islamisti radicali emarginati nelle nostre periferie estreme, ma anche figli della buona borghesia europea in cerca di avventura. Persino atei, cristiani, ebrei. A ricordarci quanto fragili e sempre revocabili siano le fondamenta della nostra civiltà.
Sarebbe ingenuo scambiare la propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi per strategia. Il califfato universale è un riferimento metapolitico evocato a fini seduttivi da chi sa di non poterlo avvicinare.
L’obiettivo dello Stato Islamico non è la conquista di Roma, di Parigi o di Washington. È anzitutto di radicarsi nel territorio a cavallo dell’ormai inesistente frontiera fra due Stati defunti — Siria ed Iraq — espellendone o liquidandone le minoranze refrattarie al proprio dominio. A cominciare dagli arcinemici: i musulmani sciiti. Da questo Stato in fieri e grazie al suo marchio vincente il “califfato” mira ad espandere la propria influenza nel mondo sunnita.
Nel loro territorio i jihadisti di al-Baghdadi si dedicano a gestire traffici d’ogni genere — dagli idrocarburi ai reperti archeologici, dalle armi alle droghe e agli esseri umani — i cui mercati di sbocco sono tutti in Occidente. Quando ci interroghiamo sui loro finanziatori, alla lunga lista di entità islamiste e petromonarchie sunnite dobbiamo aggiungere noi stessi.
Di qui alcune conseguenze operative per evitare di suicidarci in questo scontro di lungo periodo, che ci impone pazienza, freddezza, capacità di assorbire attacchi e provocazioni.
Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità. Ma non abbiamo mezzi, uomini e volontà per ingaggiare una grande guerra “stivali per terra” nei deserti mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio.
Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare. Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno alimentato i seguaci del “califfo”. Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi — americani e britannici su tutti — hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano contribuito a nutrire. Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga con l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista. Infine, è ovvio che su questo scacchiere russi e iraniani sono risorse, non avversari. Fare la guerra fredda a Putin e la guerra calda al “califfo”, insieme trattando i persiani da appestati, è poco intelligente.
Terzo. Serrare le file fra tutti gli alleati sul fronte dell’intelligence e delle polizie. Siamo lontani da un’effettiva cooperazione. Un esempio per tutti. Il giorno prima della catena di attentati a Parigi i carabinieri del Ros, insieme alle polizie britannica, norvegese, finlandese, tedesca e svizzera, avevano messo le mani su una rete di sedici jihadisti curdi e un kosovaro, dopo un’indagine di cinque anni condotta soprattutto sulla Rete (“Operazione Jweb”). A coordinare i terroristi era il famigerato mullah Krekar. Non da chissà quale anfratto mediorientale, ma dal suo carcere norvegese. Appartamento di tre stanze e servizi, dal quale — grazie ai laschi standard norvegesi — era in costante contatto in codice via Internet con i suoi diciassette apostoli, e chissà quanti altri. Finché i partner europei e atlantici continueranno a muoversi ciascuno per suo conto e con i suoi metodi, sarà arduo prevenire gli attacchi terroristici.
Quarto, ma non ultimo per rilievo. Resistere alle tentazioni razziste, rilanciate da media in cerca di visibilità. Le equazioni arabo musulmano=terrorista e (peggio) rifugiato=jihadista oltre che false sono pericolose. Manna per la propaganda “califfale”. E conferma che sul decisivo fronte della comunicazione spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi.
di Lucio Caracciolo Repubblica 17.11.15
IN QUESTA battaglia la vittoria non dipende dai carnefici ma dalle vittime. I terroristi non possono vincere. Non hanno i mezzi per sopraffarci, per governarci. La bandiera nera non sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla “guerra santa”.
SE CI FAREMO ipnotizzare dal nemico non perderemo solo la guerra. Molto peggio: perderemo noi stessi, ovvero quel che resta delle nostre libertà. Se invece sapremo leggere la cifra di questa sfida e reggere nel tempo agli attacchi con cui i jihadisti cercheranno di convertirci alla loro barbarie, finiremo per averne ragione.
Conviene perciò chiedersi chi siano e quali progetti abbiano i nostri nemici.
