Quale Francesco? Quello del meraviglioso testamento, che «con un soprassalto di disperata energia» vuole ancora i suoi frati «illetterati e sottomessi a tutti», o quello clericale e conformista degli affreschi in cui Giotto impagina una storia riscritta da san Bonaventura (capo dell’ordine, ma anche cardinale), e bollata dalla Curia romana? Quello davvero minore, che si firma «frate Francesco piccolino, vostro servo» e passa la vita tra i lebbrosi e gli ultimi di ogni specie, o quello che è celebrato per sempre sulle pareti della Basilica superiore di Assisi (circondato da cavalieri vesti
ti di vaio, cardinali e pontefici coperti d’oro e di porpora), cioè il Francesco reso letteralmente inimitabile dal miracolo delle stimmate, e dunque in qualche modo sterilizzato, depotenziato, disinnescato? E i suoi veri seguaci sono quelli rasati e calzati che studiano, posseggono e scalano la gerarchia fino al soglio pontificio, o sono i frati scalzi, barbuti, disposti a seguire il grido modernissimo di Francesco: «Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà»?
Fin dal titolo, è questa la domanda che percorre le oltre quattrocento pagine dell’ultimo, bellissimo libro di Chiara Frugoni. È l’eterna domanda che investiga e interroga il rapporto tra il carisma profetico e la sordità del potere istituzionale. Non è difficile sentirla attuale oggi, quando ci chiediamo se un altro Francesco vada riconosciuto nel candore evangelico di affermazioni e atti che appaiono rivoluzionari, o invece nella vischiosità ineludibile di un potere mondano che processa giornalisti e non accredita ambasciatori perché omosessuali. O quando ci chiediamo se Assisi sia – a fine Duecento come oggi – un epicentro di vita spirituale, o invece una grande macchina da soldi, e se gli affreschi stessi della Basilica, oggi messi a dura prova dal respiro delle masse, siano ancora un testo vivo, o solo un’attrazione moralmente afona.
Chiara Frugoni cerca il suo Francesco, posando uno sguardo nuovo – uno sguardo felicemente infantile: cioè limpido, aperto, incredibilmente concreto – sul ciclo di Giotto. Lo fa da storica, ma conoscendo minuziosamente il lavoro degli storici dell’arte, e interloquendo con i migliori: per esempio con Luciano Bellosi per la cronologia e le attribuzioni, con Bruno Zanardi per la genesi materiale, con Donal Cooper e Janet Robson per la lettura iconografica. E il risultato è straordinariamente importante: perché ci restituisce assai aumentata la conoscenza di uno dei testi figurativi più alti, e controversi, della nostra storia culturale.
Come tutti i libri davvero riusciti, Quale Francesco? parla a tutti.
Saranno gli specialisti a vagliare la proposta di leggere i sei candelabri visibili nella Preghiera di San Damiano come un’allusione a santa Chiara e alle sue cinque prime sorelle; a discutere sulle implicazioni del profilo diabolico che la Frugoni ha per prima, e indiscutibilmente, individuato nelle nuvole che portano in cielo l’anima di Francesco appena morto; a soppesare il nesso tra le profezie dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore sull’avvento di un ordine «colombino» e la presenza ricorrente delle colombe nei grandi riquadri giotteschi; o, ancora, a valutare il ruolo di menabò iconografico che può aver avuto il perduto
aurifrisium (cioè il paliotto tessuto di fili d’oro) donato all’altare della Basilica da Nicola IV, primo papa francescano e grande promotore della decorazione pittorica assisiate.
Ma – anche grazie ad una prosa felicissima, ad una eccezionale capacità di sedurre il lettore – la domanda centrale del libro parla invece a tutti: ed è difficile staccarsi dal filo della narrazione, dalla malìa di strepitose fotografie di dettaglio che permettono di vedere il ciclo di Giotto come forse non lo si è mai visto prima. E quella domanda è: se Francesco (morto nel 1226) avesse potuto guardarsi nello specchio di Giotto (1288-92 circa), si sarebbe riconosciuto? La risposta della Frugoni è no: ed è un no profondamente convincente.
