"La continua sfida degli aerei russi alla Nato" merita il Pulitzer e fa il paio con le opinioni di Paolo Mieli su chi ha usato il gas nervino in Siria [SGA].
Lo scenario. Le conseguenze dell’abbattimento del caccia vanno oltre la crisi siriana e frenano il riavvicinamento tra la Russia e l’Occidente e la grande coalizione contro il Califfatodi Bernardo Valli Repubblica 25.11.15
IL giallo avvenuto nello spazio aereo, martedi mattina, al di qua o al di là del confine tra Siria e Turchia, ha già serie conseguenze internazionali. Anzitutto mette in periglio la coalizione contro i terroristi dello Stato islamico. Stava per allargarsi, e diventare più potente ed efficace grazie all’adesione della Russia, e adesso tutto appare compromesso. Vladimir Putin era sul punto di unirsi all’alleanza guidata dagli Stati Uniti, spinto dalla strage di Parigi e dal suo aereo esploso con più di duecento passeggeri sul Sinai. In queste ore si dice «pugnalato alle spalle».
IL giallo avvenuto nello spazio aereo, martedi mattina, al di qua o al di là del confine tra Siria e Turchia, ha già serie conseguenze internazionali. Anzitutto mette in periglio la coalizione contro i terroristi dello Stato islamico. Stava per allargarsi, e diventare più potente ed efficace grazie all’adesione della Russia, e adesso tutto appare compromesso. Vladimir Putin era sul punto di unirsi all’alleanza guidata dagli Stati Uniti, spinto dalla strage di Parigi e dal suo aereo esploso con più di duecento passeggeri sul Sinai. In queste ore si dice «pugnalato alle spalle».
Il presidente russo non era un avversario aperto, ma un concorrente
dichiarato della grande armada aerea più chiassosa che efficace creata
da Washington. L’F-16 turco che ha abbattuto con un missile il Sukhoi
Su-24 non solo ha rimesso in discussione l’allargamento dell’alleanza
contro il terrorismo salasfista, ma può pregiudicare la distensione che
si profilava tra l’Occidente e la Russia dopo la lunga “guerra fredda”
cominciata con gli avvenimenti d’Ucraina e prolungatasi fino all’ottobre
scorso con l’intervento a sorpresa di un robusto corpo di spedizione
russo (aereo, navale e di terra) in Siria. Erdogan conta sull’Alleanza
atlantica, di cui il suo paese è un importante membro veterano. Per
Putin quell’affiliazione della Turchia appesantisce invece la
situazione. E certo non l’ha rassicurato la dichiarazione di Barack
Obama che ha riconosciuto nelle ultime ore «il diritto di difendersi
della Turchia». Non è stato un gesto distensivo neppure la decisione del
presidente russo di far salpare per il Medio Oriente l’incrociatore
Moskwa. Più incline a raffreddare i toni è stata la Nato, riunita
d’urgenza a Bruxelles dietro richiesta di Ankara. È stata ecumenica: ha
esortato i due paesi a ritrovare un’intesa.
Si tratta di un giallo perché Ankara sostiene che il Sukhoi Su-24 sia
stato abbattuto dopo ben dieci avvertimenti perché aveva sconfinato
nello spazio aereo turco; e perché Mosca sostiene al contrario che
l’F-16 ha colpito l’aereo russo quando si trovava nello spazio siriano.
Gli apparecchi russi violano spesso i confini. Capita nei Paesi baltici
quando sono diretti a Kaliningrad, l’enclave dove sono acquartierate
numerose loro unità militari. Durante il percorso provocano la Lituania
sorvolando per brevi tratti, senza autorizzazione, il suo territorio.
Sarebbe accaduto di recente anche al confine siriano, da quando Putin ha
deciso di intervenire in Medio Oriente, ma il passaggio dalla
provocazione senza danni al lancio di un missile che disintegra l’aereo
indisciplinato equivale a un atto di guerra.
Nel tentativo di ristabilire le responsabilità, come in un giallo, si
cerca il movente. Il pilota turco dell’F-16 non ha sparato il missile di
propria iniziativa. Per ammissione delle stesse autorità di Ankara gli è
stato ordinato, dopo le dieci intimazioni lanciate in cinque minuti, di
abbattere l’apparecchio indisciplinato. Nel frattempo senz’altro
identificato come russo. Anche se, nonostante Mosca lo neghi, il Sukhoi
Su-24 fosse sconfinato di poco, e in quel momento si trovasse nello
spazio turco, non trattandosi di un nemico dichiarato, ma distratto, al
massimo provocatore, era forse ragionevole non ricorrere a misure
drastiche.
Il movente era tuttavia piuttosto politico. Erdogan non gradisce
l’allargamento della coalizione contro lo Stato islamico. Non vuole che
ne facciano parte la Russia e l’Iran, suo partner del momento. Gli
alleati reali o virtuali non hanno nel conflitto mediorientale gli
stessi nemici. La Russia appoggia Bashar Al Assad, il rais di Damasco,
che la Turchia considera invece un nemico da abbattere o da destituire.
La Russia accusa la Turchia di favorire sottobanco lo Stato islamico che
fa passare il petrolio acquistato di contrabbando in Iraq. Russia e
Turchia non solo non hanno gli stessi nemici. Non hanno neppure gli
stessi alleati.
Gli americani usano i curdi come fanteria. Nessun paese occidentale o
arabo vuole impiegare soldati a terra. Le loro aviazioni si servono in
particolare dei curdi, i quali stanno acquistando prestigio e
indirettamente l’appoggio, che col tempo potrebbe diventare un diritto,
per arrivare a creare un prorio Stato nella futura Siria. La quale si
annuncia come una federazione. Questa prospettiva non va certo a genio
al governo turco che combatte i curdi in patria e nei paesi vicini,
temendo che possano affermarsi.