I jihadisti sono umani. Certo, usano tecniche disumane. Molti (non tutti) paiono ubriachi di fanatismo. Ma non sono insensibili alla fama, al denaro e al potere. Si occupano anzi di accumularne. In attesa di farsi trovare dalla parte giusta allo scoccare dell’Apocalisse. L’ideologia da fine del mondo è un formidabile magnete, capace di attrarre non solo islamisti radicali emarginati nelle nostre periferie estreme, ma anche figli della buona borghesia europea in cerca di avventura. Persino atei, cristiani, ebrei. A ricordarci quanto fragili e sempre revocabili siano le fondamenta della nostra civiltà.
Sarebbe ingenuo scambiare la propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi per strategia. Il califfato universale è un riferimento metapolitico evocato a fini seduttivi da chi sa di non poterlo avvicinare.
L’obiettivo dello Stato Islamico non è la conquista di Roma, di Parigi o di Washington. È anzitutto di radicarsi nel territorio a cavallo dell’ormai inesistente frontiera fra due Stati defunti — Siria ed Iraq — espellendone o liquidandone le minoranze refrattarie al proprio dominio. A cominciare dagli arcinemici: i musulmani sciiti. Da questo Stato in fieri e grazie al suo marchio vincente il “califfato” mira ad espandere la propria influenza nel mondo sunnita.
Nel loro territorio i jihadisti di al-Baghdadi si dedicano a gestire traffici d’ogni genere — dagli idrocarburi ai reperti archeologici, dalle armi alle droghe e agli esseri umani — i cui mercati di sbocco sono tutti in Occidente. Quando ci interroghiamo sui loro finanziatori, alla lunga lista di entità islamiste e petromonarchie sunnite dobbiamo aggiungere noi stessi.
Di qui alcune conseguenze operative per evitare di suicidarci in questo scontro di lungo periodo, che ci impone pazienza, freddezza, capacità di assorbire attacchi e provocazioni.
Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità. Ma non abbiamo mezzi, uomini e volontà per ingaggiare una grande guerra “stivali per terra” nei deserti mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio.
Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare. Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno alimentato i seguaci del “califfo”. Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi — americani e britannici su tutti — hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano contribuito a nutrire. Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga con l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista. Infine, è ovvio che su questo scacchiere russi e iraniani sono risorse, non avversari. Fare la guerra fredda a Putin e la guerra calda al “califfo”, insieme trattando i persiani da appestati, è poco intelligente.
Terzo. Serrare le file fra tutti gli alleati sul fronte dell’intelligence e delle polizie. Siamo lontani da un’effettiva cooperazione. Un esempio per tutti. Il giorno prima della catena di attentati a Parigi i carabinieri del Ros, insieme alle polizie britannica, norvegese, finlandese, tedesca e svizzera, avevano messo le mani su una rete di sedici jihadisti curdi e un kosovaro, dopo un’indagine di cinque anni condotta soprattutto sulla Rete (“Operazione Jweb”). A coordinare i terroristi era il famigerato mullah Krekar. Non da chissà quale anfratto mediorientale, ma dal suo carcere norvegese. Appartamento di tre stanze e servizi, dal quale — grazie ai laschi standard norvegesi — era in costante contatto in codice via Internet con i suoi diciassette apostoli, e chissà quanti altri. Finché i partner europei e atlantici continueranno a muoversi ciascuno per suo conto e con i suoi metodi, sarà arduo prevenire gli attacchi terroristici.
Quarto, ma non ultimo per rilievo. Resistere alle tentazioni razziste, rilanciate da media in cerca di visibilità. Le equazioni arabo musulmano=terrorista e (peggio) rifugiato=jihadista oltre che false sono pericolose. Manna per la propaganda “califfale”. E conferma che sul decisivo fronte della comunicazione spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi.
La guerra dell’Isis. Come farla e vincerla
risponde Sergio Romano Corriere 17.11.15
Dopo i fatti di Parigi, ho ascoltato con sorpresa in tv un commentatore affermare che l’opzione bellica va respinta e ricercata una soluzione politica, che non ho capito quale possa essere, a meno che non intendesse dire di offrire all’Isis la possibilità di un resa onorevole con la contestuale cessazione dell’azione terroristica. Mi sembra però improbabile che l’Isis accetti, considerato il disprezzo della vita altrui, ma anche della propria, e l’idea del sacrificio estremo, per rendersi graditi ad Allah. È difficile per noi occidentali comprendere la mentalità di gente animata dal fanatismo religioso. Non sarebbe possibile neanche iniziare una qualunque forma di dialogo. Quale altra soluzione politica è possibile allora con l’Isis, se non il riconoscimento di fatto del Califfato islamico, delle città e dei territori conquistati a danno di Iraq e Siria, condannando quegli Stati alla cancellazione o alla perpetua minaccia della sopraffazione?