Emblematico è il caso del presepe di Greccio: un grande evento popolare, in cui Francesco fece celebrare la messa natalizia della notte alla presenza di un bue e di un asino in carne ed ossa, viene invece raffigurato come una specie di rappresentazione simbolica, con gli animali ridotti a piccole statue di terracotta, con i poveri fuori della porta, con lo stesso Francesco rivestito da una improbabile dalmatica diaconale dorata. Un Francesco prigioniero del suo stesso ordine, insomma: e Francesco prigioniero sarebbe un perfetto sottotitolo per il libro. Specie pensando ancora al Testamento, dove il santo si fa povero fino a spogliarsi della sua stessa volontà, e con essa del radicalismo del suo progetto: «E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani».
Uno dei tradimenti contro il vero Francesco riguarda da vicino i nostri giorni. Nella quarta campata della parete nord, i committenti chiedono a Giotto di dipingere un Francesco pronto a gettarsi nel fuoco per sbugiardare e umiliare il Sultano, e i musulmani in genere. Ma la Frugoni ricorda che il fondatore aveva ordinato ai suoi frati di vivere anche tra i non cristiani «senza liti, senza dispute », «non con l’abituale criterio della contesa dottrinale contro Ebrei od eretici, ritenendosi soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, dunque anche ai musulmani ... Solo se si fosse creato un clima di reciproco rispetto, se fosse piaciuto a Dio, i frati avrebbero potuto parlare di Cristo e della loro fede». Ma – continua la Frugoni – «quando la ritroviamo negli affreschi di Assisi, da una predica per convertire siamo passati a una sfida per vincere ».
Mai come oggi, capire quale Francesco significa decidere quale futuro.
Chi aveva paura di fratello Francesco?
Chiara Frugoni indaga il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore di Assisi: realizzati a mezzo secolo dalla morte del santo, dopo aspre divisioni interne al suo Ordine
Alessandro Barbero Stampa 15 12 2015
Nel 1220, sei anni prima di morire, Francesco d’Assisi abbandonò la direzione dell’Ordine francescano, in durissima polemica con un’organizzazione che gli sfuggiva di mano e che non assomigliava più, se non come una caricatura, al movimento che aveva sognato di fondare. Il piccolo gruppo di compagni era cresciuto al di là di ogni previsione; la povertà era diventata un simbolo e non una pratica di vita, i frati vivevano in spaziosi conventi anziché dormire in strada, di guadagnarsi da vivere lavorando nessuno parlava più, comodi sandali avevano sostituito i piedi scalzi degli Apostoli.
Peggio: il successo del movimento aveva riempito le comunità francescane di persone influenti e ambiziose, confinando ai margini i poveri e gli ignoranti. Francesco diffidava di chi ha studiato, convinto che la dottrina rende presuntuosi e non è compatibile con la povertà - tanto meno in un mondo in cui un libro costava l’equivalente di migliaia di euro. Era un laico e sognava un movimento di laici; e quando una vecchia donna, madre di uno dei frati, venne a chiedergli un soccorso, ordinò di vendere l’unico Vangelo che possedevano: Dio, garantì ai frati sbigottiti, sarà molto più contento di vedere che aiutiamo «la nostra mamma», che non di vederci leggere il Vangelo.
Ma ormai gran parte dei frati sfoggiava la lucida tonsura che indicava l’appartenenza al clero e la separazione dalla plebe analfabeta. Perciò Francesco si dimise, e nei sei anni che gli rimanevano combatté una faticosa battaglia, accettando i compromessi della Regula bullata - l’unica versione del suo programma che ottenne un’approvazione scritta dal Papa - e poi stilando un testamento che riproponeva regole più severe, e obbligava i frati a osservarle senza introdurvi alcun cambiamento. Appena quattro anni dopo la morte, la salma del santo era traslata in gran pompa nella nuova basilica di Assisi, e il Papa provvedeva ad annullare il suo testamento, dichiarando che i frati non erano tenuti a osservarlo.