I turchi accusano i russi di dirigere i loro bombardamenti soprattutto
sui ribelli impegnati contro il regime di Assad e aiutati da Ankara. In
particolare le comunità turcomanne. Uno dei piloti del Sukhoi Su-24
abbattuto sarebbe riuscito a catapultarsi fuori e col paracadute sarebbe
finito in una delle zone che aveva appena bombardato. Sarebbe cosi
caduto nelle mani dei ribelli proturchi. È quel che ha affermato Ahmed
Berri, uno dei capi dell’Esercito libero siriano. Ma sulla sorte dei
piloti del Sukhoi si hanno finora notizie divergenti. Non si conosce con
esattezza la loro sorte. Turchi e russi, destinati a partecipare alla
stessa alleanza, hanno in realtà molti motivi per affrontarsi. I primi
appartengono all’area sunnita, mentre i secondi, i russi, si sono
scoperti amici dell’Iran sciita, che ha come alleati Bashar Al Assad e
gli Hezbollah libanesi. Il Sukhoi Su-24 abbattuto al di qua o al di là
del confine tra Siria e Turchia è servito a frenare un’alleanza che
infastidiva Ankara. Ma se questo era il movente le conseguenze vanno al
di là del conflitto mediorientale. In questi giorni in Crimea, in
seguito a un probabile sabotaggio, è venuta a mancare l’energia. Per
Vladimir Putin, che ha annesso la provincia con la forza, è stato un
insulto. Che ha peggiorato i rapporti con gli occidentali anche su quel
fronte. Il quale stava stabilizzandosi. Ed è naturale che i sospetti
ricadano sugli ucraini, i quali come i turchi non vogliono che Vladimir
Putin raggiunga un’intesa con Barack Obama, il loro protettore. La
tragedia mediorientale non trattiene i suoi veleni. Atteso oggi a Mosca
per consolidare l’alleanza tra l’Occidente e la Russia, François
Hollande dovrà faticare per tentare di ricurcirla.
un drammatico doppio gioco che rischia di favorire l’isis
di Franco Venturini Corriere 25.11.15
Diplomazia e grilletto facile vanno poco d’accordo, e così due
comportamenti irresponsabili da parte di Russia e Turchia hanno lanciato
l’ennesimo siluro contro il tentativo di far nascere una «grande
coalizione»anti Isis capace di superare rivalità, conti da regolare e
interessi contrapposti.
Passa quasi in secondo piano, nell’emergenza che il Califfato ci ha
imposto, la consapevolezza che un aereo militare della Nato ne ha
abbattuto uno russo, come poteva accadere soltanto nei momenti più bui
della Guerra fredda. Oggi siamo immersi in una storia che non è più
bipolare, che sa di caos e di terrore, e sarà difficile, con simili
compagni di strada e con altri ancor più settari di loro, riuscire a
combattere davvero quella «guerra comune» invocata da François Hollande
nell’incontro di ieri con Obama.
Credere all’una o all’altra versione sulla fine dell’ Su-24 russo conta
poco. Dai primi di ottobre i cacciabombardieri di Mosca violano lo
spazio aereo turco per poi lanciare i loro attacchi in territorio
siriano. Dai primi di ottobre i turchi minacciano fuoco e fiamme e
stanno bene attenti a difendere i loro interessi. Come ieri e come nei
giorni precedenti, quando i russi avevano bombardato ribelli turcomanni e
Ankara, che li considera turchi, aveva convocato l’ambasciatore russo
per ammonirlo. Come ieri e come da molti mesi, quando la Turchia reclama
una no fly zone nel nord della Siria che in realtà servirebbe a tenere a
bada i curdi, ma che ora può essere sostenuta con la forza
dell’esempio. Per questo l’uomo forte Erdogan aveva dato l’ordine di
sparare, la prossima volta. Per questo l’uomo forte Putin aveva dato
l’ordine di non rinunciare a quelle piccole provocazioni. Potevano due
autocrati comportarsi diversamente, non era forse fatale lo scontro tra
le loro superbie e le loro diverse strategie?
Ora che il danno è fatto le parole devono seguire il loro corso. Alla
Turchia che proclama di aver soltanto esercitato i suoi diritti Putin
risponde accusandola di essere «complice dei terroristi» e di aver
colpito la Russia alla schiena. Promette conseguenze, e annulla il
viaggio che Lavrov doveva compiere oggi ad Ankara. Un uomo forte non può
fare di meno, non può usare un linguaggio diverso. Ma quel che balza
agli occhi dietro l’aereo abbattuto è l’ambiguità delle due parti, il
loro muoversi all’interno di un proprio sistema di interessi che nulla,
nemmeno gli attentati terroristici, è sin qui riuscito a scalfire.
La Russia «gioca» da molti mesi con gli aerei occidentali, dal Baltico
alla Scozia, sfiorando i limiti degli spazi aerei a lei vietati. Ma
quella è una arroganza da ascrivere alla crisi ucraina, e che peraltro
risponde ad altre arroganze. Da settembre, da quando è intervenuto in
Siria cogliendo l’America in contropiede, Putin ha invece messo la sua
forza militare al servizio di due obiettivi ben precisi: puntellare
Bashar al Assad colpendo tutti i suoi nemici e fare della Russia un
interlocutore indispensabile nel futuro — oppure nella disgregazione
territoriale — della Siria. Soltanto dopo l’attentato contro il charter
russo l’Isis è diventato un bersaglio privilegiato. Senza però cambiare
la strategia di fondo, nemmeno al tavolo negoziale di Vienna.
Ma se Putin è ambiguo, Erdogan è il suo maestro. Nemica giurata di Assad
dopo essere stata sua amica, la Turchia si è disinteressata dell’Isis
fino agli attentati di cui è rimasta vittima negli ultimi mesi. E anche
quando la sunnita Turchia ha cominciato a lottare contro il sunnita
Califfato rinunciando (sembra) ad appoggiarlo in segreto, il chiodo
fisso di Erdogan ha continuato ad essere la guerra ai curdi per evitare
che domani possa nascere un grande Kurdistan appoggiato dal casalingo
Pkk.
Non può non sembrare ingenuo, l’appello che Hollande è andato a portare a
Washington, che porterà giovedì a Mosca e che ripeterà domenica al
cinese Xi Linping atteso a Parigi. Combattere «insieme» l’Isis resta un
rompicapo, perché non ci sono soltanto Russia e Turchia. Che dire
dell’Arabia Saudita che ha finanziato tutti i jihadismi sunniti ma oggi è
preziosa per tentare di avviare un dialogo con gli sciiti? Che dire
dell’Iran, che essendo sciita sostiene Assad con più determinazione del
Cremlino? Questo doppio gioco collettivo rischia di diventare la
vittoria dell’Isis, malgrado le bombe e con o senza scarponi nella
sabbia.