Alberto VoltaggioCaro Voltaggio,
Forse il commentatore ascoltato alla televisione pensava alle guerre d’altri tempi, quando gli ambasciatori chiedevano udienza per consegnare al ministro degli Esteri di uno Stato la formale dichiarazione con cui si annunciava che le operazioni militari sarebbero cominciate a un’ora prefissata del giorno seguente. Questa prassi cominciò a traballare quando il Giappone, con qualche buona ragione, troncò un inutile negoziato e iniziò le operazioni militari contro la Russia l’8 febbraio 1904; e aveva già subito altri colpi quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. La guerra dell’Isis è cominciata quando lo Stato Islamico occupò Mosul nel giugno 2014 e si è progressivamente allargata sino alla nascita, negli scorsi mesi, di una grande coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Questa guerra è diversa da altri conflitti del passato perché è asimmetrica, vale a dire combattuta dai due campi con armi diverse: i droni, i missili e i bombardieri in quello degli occidentali, il kalashnikov, il giubbotto esplosivo, il coltello di Jihadi John e altri strumenti di tortura fisica e psicologica in quello degli islamisti. Collocati in questa prospettiva, anche gli attacchi terroristici del 13 novembre sono una battaglia. Sul terreno, in Siria e in Iraq, l’Isis sta incassando colpi sempre più duri e potrebbe perdere nelle prossime settimane sia Mosul in Iraq, sia Raqqa (la sua capitale) in Siria. L’obiettivo strategico dell’operazione di Parigi mi sembra evidente: trasportare la battaglia sul fronte interno del nemico. La Francia ha una popolazione musulmana che corrisponde probabilmente al 7/8% della popolazione. Se gli attentati faranno lievitare i controlli di polizia e i sentimenti di diffidenza della società francese per la comunità islamica, sarà tanto più facile per l’Isis installare le sue quinte colonne in Francia e fare incetta di foreign fighters.
Per far fronte a questa minaccia occorre rafforzare le misure di sicurezza, ma soprattutto debellare l’Isis sul terreno. Se l’organizzazione, per esistere, ha bisogno di un territorio, occorre combatterla là dove è riuscita a installarsi con le proprie istituzioni e le proprie forze armate. Se questo non è ancora accaduto, la responsabilità è di coloro che si oppongono alla nascita di un fronte comune in cui tutti i nemici dell’Isis, dal presidente siriano al presidente russo, possano fare la loro parte.
risponde Sergio Romano Corriere 17.11.15
Dopo i fatti di Parigi, ho ascoltato con sorpresa in tv un commentatore affermare che l’opzione bellica va respinta e ricercata una soluzione politica, che non ho capito quale possa essere, a meno che non intendesse dire di offrire all’Isis la possibilità di un resa onorevole con la contestuale cessazione dell’azione terroristica. Mi sembra però improbabile che l’Isis accetti, considerato il disprezzo della vita altrui, ma anche della propria, e l’idea del sacrificio estremo, per rendersi graditi ad Allah. È difficile per noi occidentali comprendere la mentalità di gente animata dal fanatismo religioso. Non sarebbe possibile neanche iniziare una qualunque forma di dialogo. Quale altra soluzione politica è possibile allora con l’Isis, se non il riconoscimento di fatto del Califfato islamico, delle città e dei territori conquistati a danno di Iraq e Siria, condannando quegli Stati alla cancellazione o alla perpetua minaccia della sopraffazione?