La biografia riscritta
Chiara Frugoni, che da molti anni vive nell’intimità di Francesco e ha scrutato ogni centimetro degli affreschi di Assisi, ha appena pubblicato con Einaudi un libro straordinario (Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi, pp. 608, 222 tavole a colori, € 80), in cui parte da una domanda semplicissima: perché le pareti della Basilica superiore, destinata alle riunioni dei frati, vennero affrescate solo mezzo secolo dopo, da Cimabue e poi da Giotto? Perché, in un mondo dove ogni superficie muraria, se appena c’erano i mezzi, era coperta di affreschi, quelle pareti rimasero nude così a lungo?
La risposta è che i frati erano aspramente divisi su chi fosse stato davvero il fondatore, e di conseguenza, su quale Francesco si dovesse rappresentare. Com’era possibile raffigurare quell’uomo tormentato, e il suo progetto di assoluta povertà, senza mettere in imbarazzo ciò che l’Ordine era ormai diventato? Ma non era possibile neppure censurarlo, perché c’erano ancora troppi frati che ricordavano il movimento delle origini, e lo rimpiangevano in cuor loro. Chi in quegli anni ricevette l’incarico di scrivere la Vita del santo sperimentò in pieno la contraddizione: come Tommaso da Celano, continuamente sollecitato a modificare e riscrivere e aggiungere, tanto che alla fine sbottò: «Non possiamo ogni giorno produrre cose nuove, né mutare ciò che è quadrato in rotondo». Perciò, le pareti della Basilica superiore rimasero spoglie.
Alter ego di Cristo
La svolta decisiva, come ha dimostrato in passato Chiara Frugoni, si ebbe con il generalato di Bonaventura da Bagnoregio, che nella Legenda maior dettò la versione definitiva della vita di Francesco, trasformando il fondatore in un alter ego di Cristo: più divino che umano, come dimostravano le stimmate, e dunque, per definizione, inimitabile. Per buona misura, il Capitolo generale ordinò la distruzione delle Vite precedenti; solo pochissimi manoscritti sopravvissero a quella misura staliniana, per essere riscoperti fra Otto e Novecento.
Ora la studiosa si è spinta più avanti: Bonaventura non propose soltanto una nuova immagine di Francesco, ma una nuova interpretazione dell’Ordine francescano e del suo destino provvidenziale. Utilizzando gli scritti profetici di Gioacchino da Fiore, il ministro generale spiegò che Francesco era stato un precursore: lui, sì, aveva realizzato una vita ispirata al Vangelo, ma i tempi non erano maturi perché il mondo lo seguisse. Quei tempi sarebbero giunti, ma solo Dio sapeva quando; nel frattempo, i frati dovevano prepararsi, studiare e predicare, senza pretendere di attuare subito, prematuramente, il disegno divino prefigurato da Francesco.
Senza tradirlo del tutto
Solo quando questa interpretazione s’impose divenne possibile commissionare gli affreschi per la Basilica superiore; e inserirvi un’infinità di dettagli eloquenti, di cui tutti i dignitari dell’Ordine, all’epoca, avrebbero colto il significato, e che a noi oggi sfuggirebbero completamente, se non ci fosse Chiara Frugoni a segnalarli. Divenne possibile rappresentare Francesco senza tradirlo del tutto, a piedi scalzi e con la barba dei laici, e attorno a lui i frati calzati e rasati, in ampi e comodi sai, e talvolta perfino con un libro in mano: senza scandalo, perché Francesco, come l’Angelo dell’Apocalisse, aveva profetizzato un futuro che non si era ancora adempiuto.
Bonaventura aveva scoperto una verità che molti secoli dopo sarà riscoperta dai dirigenti dell’Unione Sovietica: è più facile annunciare alla gente che il paradiso è previsto per un futuro non lontano, piuttosto che dichiararlo già realizzato qui e ora. Con questo libro, Chiara Frugoni non ha soltanto scritto una pagina nuova nella storia dell’Ordine francescano, ma ha allargato la nostra comprensione del pensiero e della mentalità medievale.
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