Le sanzioni alla Russia una chiave per la Siria
di Moisés Naím Repubblica 25.11.15
LA MATTINA l’Unione Europea fa fronte al terrorismo islamista e la sera
cerca di contenere l’imperialismo russo. Così, in Siria, l’Europa si
ritrova militarmente alleata alla Russia di Vladimir Putin, mentre in
Ucraina cerca di contenere gli appetiti imperiali di… Vladimir Putin.
In Siria la forza aerea russa bombarda i bastioni dello Stato islamico
in stretto coordinamento con le forze militari dei Paesi che fanno parte
della coalizione anti Is. In rappresaglia alla condotta bellicosa del
Cremlino in Europa orientale, l’Unione Europea ha imposto alla Russia
severe sanzioni economiche. Con la sua decisione di prendersi la Crimea,
destabilizzare l’Ucraina per riportarla nella sua sfera di influenza e
minacciare i Paesi baltici, Putin è riuscito a fare quello che decenni
di riunioni al vertice e manifesti non erano riusciti a ottenere:
un’Europa unita e capace di prendere decisioni difficili in politica
estera, e mantenerle con sorprendente disciplina.
Anche lo Stato islamico è riuscito a produrre cambiamenti non meno
sorprendenti: un’Europa potenzialmente disposta ad allearsi con la
Russia per fronteggiare militarmente la minaccia jihadista in Siria. Ma
non è tutto: Daesh è riuscito a fare in modo addirittura che due nemici
giurati come Iran e Stati Uniti coordinassero le proprie azioni militari
in Siria e in Iraq contro di lui. E ha indotto Iran e Russia ad
abbandonare le diffidenze e rivalità reciproche per collaborare alla
difesa del regime di Bashar al Assad.
Tutto questo era inimmaginabile fino a poco tempo fa. Ed è una
situazione, oltre che sorprendente e ingarbugliata, anche molto
instabile. È poco probabile che questi accomodamenti di convenienza fra
nazioni che continuano a perseguire interessi diversissimi possano
preservare queste alleanze e accordi nel lungo periodo. È improbabile
(anche se non impossibile) anche che l’Europa mantenga a lungo le
sanzioni contro la Russia. Dal punto di vista formale, la loro rimozione
dipende dal raggiungimento di un cessate il fuoco permanente fra il
governo ucraino e i movimenti separatisti armati e patrocinati dal
Cremlino. L’attuale regime di sanzioni contro la Russia scadrà a
gennaio, e anche se i leader europei hanno dichiarato la loro intenzione
di prorogarlo, gli attentati di Parigi e la sensazione generalizzata
che la priorità sia rafforzare le difese dell’Europa contro il
terrorismo islamista stanno minando il consenso per una linea dura
contro il Cremlino. È evidente che gli europei abbiano molta più paura
del terrorismo islamista che dell’imperialismo russo.
Peraltro, Putin sembra aver abbandonato i suoi atteggiamenti più
belligeranti ed espansionisti. La Russia ha già ritirato una parte
importante delle sue truppe dalla zona del conflitto e i leader
separatisti ucraini (che sono controllati dal Cremlino) dichiarano
sempre più spesso che la guerra è finita. Recentemente la Russia ha
sorpreso il governo di Kiev offrendogli aiuto per ristrutturare il suo
debito estero e sostegno per stabilizzare l’economia. E il Putin che
partecipa ai vertici internazionali è meno pugnace del Putin che
pronunciava discorsi minacciosi sulla “Nuova Russia” decisa a recuperare
territori perduti e protagonismo sulla scena globale. Ma quello era il
Putin che godeva della sicurezza che gli dava vendere petrolio a più di
100 dollari al barile (ora il prezzo al barile è di 60 dollari, e Mosca
avrebbe bisogno che salisse oltre i 110 per riportare in equilibrio i
suoi conti).
Non c’è da stupirsi, quindi, che Putin abbia interesse a fare quanto
serve per ottenere la rimozione delle sanzioni, che sono costate finora
all’economia russa l’1 per cento del prodotto interno lordo.
È possibile che l’avventura militare di Putin in Siria serva a
«comprare» alla Russia un alleggerimento delle sanzioni. È plausibile
che una delle motivazioni dell’intervento militare nel Paese
mediorientale fosse quella di impedire la caduta di Assad, ma non c’è
dubbio che un’altra ragione era quella di trasformarsi in un attore
indispensabile in quel drammatico scacchiere, insieme all’Europa, agli
Stati Uniti e agli altri Paesi della regione coinvolti nel conflitto.
Forse nei negoziati non viene detto in modo così brutalmente esplicito
che l’alleanza contro il terrorismo islamista non può accompagnarsi alle
sanzioni imposte alla Russia dai suoi alleati per le vicende ucraine.
Però è evidente che ora Putin ha in mano una carta che userà senz’altro.
Tuttavia, per il momento Europa e Stati Uniti hanno annunciato che
prorogheranno l’embargo alla Russia per almeno altri sei mesi. Così, se
l’Europa riuscirà a restare unita, non rimuoverà prematuramente le
sanzioni e continuerà a fare pressioni perché Putin rinunci alle sue
pretese di «recuperare» l’Ucraina, forse si riuscirà a ottenere un buon
risultato: limitare per un certo tempo le avventure imperiali di Putin
in Europa e conquistarsi un importante alleato nella lotta contro lo
Stato islamico. Non sarebbe male.
Twitter @ moisesnaim Traduzione di Fabio Galimberti
Come salvare la coalizione anti-Isis
di Stefano Stefanini La Stampa 25.11.15
L’abbattimento del Sukhoi Su-24 da parte della contraerea turca non ha
nulla a che vedere con le criticità del rapporto fra Occidente e Russia,
che restano ma riguardano Ucraina e tenuta delle sanzioni. Ha tutto a
che vedere con i rischi di operazioni militari contigue che non
comunicano sufficientemente fra loro. Ha molto a che vedere con il
paradosso siriano, dove il nemico è stato identificato nello Stato
Islamico ma si diffida degli amici e le alleanze sono nebulose e
sdrucciolevoli. Ha anche a che vedere con le divergenze fra Ankara e
Mosca sulla Siria; i turchi restano avversi al ripescaggio, anche
temporaneo, di Assad nel negoziato sul futuro della Siria.