Alberto VoltaggioCaro Voltaggio,
Forse il commentatore ascoltato alla televisione pensava alle guerre d’altri tempi, quando gli ambasciatori chiedevano udienza per consegnare al ministro degli Esteri di uno Stato la formale dichiarazione con cui si annunciava che le operazioni militari sarebbero cominciate a un’ora prefissata del giorno seguente. Questa prassi cominciò a traballare quando il Giappone, con qualche buona ragione, troncò un inutile negoziato e iniziò le operazioni militari contro la Russia l’8 febbraio 1904; e aveva già subito altri colpi quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. La guerra dell’Isis è cominciata quando lo Stato Islamico occupò Mosul nel giugno 2014 e si è progressivamente allargata sino alla nascita, negli scorsi mesi, di una grande coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Questa guerra è diversa da altri conflitti del passato perché è asimmetrica, vale a dire combattuta dai due campi con armi diverse: i droni, i missili e i bombardieri in quello degli occidentali, il kalashnikov, il giubbotto esplosivo, il coltello di Jihadi John e altri strumenti di tortura fisica e psicologica in quello degli islamisti. Collocati in questa prospettiva, anche gli attacchi terroristici del 13 novembre sono una battaglia. Sul terreno, in Siria e in Iraq, l’Isis sta incassando colpi sempre più duri e potrebbe perdere nelle prossime settimane sia Mosul in Iraq, sia Raqqa (la sua capitale) in Siria. L’obiettivo strategico dell’operazione di Parigi mi sembra evidente: trasportare la battaglia sul fronte interno del nemico. La Francia ha una popolazione musulmana che corrisponde probabilmente al 7/8% della popolazione. Se gli attentati faranno lievitare i controlli di polizia e i sentimenti di diffidenza della società francese per la comunità islamica, sarà tanto più facile per l’Isis installare le sue quinte colonne in Francia e fare incetta di foreign fighters.
Per far fronte a questa minaccia occorre rafforzare le misure di sicurezza, ma soprattutto debellare l’Isis sul terreno. Se l’organizzazione, per esistere, ha bisogno di un territorio, occorre combatterla là dove è riuscita a installarsi con le proprie istituzioni e le proprie forze armate. Se questo non è ancora accaduto, la responsabilità è di coloro che si oppongono alla nascita di un fronte comune in cui tutti i nemici dell’Isis, dal presidente siriano al presidente russo, possano fare la loro parte.
La strategia del caos
di Manlio Dinucci il manifesto 17.11.15
Bandiere a mezz’asta nei paesi Nato per «l’11 Settembre della Francia», mentre il presidente Obama annunciata ai media: «Vi forniremo accurate informazioni su chi è responsabile». Non c’è bisogno di aspettare, è già chiaro. L’ennesima strage di innocenti è stata provocata dalla serie di bombe a frammentazione geopolitica, fatte esplodere secondo una precisa strategia. Quella attuata da quando gli Usa, vinto il confronto con l’Urss, si sono autonominati «il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione — politica, economica e militare — realmente globali», proponendosi di «impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione – l’Europa occidentale, l’Asia orientale, il territorio dell’ex Unione sovietica e l’Asia sud-occidentale – le cui risorse sarebbero sufficienti a generare una potenza globale».
A tal fine gli Usa hanno riorientato dal 1991 la propria strategia e, accordandosi con le potenze europee, quella della Nato. Da allora sono stati frammentati o demoliti con la guerra (aperta e coperta), uno dopo l’altro, gli stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale – Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina e altri – mentre altri ancora (tra cui l’Iran) sono nel mirino.
Queste guerre, che hanno mietuto milioni di vittime, hanno disgregato intere società, creando una enorme massa di disperati, la cui frustrazione e ribellione sfociano da un lato in reale resistenza, ma dall’altro vengono sfruttate dalla Cia e altri servizi segreti (compresi quelli francesi) per irretire combattenti in una «jihad» di fatto funzionale alla strategia Usa/Nato.
Si è così formata una armata ombra, costituita da gruppi islamici (spesso concorrenti) impiegati per minare dall’interno lo Stato libico mentre la Nato lo attaccava, quindi per una analoga operazione in Siria e Iraq.
Da questa è nato l’Isis, nel quale sono confluiti «foreign fighter» tra cui agenti di servizi segreti, che ha ricevuto miliardi di dollari e moderne armi dall’Arabia saudita e da altre monarchie arabe, alleate degli Usa e in particolare della Francia.
Strategia non nuova: oltre 35 anni fa, per far cadere l’Urss nella «trappola afghana», furono reclutati tramite la Cia decine di migliaia di mujaheddin da oltre 40 paesi. Tra questi il ricco saudita Osama bin Laden, giunto in Afghanistan con 4 mila uomini, lo stesso che dopo avrebbe fondato Al Qaeda divenendo «nemico numero uno» degli Usa.
Washington non è l’apprendista stregone incapace di controllare le forze messe in moto. È il centro motore di una strategia che, demolendo interi Stati, provoca una caotica reazione a catena di divisioni e conflitti da utilizzare secondo l’antico metodo del «divide et impera».
