lunedì 14 dicembre 2015

Gatti di Joyce

Il gatto e il diavoloJames Joyce: Il gatto e il diavolo, trad. e cura di Franco Marucci, illustrazioni di Cristiano Coppi, Ets, Pisa, pagg. 48, € 9,00

Risvolto
l diavolo parla per lo più una sua lingua chiamata Borbogliodipancia, che inventa lui stesso mentre cammina, ma quando è molto arrabbiato è in grado di parlare molto bene un pessimo francese, benché qualcuno, avendolo sentito, affermi che abbia uno spiccato accento dublinese.
Questa piccola fiaba “mefistofelica” fu scritta da Joyce nonno per il nipotino Stephen nel 1936 in forma di lettera. Viene ripresentata qui nell’elegante traduzione di Franco Marucci, accompagnata dai collages di Cristiano Coppi. Gemella de I gatti di Copenhagen, scritta anch’essa per il nipote nello stesso anno, questa lettera fantastica e surreale ci mostra un’altra faccia di uno scrittore camaleontico e polifonico, un Joyce che, in temporanea vacanza dall’ermetismo di Finnegans Wake, ritroviamo a giocare con il piccolo Stephen e il suo linguaggio.


Il ponte, il gatto e il diavolo

Renzo S. Crivelli
L’amore di James Joyce per i gatti è fuori di dubbio. Lo stesso non si può dire per i cani, di cui aveva paura, avendo anche subìto un attacco che gli aveva lasciato una sorta di fobia. Non sappiamo se ne tenesse in casa, di gatti. Certo non quando stava in uno dei suoi alberghi parigini; forse, piuttosto, nel periodo più sereno trascorso a Trieste, in via Bramante 4, quasi alla fine del suo primo soggiorno nella città giuliana (1912-15). Ma questa sua attenzione per le creature felpate l’ha messa molto bene in mostra nel quarto episodio dell’Ulisse («Calipso»), quando, accanto al personaggio di Leopold Bloom, ritratto nel momento del suo risveglio mentre è intento a prepararsi una succulenta colazione a base di rognone fritto, vediamo sgusciare la micetta di Molly, assai vogliosa di latte mattutino.
Nell’estate del 1936 lo scrittore irlandese, che da anni aveva trasferito il suo domicilio da Trieste a Parigi, si trovava in vacanza con la moglie Nora a Beaugency, una piccola località della Francia, adagiata sulla Loira, con un bel ponte a più arcate. Lì, ospite dell’Hotel de l’Abbaye, la coppia sicuramente visitò il ponte e venne a conoscenza della leggenda del «Gatto e del Diavolo», assai nota a livello locale. Alcuni giorni dopo si trasferirono più a nord, a Villers-sur-Mer, sulla Manica, dove il 10 di agosto Joyce imbucò una simpatica lettera indirizzata al nipotino Stephen, figlio di Giorgio (il primogenito nato a Trieste), e dell’americana Helen Kastor. Stephen in quel momento aveva solo quattro anni, essendo nato nel 1932, ed era il “cocco” dello scrittore, che a lui si rivolse firmandosi in italiano “nonno”. 
Cosa contiene questa lettera (poi pubblicata sia da Stuart Gilbert che da Richard Ellmann nelle Lettere e nella Biografia, del 1957 e del 1965)? Una storia per il nipotino, capace di attrarre la sua attenzione e, anche, di insegnargli qualcosa sulla vita e sul comportamento degli uomini. La fiaba che Joyce riprende è assai diffusa in varie parti d’Europa (ce n’è una uguale sul ponte del Natisone a Cividale del Friuli, un luogo che lo scrittore potrebbe avere visitato nei lungi anni di soggiorno a Trieste). E racconta di un patto fra il sindaco di Beaugency che si chiama Byrne (un nome che ci porta dritti a Dublino) e il Diavolo, il quale promette di costruire il ponte sulla Loira tanto desiderato dalla popolazione, costretta fino a quel momento all’uso di barche. Ovviamente il Diavolo vuole essere pagato con l’anima del primo che lo attraverserà e, ça va sans dire, sarà l’inconsapevole felino a consegnarsi fra le sue braccia, salvando gli umani sbigottiti.
Joyce racconta a Stephen una storia ironica, atta a smaliziare il bambino. E così facendo, come ha ipotizzato Franco Marucci nella sua garbata postfazione a questa edizione illustrata con efficacia da Cristiano Coppi (molte sono state le precedenti, a partire dalla prima, del 1967, per Emme Edizioni), Joyce ci consegna una sorta di sosia “sardonico”. In questa leggenda, infatti, è lui — come sempre — a posare per un ritratto dissacrante: una sorta di Mefistofele che alla fine si sovrappone al “diabolico” gatto.
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