Era quanto i militari temevano: non si può combattere nello stesso
spazio senza chiarezza strategica. Bisogna adesso raccogliere i cocci. E
prevenire altri incidenti in futuro.
L’abbattimento non mette il chiodo sulla bara di un’alleanza con Mosca
in Siria. La rende però più aleatoria. Non basta più portare a bordo la
Russia; occorre che vi rimanga Ankara. Nel fare piani per la Siria,
politici e militari, bisogna fare i conti con l’oste turco. Questo vale
anche per attori regionali, come Iran o Arabia Saudita.
Non sono in grado d’imporre la soluzione della crisi (hanno cercato di
farlo, bloccandosi fra loro) ma la possono sabotare. Sono finiti i tempi
in cui Washington, Mosca e qualche capitale europea potevano decidere
le sorti di un pezzo di Medio Oriente.
Mosca e Ankara hanno finora evitato d’infiammare troppo la retorica.
Invitare i cittadini russi a non recarsi in Turchia, come ha detto
Lavrov, è una rappresaglia turistica pesante ma priva di accenti
bellicosi. Nessuno ha parlato di atto di aggressione o di guerra.
Illuminante la frase di Putin: «Una pugnalata nella schiena». Tradotta,
il Cremlino accusa Erdogan di voler tagliare l’erba sotto i piedi alla
Russia in Siria. Ankara risponde che è tutta questione d’integrità
territoriale su un confine in stato di guerra.
Presi alla sprovvista, Obama e Hollande hanno navigato a vista. Nella
conferenza stampa congiunta a Washington poche ore dopo l’incidente,
hanno ignorato i cieli della Turchia. Alla ricerca della grande
coalizione, Hollande ha avuto generiche parole di simpatia per Ankara.
Entrambi hanno parlato della necessità di sigillare il confine terrestre
turco-siriano.
I due Presidenti sono poi stati costretti ad affrontare le inevitabili
domande. Le risposte sono state più banali che evasive. E’ stata
mantenuta la rotta: Mosca è benvenuta nell’alleanza contro Isis, a
condizione che non cerchi semplicemente di rimettere al potere Assad. La
Turchia ha il diritto di difendere il proprio territorio. Non abbiamo
informazioni sullo spazio aereo; le aspettiamo da Turchia e Russia.
Nulla che potesse offendere o Mosca o Ankara. Era chiarissimo l’intento
di limitare i danni e di non farsi dirottare dall’obiettivo di
un’alleanza anti-Isis comprendente la Russia - e la Turchia.
Gli interrogativi sulla sorte dei due piloti accrescono il risentimento
russo e ricordano tristemente che questa è una guerra combattuta senza
regole. Non c’è Convenzione di Ginevra. Per i militari che scendono in
campo non c’è rete di sicurezza.
I russi sono furiosi. Da parte turca, l’avviso a non violare lo spazio
aereo era ripetuto e inequivocabile. In quell’angolo del mondo
convergono Turchia, Siria e Iran: le linee sulla carta geografica non
sono uno scherzo. Ma il margine d’errore è sempre in agguato e
opinabile, specie in cielo. I militari lo sanno bene. Sarà difficile
sapere in quale spazio aereo sia stato colpito il Sukhoi Su-24.
I rapporti fra Ankara e Mosca precipitano ora al nadir. Putin e Erdogan
hanno forti vincoli di opinione pubblica e di sentimento nazionale. Sono
anche spregiudicatamente realisti. I due Paesi restano indispensabili
alla coalizione e alla futura soluzione politica per la Siria. Se si
riuscirà a conciliarne le rispettive esigenze la nascente coalizione
anti-Isis può sopravvivere. Hollande e Obama hanno mostrato di crederlo e
di volerlo - non che avessero molta scelta.
La Nato si è riunita ieri su richiesta turca. Sono consultazioni
politiche, non c’è alcun intervento militare in agenda. Mosca non ha
motivo di preoccuparsi. Era tempo: le minacce alla sicurezza in Europa
vengono anche dal Medio Oriente - Parigi docet. E sarebbe tempo forse
che se ne parlasse anche nel Consiglio Nato-Russia. Altrimenti cosa ci
sta a fare? Non era forse previsto che funzionasse «nel bello come nel
cattivo tempo»?
A Mosca si scatena l’orgoglio nazionale “Non dimenticare, non perdonare”
di Anna Zafesova La Stampa 25.11.15
«Udar v spinu», letteralmente colpo alla schiena: così Vladimir Putin
reagisce all’abbattimento del caccia russo Su-24 da parte della Turchia,
e in poche ore diventa la parola d’ordine. E’ l’hashtag del momento sul
Twitter russo, e il TG del Primo canale apre con queste parole alle
spalle del conduttore. È la frase sui manifesti dei moscoviti venuti
ieri sera a protestare all’ambasciata turca, insieme a cartelli come
«Assassini», «Complici dell’Isis», «Non dimenticare, non perdonare» e
«La vendetta sarà inesorabile». La Turchia, uno dei Paesi più vicini
alla Russia – primo fornitore, dopo la fine del comunismo, di beni di
consumo, prima destinazione vacanziera oltre la cortina di ferro, con i
cantieri della Mosca neocapitalista monopolizzati dai turchi – diventa
in un giorno il nemico numero uno.
Il ministero della Difesa ha già sospeso la cooperazione militare con
Ankara, ordinato all’incrociatore Moskva di «colpire ogni minaccia
potenziale» in Siria, e scortare i bombardieri con i caccia.