L’attacco terroristico di Parigi, eseguito da una manovalanza convinta di colpire l’odiato Occidente, è avvenuto con perfetto tempismo nel momento in cui la Russia, intervenendo militarmente, ha bloccato il piano Usa/Nato di demolire lo Stato siriano e ha annunciato contromisure militari alla crescente espansione della Nato ad Est. L’attacco terroristico, creando in Europa un clima da stato di assedio, «giustifica» un accelerato potenziamento militare dei paesi europei della Nato, compreso l’aumento della loro spesa militare richiesto dagli Usa, e apre la strada ad altre guerre sotto comando Usa.
La Francia che finora aveva condotto «contro l’Isis in Siria solo attacchi sporadici», scrive il New York Times, ha effettuato domenica notte «come rappresaglia, il più aggressivo attacco aereo contro la città siriana di Raqqa, colpendo obiettivi Isis indicati dagli Stati uniti». Tra questi, specificano funzionari Usa, «alcune cliniche e un museo».
di Manlio Dinucci il manifesto 17.11.15
Bandiere a mezz’asta nei paesi Nato per «l’11 Settembre della Francia», mentre il presidente Obama annunciata ai media: «Vi forniremo accurate informazioni su chi è responsabile». Non c’è bisogno di aspettare, è già chiaro. L’ennesima strage di innocenti è stata provocata dalla serie di bombe a frammentazione geopolitica, fatte esplodere secondo una precisa strategia. Quella attuata da quando gli Usa, vinto il confronto con l’Urss, si sono autonominati «il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione — politica, economica e militare — realmente globali», proponendosi di «impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione – l’Europa occidentale, l’Asia orientale, il territorio dell’ex Unione sovietica e l’Asia sud-occidentale – le cui risorse sarebbero sufficienti a generare una potenza globale».
A tal fine gli Usa hanno riorientato dal 1991 la propria strategia e, accordandosi con le potenze europee, quella della Nato. Da allora sono stati frammentati o demoliti con la guerra (aperta e coperta), uno dopo l’altro, gli stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale – Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina e altri – mentre altri ancora (tra cui l’Iran) sono nel mirino.
Queste guerre, che hanno mietuto milioni di vittime, hanno disgregato intere società, creando una enorme massa di disperati, la cui frustrazione e ribellione sfociano da un lato in reale resistenza, ma dall’altro vengono sfruttate dalla Cia e altri servizi segreti (compresi quelli francesi) per irretire combattenti in una «jihad» di fatto funzionale alla strategia Usa/Nato.
Si è così formata una armata ombra, costituita da gruppi islamici (spesso concorrenti) impiegati per minare dall’interno lo Stato libico mentre la Nato lo attaccava, quindi per una analoga operazione in Siria e Iraq.
Da questa è nato l’Isis, nel quale sono confluiti «foreign fighter» tra cui agenti di servizi segreti, che ha ricevuto miliardi di dollari e moderne armi dall’Arabia saudita e da altre monarchie arabe, alleate degli Usa e in particolare della Francia.
Strategia non nuova: oltre 35 anni fa, per far cadere l’Urss nella «trappola afghana», furono reclutati tramite la Cia decine di migliaia di mujaheddin da oltre 40 paesi. Tra questi il ricco saudita Osama bin Laden, giunto in Afghanistan con 4 mila uomini, lo stesso che dopo avrebbe fondato Al Qaeda divenendo «nemico numero uno» degli Usa.
Washington non è l’apprendista stregone incapace di controllare le forze messe in moto. È il centro motore di una strategia che, demolendo interi Stati, provoca una caotica reazione a catena di divisioni e conflitti da utilizzare secondo l’antico metodo del «divide et impera».
L’attacco terroristico di Parigi, eseguito da una manovalanza convinta di colpire l’odiato Occidente, è avvenuto con perfetto tempismo nel momento in cui la Russia, intervenendo militarmente, ha bloccato il piano Usa/Nato di demolire lo Stato siriano e ha annunciato contromisure militari alla crescente espansione della Nato ad Est. L’attacco terroristico, creando in Europa un clima da stato di assedio, «giustifica» un accelerato potenziamento militare dei paesi europei della Nato, compreso l’aumento della loro spesa militare richiesto dagli Usa, e apre la strada ad altre guerre sotto comando Usa.
La Francia che finora aveva condotto «contro l’Isis in Siria solo attacchi sporadici», scrive il New York Times, ha effettuato domenica notte «come rappresaglia, il più aggressivo attacco aereo contro la città siriana di Raqqa, colpendo obiettivi Isis indicati dagli Stati uniti». Tra questi, specificano funzionari Usa, «alcune cliniche e un museo».
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