Guerra economica
Il Comitato per il turismo ha proibito la vendita di tour per Antalya e
dintorni. La Russia ribolle di rabbia. La campagna «Io non vado in
vacanza in Turchia» ha visto l’alleanza inedita tra sostenitori del
governo e oppositori. I due capi della propaganda, l’anchorman Dmitry
Kiseliov e la direttrice della tv internazionale RT Margarita Simonyan,
hanno chiesto l’embargo commerciale contro Erdogan, sostenuti dai due
terzi degli interrogati nei sondaggi lampo, mentre sui social network
fioccano foto di pomodori «Made in Turkey». La Turchia è un fornitore
cruciale per la Russia, soprattutto dopo le contro-sanzioni sugli
alimentari occidentali, ma l’orgoglio nazionale prevale, e voci alla
Duma chiedono l’interruzione dei collegamenti aerei e dei rapporti
diplomatici. L’orientalista Evgheny Satanovsky, presidente dell’istituto
del Medio Oriente, vuole «terra bruciata» per vendicare i piloti russi
uccisi. Si tocca anche l’intoccabile, e Kiseliov propone la chiusura di
Turkish Stream, il gasdotto che fino a poche settimane fa Mosca
considerava strategico.
Antiche rivalità
Niente gas, niente turisti, niente frutta e verdura: il colpo per la
Russia sarà pesante quanto per la Turchia, ma l’opinione pubblica ormai
abituata a sfoggi da grande potenza di un leader che non ammette
sconfitte è disposta a pagare il prezzo. I rancori storici stanno
riaffiorando con una rapidità sorprendente, e c’è chi già rievoca la
presa di Constantinopoli (all’epoca Bisanzio) da parte dei principi
della Russi e le guerre contro l’impero Ottomano per il Caucaso, i
Balcani e la Crimea (dove Erdogan ha appoggiato i correligionari tartari
contro Mosca). Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha ribadito che
«il presidente non ha parlato di reazione militare». Ma il suo popolo
chiede sangue.
Quel groviglio di interessi e jet che affolla i cieli della Siria
In volo apparecchi di 14 nazioni con missioni spesso contrappostedi Maurizio Molinari La Stampa 26.11.15
Lo spazio aereo siriano è congestionato dalle operazioni militari condotte da 14 nazioni di coalizioni differenti che realizzano missioni a volte congiunte ma spesso contrapposte se non in lampante contrasto. Quanto avviene nei cieli descrive il groviglio di interessi nazionali che rende possibili incidenti gravi come l’abbattimento del Sukhoi russo da degli F-16 turchi.
L’aviazione di Damasco
Ciò che resta dell’aviazione di Bashar al Assad opera dalle basi attorno a Damasco. Si tratta di Mig di fabbricazione russa impiegati contro unità ribelli e aree civili considerate nemiche in missioni di bombardamento con il lancio di barili di esplosivo che causano numerose vittime. Per il regime l’aviazione è una sorte di artiglieria dall’aria.
I Sukhoi russi
Dalla principale base aerea, Khmeimim a Latakia, gli squadroni di jet Su-27S e Su-30, e di bombardieri tattici Su-34 e Su-24, decollano per colpire obiettivi nelle provincie di Idlib, Homs, Hama e la stessa Latakia al fine di aprire la strada alle forze di terra siriana. Il posizionamento a Khmeimim dei missili terra-aria S-400 consente di avere un ombrello aereo sull’intera Siria del Nord-Ovest rendendo proibitive lo svolgimento di operazioni di altri Paesi. Gli S-400 proteggono la raccolta di intelligence con droni e anche aerei simili a quello abbattuto.
Il ponte aereo dell’Iran
I comandi iraniani gestiscono un ponte aereo militare da Teheran verso Damasco e Latakia. Sono aerei quasi sempre civili a portare truppe e uomini dislocate a difesa della capitale o in sostegno dell’esercito siriano. Gli spostamenti di velivoli avvengono usando le rotte civili che attraversano il territorio iracheno.
Le operazioni Usa
Le zona di operazioni americana è l’intera Siria ma si concentra nel Nord-Est. A-10, AC-130 «Spectre», F-22. F-15C, F-15Es, bombardieri B-1 e un’infinità di tipi di droni decollano da Turchia, Giordania, Qatar e dalle portaerei per colpire obiettivi di Isis. Il numero delle missioni concluse senza attacchi è scesa da settembre dal 75 al 50 per cento perché è migliorato l’uso di unità di ribelli curdi e arabi nell’identificazione degli obiettivi nell’area di Raqqa e lungo le vie di comunicazione. Assieme agli Usa operano gli aerei francesi, canadesi ed australiani. I britannici svolgono per ora solo ricognizione. La settimana fra il 10 e il 17 novembre ha visto sganciare un numero record di bombe. Nella base turca di Djarbaikir gli Usa hanno la forza di estrazione rapida per soccorrere i piloti in zona nemica.
Il ruolo dei Paesi sunniti
Giordania, Qatar, Bahrein e Arabia Saudita decollano dalle rispettive basi per colpire obiettivi nell’area di Raqqa. La coalizione sfrutta i loro piloti per colpire obiettivi simbolo del Califfato. A Riad vi sono incertezze e malumori sull’efficacia degli attacchi: spesso gli aerei sauditi restano a terra.
La Turchia contro i curdi
Gli F-15 che decollano dalle basi nella Turchia del Sud cercano obiettivi della guerriglia curda e, più raramente, di Isis. Lungo la frontiera con la Siria i jet raccolgono intelligence sui movimenti di truppe considerate ostili ad Ankara, a cominciare da unità siriane e russe. La presenza degli S-400 russi è destinata ad ostacolare questo tipo di ricognizione.
Israele sul Golan
Gli F-15 israeliani operano nell’area delle Alture del Golan, lungo i confini libanesi-siriani e a ridosso dell’aeroporto di Damasco. Sono i droni a cercare obiettivi Hezbollah o iraniani da colpire per impedire che si avvicinino alle frontiere di Israele. Dall’inizio dell’intervento russo, Israele ha effettuato almeno cinque raid sfruttando una linea rossa di comunicazione con i comandi russi per evitare il rischio di incidenti. Israele dispone di un simile coordinamento anche con le forze americane.
In volo apparecchi di 14 nazioni con missioni spesso contrappostedi Maurizio Molinari La Stampa 26.11.15
Lo spazio aereo siriano è congestionato dalle operazioni militari condotte da 14 nazioni di coalizioni differenti che realizzano missioni a volte congiunte ma spesso contrapposte se non in lampante contrasto. Quanto avviene nei cieli descrive il groviglio di interessi nazionali che rende possibili incidenti gravi come l’abbattimento del Sukhoi russo da degli F-16 turchi.
L’aviazione di Damasco
Ciò che resta dell’aviazione di Bashar al Assad opera dalle basi attorno a Damasco. Si tratta di Mig di fabbricazione russa impiegati contro unità ribelli e aree civili considerate nemiche in missioni di bombardamento con il lancio di barili di esplosivo che causano numerose vittime. Per il regime l’aviazione è una sorte di artiglieria dall’aria.
I Sukhoi russi
Dalla principale base aerea, Khmeimim a Latakia, gli squadroni di jet Su-27S e Su-30, e di bombardieri tattici Su-34 e Su-24, decollano per colpire obiettivi nelle provincie di Idlib, Homs, Hama e la stessa Latakia al fine di aprire la strada alle forze di terra siriana. Il posizionamento a Khmeimim dei missili terra-aria S-400 consente di avere un ombrello aereo sull’intera Siria del Nord-Ovest rendendo proibitive lo svolgimento di operazioni di altri Paesi. Gli S-400 proteggono la raccolta di intelligence con droni e anche aerei simili a quello abbattuto.
Il ponte aereo dell’Iran
I comandi iraniani gestiscono un ponte aereo militare da Teheran verso Damasco e Latakia. Sono aerei quasi sempre civili a portare truppe e uomini dislocate a difesa della capitale o in sostegno dell’esercito siriano. Gli spostamenti di velivoli avvengono usando le rotte civili che attraversano il territorio iracheno.
Le operazioni Usa
Le zona di operazioni americana è l’intera Siria ma si concentra nel Nord-Est. A-10, AC-130 «Spectre», F-22. F-15C, F-15Es, bombardieri B-1 e un’infinità di tipi di droni decollano da Turchia, Giordania, Qatar e dalle portaerei per colpire obiettivi di Isis. Il numero delle missioni concluse senza attacchi è scesa da settembre dal 75 al 50 per cento perché è migliorato l’uso di unità di ribelli curdi e arabi nell’identificazione degli obiettivi nell’area di Raqqa e lungo le vie di comunicazione. Assieme agli Usa operano gli aerei francesi, canadesi ed australiani. I britannici svolgono per ora solo ricognizione. La settimana fra il 10 e il 17 novembre ha visto sganciare un numero record di bombe. Nella base turca di Djarbaikir gli Usa hanno la forza di estrazione rapida per soccorrere i piloti in zona nemica.
Il ruolo dei Paesi sunniti
Giordania, Qatar, Bahrein e Arabia Saudita decollano dalle rispettive basi per colpire obiettivi nell’area di Raqqa. La coalizione sfrutta i loro piloti per colpire obiettivi simbolo del Califfato. A Riad vi sono incertezze e malumori sull’efficacia degli attacchi: spesso gli aerei sauditi restano a terra.
La Turchia contro i curdi
Gli F-15 che decollano dalle basi nella Turchia del Sud cercano obiettivi della guerriglia curda e, più raramente, di Isis. Lungo la frontiera con la Siria i jet raccolgono intelligence sui movimenti di truppe considerate ostili ad Ankara, a cominciare da unità siriane e russe. La presenza degli S-400 russi è destinata ad ostacolare questo tipo di ricognizione.
Israele sul Golan
Gli F-15 israeliani operano nell’area delle Alture del Golan, lungo i confini libanesi-siriani e a ridosso dell’aeroporto di Damasco. Sono i droni a cercare obiettivi Hezbollah o iraniani da colpire per impedire che si avvicinino alle frontiere di Israele. Dall’inizio dell’intervento russo, Israele ha effettuato almeno cinque raid sfruttando una linea rossa di comunicazione con i comandi russi per evitare il rischio di incidenti. Israele dispone di un simile coordinamento anche con le forze americane.
Dall’Artico al Medio Oriente La continua sfida degli aerei russi alla Nato
di Stefano Stefanini La Stampa 26.11.15
Il tempo di un tweet, diciassette secondi, separa il torto dalla ragione fra Mosca e Ankara. È impossibile che l’abbattimento del Sukhoi Su-24 sia stato una decisione politica: non c’era tempo. Non c’era tempo di distinguere un velivolo russo da uno siriano. Le decisioni politiche erano già state prese: dalla Turchia, con i protocolli sulle violazioni di spazio aereo; dalla Russia, spingendo i voli al limite di una linea invisibile. A quelle velocità 1,15 miglia è… niente.
Gli aerei russi mettono continuamente alla prova la Nato. Lo fanno nei cieli della Scozia e dell’Artico, fermandosi alla soglia dell’incidente. In Anatolia si trovano su un teatro bellico. I turchi avevano già abbattuto un velivolo russo poche settimane fa; era un drone, tutti avevano respirato di sollievo. Nel marzo del 2014 era toccato a un aereo siriano.
I due uomini forti, Putin e Erdogan, sono scesi all’O.K. Corral: nessuno ha battuto ciglio per primo e il colpo è partito. Troppo presto per valutare le conseguenze sulla coalizione anti-Isis e sulla crisi siriana. Mai troppo tardi per prendere misure per evitare altri incidenti, anche più gravi. Da quando sono cominciate le operazioni russe in Siria, i militari vanno chiedendo accorgimenti per «de-conflittualizzarle» rispetto a quelle della coalizione. Qualcosa è stato fatto dagli americani, adesso dai francesi. Non abbastanza.
In Siria, con o senza grande alleanza, s’intensificheranno intensità e frequenza delle operazioni. Si metteranno in movimento truppe di terra. Il fuoco amico è in agguato nelle meglio organizzate campagne militari. Figuriamoci in un teatro in cui i comandi sono separati, gli spazi operativi s’intersecano e il nemico è una galassia con molte zone d’ombra. Bisogna prevenire l’inerzia che ha meccanicamente trascinato Turchia e Russia nell’incidente.
In Europa non ci sono analoghe frizioni operative, ma i militari Nato e russi devono potersi parlare quando necessario. Prendiamo esempio dai norvegesi che hanno mantenuto una «linea rossa» nell’Artico. In territorio Nato e russo ci sono esercitazioni, massicce quelle russe, a ridosso dei rispettivi confini. E ci sono armi nucleari. La dottrina militare russa ne contempla l’uso «tattico», cioè sul campo di battaglia.
Gli ostacoli alla comunicazione sono politici, non militari. Ma se la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali (Clemenceau), la pace è una cosa troppo importante per essere affidata solo ai politici. Che, per ignoranza dello strumento militare, rischiano di mettere in moto dinamiche che non controllano. Se lasciassero parlare i militari fra loro un po’ più spesso preverrebbero il danno.
di Stefano Stefanini La Stampa 26.11.15
Il tempo di un tweet, diciassette secondi, separa il torto dalla ragione fra Mosca e Ankara. È impossibile che l’abbattimento del Sukhoi Su-24 sia stato una decisione politica: non c’era tempo. Non c’era tempo di distinguere un velivolo russo da uno siriano. Le decisioni politiche erano già state prese: dalla Turchia, con i protocolli sulle violazioni di spazio aereo; dalla Russia, spingendo i voli al limite di una linea invisibile. A quelle velocità 1,15 miglia è… niente.
Gli aerei russi mettono continuamente alla prova la Nato. Lo fanno nei cieli della Scozia e dell’Artico, fermandosi alla soglia dell’incidente. In Anatolia si trovano su un teatro bellico. I turchi avevano già abbattuto un velivolo russo poche settimane fa; era un drone, tutti avevano respirato di sollievo. Nel marzo del 2014 era toccato a un aereo siriano.
I due uomini forti, Putin e Erdogan, sono scesi all’O.K. Corral: nessuno ha battuto ciglio per primo e il colpo è partito. Troppo presto per valutare le conseguenze sulla coalizione anti-Isis e sulla crisi siriana. Mai troppo tardi per prendere misure per evitare altri incidenti, anche più gravi. Da quando sono cominciate le operazioni russe in Siria, i militari vanno chiedendo accorgimenti per «de-conflittualizzarle» rispetto a quelle della coalizione. Qualcosa è stato fatto dagli americani, adesso dai francesi. Non abbastanza.
In Siria, con o senza grande alleanza, s’intensificheranno intensità e frequenza delle operazioni. Si metteranno in movimento truppe di terra. Il fuoco amico è in agguato nelle meglio organizzate campagne militari. Figuriamoci in un teatro in cui i comandi sono separati, gli spazi operativi s’intersecano e il nemico è una galassia con molte zone d’ombra. Bisogna prevenire l’inerzia che ha meccanicamente trascinato Turchia e Russia nell’incidente.
In Europa non ci sono analoghe frizioni operative, ma i militari Nato e russi devono potersi parlare quando necessario. Prendiamo esempio dai norvegesi che hanno mantenuto una «linea rossa» nell’Artico. In territorio Nato e russo ci sono esercitazioni, massicce quelle russe, a ridosso dei rispettivi confini. E ci sono armi nucleari. La dottrina militare russa ne contempla l’uso «tattico», cioè sul campo di battaglia.
Gli ostacoli alla comunicazione sono politici, non militari. Ma se la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali (Clemenceau), la pace è una cosa troppo importante per essere affidata solo ai politici. Che, per ignoranza dello strumento militare, rischiano di mettere in moto dinamiche che non controllano. Se lasciassero parlare i militari fra loro un po’ più spesso preverrebbero il danno.
Una «guerra» economica da 44 miliardi
di Antonella Scott Il Sole 26.11.15
Russia e Turchia cercano di evitare un’escalation militare, ma le ritorsioni sono già iniziate
La Russia non si metterà in guerra contro la Turchia, come ha detto ieri il ministro degli Esteri Serghej Lavrov. E probabilmente, sul fronte economico, non utilizzerà neppure l’arma più potente che Vladimir Putin ha in mano, il rubinetto del gas. Il giorno dopo l’abbattimento del caccia russo in Siria, sia Mosca che Ankara calibrano le proprie reazioni, accettando l’invito a evitare un’escalation. Ma i russi non lasceranno correre: «Riconsidereremo seriamente le relazioni», dice Lavrov. Proprio sul fronte dei legami commerciali, nelle dogane e nelle agenzie viaggi, la ritorsione russa ha già preso forma.
E l’impatto si farà sentire. «Un colpo da 44 miliardi di dollari», titolava ieri il portale russo di informazione economica Rbk: udar, il «colpo», è la pugnalata turca alla schiena citata martedì da Putin mentre, furibondo, commentava l’abbattimento del jet. Quei 44 miliardi sono un modo per quantificare la posta in gioco nel confronto tra russi e turchi: la Russia è il secondo partner commerciale di Ankara, un interscambio pari a 31 miliardi di dollari nel 2014, e a 18,1 miliardi per i primi nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi, la cifra sale appunto a 44 miliardi.
Due mesi fa, le ambizioni correvano alte: in visita a Mosca il 23 settembre - pochi giorni prima dell’avvio della campagna militare russa in Siria - il presidente turco Recep Tayyep Erdogan disse a Putin che entro il 2023 il commercio bilaterale avrebbe dovuto raggiungere i 100 miliardi. Approfittando anche del fatto che le sanzioni americane ed europee contro la Russia, a cui la Turchia non ha aderito, le lasciavano spazi in cui inserirsi.
Ambizioni oggi vittime della guerra in Siria. Attribuendo alla Turchia «un atto criminale», il primo ministro Dmitrij Medvedev ha avvertito ieri che «le dirette conseguenze potrebbero implicare da parte nostra il rifiuto a partecipare a tutta una serie di progetti congiunti, mentre le imprese turche perderanno posizioni sul mercato russo».
La ritorsione è già scattata. Ubbidendo alla raccomandazione dell’Ente federale per il turismo, tutti i più importanti tour operator russi hanno bloccato ieri le vendite di pacchetti vacanze in Turchia, tra le mete favorite dei russi: più di 4 milioni l’avevano scelta nel 2014. E intanto, l’Associazione russa dei produttori tessili ha indirizzato una lettera al governo chiedendo il boicottaggio degli acquisti di abiti e beni di consumo dalla Turchia. L’import dalla Turchia in questi settori, scrive l’Associazione, è pari a sette miliardi di dollari.
La ritorsione ha un effetto valanga. Al porto di Novorossiisk, sul mar Nero, le dogane russe ora bloccano i carichi in arrivo dalla Turchia, senza dare spiegazioni. Mentre l’immancabile Rosselkhoznadzor, l’ente che sorveglia quanto viene importato in Russia dal punto di vista sanitario, d’improvviso ieri ha rinvenuto la presenza di pericolosi batteri nel pollame di un’impresa turca, che si è vista bloccare le vendite. Da parte sua, la Turchia è un grande mercato per il grano russo.
Il grande rischio, ha avvertito ieri Putin, è che l’”incidente” dell’aereo si ripeta. Ma per ora sembra difficile che il gelo piombato tra Mosca e Ankara possa sconvolgere il fronte dell’energia, in cui gli interessi reciproci sono strettamente intrecciati. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia, che importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la Germania, è il secondo cliente di Mosca. Su 50 miliardi di metri cubi (e una spesa annua di 50 miliardi di dollari per l’import turco di energia) da Gazprom ne arrivano 30. Senza contare il passaggio al nucleare, che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale, quattro reattori e un progetto da 20 miliardi, il più grande progetto comune. «Perdere la Turchia - disse Erdogan lo scorso ottobre - sarebbe una seria perdita per la Russia». E viceversa.
Anche prima dell’abbattimento del jet, tuttavia, i problemi e le tensioni bilaterali non mancavano certo: come le eterne trattative sul prezzo del gas, o sul progetto che avrebbe dovuto prendere il posto di South Stream, un gasdotto che voleva trasformare la Turchia in un hub per l’Europa. Sul destino di Turkish Stream già gravavano dubbi di carattere economico e finanziario. Dubbi che ora sembrano diventati certezze.
di Antonella Scott Il Sole 26.11.15
Russia e Turchia cercano di evitare un’escalation militare, ma le ritorsioni sono già iniziate
La Russia non si metterà in guerra contro la Turchia, come ha detto ieri il ministro degli Esteri Serghej Lavrov. E probabilmente, sul fronte economico, non utilizzerà neppure l’arma più potente che Vladimir Putin ha in mano, il rubinetto del gas. Il giorno dopo l’abbattimento del caccia russo in Siria, sia Mosca che Ankara calibrano le proprie reazioni, accettando l’invito a evitare un’escalation. Ma i russi non lasceranno correre: «Riconsidereremo seriamente le relazioni», dice Lavrov. Proprio sul fronte dei legami commerciali, nelle dogane e nelle agenzie viaggi, la ritorsione russa ha già preso forma.
E l’impatto si farà sentire. «Un colpo da 44 miliardi di dollari», titolava ieri il portale russo di informazione economica Rbk: udar, il «colpo», è la pugnalata turca alla schiena citata martedì da Putin mentre, furibondo, commentava l’abbattimento del jet. Quei 44 miliardi sono un modo per quantificare la posta in gioco nel confronto tra russi e turchi: la Russia è il secondo partner commerciale di Ankara, un interscambio pari a 31 miliardi di dollari nel 2014, e a 18,1 miliardi per i primi nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi, la cifra sale appunto a 44 miliardi.
Due mesi fa, le ambizioni correvano alte: in visita a Mosca il 23 settembre - pochi giorni prima dell’avvio della campagna militare russa in Siria - il presidente turco Recep Tayyep Erdogan disse a Putin che entro il 2023 il commercio bilaterale avrebbe dovuto raggiungere i 100 miliardi. Approfittando anche del fatto che le sanzioni americane ed europee contro la Russia, a cui la Turchia non ha aderito, le lasciavano spazi in cui inserirsi.
Ambizioni oggi vittime della guerra in Siria. Attribuendo alla Turchia «un atto criminale», il primo ministro Dmitrij Medvedev ha avvertito ieri che «le dirette conseguenze potrebbero implicare da parte nostra il rifiuto a partecipare a tutta una serie di progetti congiunti, mentre le imprese turche perderanno posizioni sul mercato russo».
La ritorsione è già scattata. Ubbidendo alla raccomandazione dell’Ente federale per il turismo, tutti i più importanti tour operator russi hanno bloccato ieri le vendite di pacchetti vacanze in Turchia, tra le mete favorite dei russi: più di 4 milioni l’avevano scelta nel 2014. E intanto, l’Associazione russa dei produttori tessili ha indirizzato una lettera al governo chiedendo il boicottaggio degli acquisti di abiti e beni di consumo dalla Turchia. L’import dalla Turchia in questi settori, scrive l’Associazione, è pari a sette miliardi di dollari.
La ritorsione ha un effetto valanga. Al porto di Novorossiisk, sul mar Nero, le dogane russe ora bloccano i carichi in arrivo dalla Turchia, senza dare spiegazioni. Mentre l’immancabile Rosselkhoznadzor, l’ente che sorveglia quanto viene importato in Russia dal punto di vista sanitario, d’improvviso ieri ha rinvenuto la presenza di pericolosi batteri nel pollame di un’impresa turca, che si è vista bloccare le vendite. Da parte sua, la Turchia è un grande mercato per il grano russo.
Il grande rischio, ha avvertito ieri Putin, è che l’”incidente” dell’aereo si ripeta. Ma per ora sembra difficile che il gelo piombato tra Mosca e Ankara possa sconvolgere il fronte dell’energia, in cui gli interessi reciproci sono strettamente intrecciati. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia, che importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la Germania, è il secondo cliente di Mosca. Su 50 miliardi di metri cubi (e una spesa annua di 50 miliardi di dollari per l’import turco di energia) da Gazprom ne arrivano 30. Senza contare il passaggio al nucleare, che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale, quattro reattori e un progetto da 20 miliardi, il più grande progetto comune. «Perdere la Turchia - disse Erdogan lo scorso ottobre - sarebbe una seria perdita per la Russia». E viceversa.
Anche prima dell’abbattimento del jet, tuttavia, i problemi e le tensioni bilaterali non mancavano certo: come le eterne trattative sul prezzo del gas, o sul progetto che avrebbe dovuto prendere il posto di South Stream, un gasdotto che voleva trasformare la Turchia in un hub per l’Europa. Sul destino di Turkish Stream già gravavano dubbi di carattere economico e finanziario. Dubbi che ora sembrano diventati certezze.
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