domenica 6 dicembre 2015
I socialisti di fronte alla Prima guerra mondiale
Risvolto
I decenni tra la fine del secolo XIX e gli anni ’20 del ’900 offrono una lettura privilegiata dell’accelerazione e decantazione di alcuni processi, dalle politiche di acculturazione e mobilitazione a quelle di integrazione sociale fino all’evoluzione del sistema di rappresentanza e di governo, consentendo di individuare in un’ottica comparata le specificità nazionali. Il caso italiano è quello di una patria divisa, con ripercussioni di lungo periodo.
La storia del socialismo si sviluppa in parallelo con quella dello Stato nazionale, del capitalismo industriale e dell'ordinamento della società di massa, tutti fenomeni della contemporaneità. Anche in Italia la nascita e lo sviluppo del Partito socialista e del sindacato confederale accompagnano l'ingresso della comunità nazionale nella modernizzazione in un evento di portata storica, tra innovazioni e persistenze.
I decenni a cavallo del XX secolo offrono una lettura privilegiata dell'accelerazione e decantazione dei processi in corso, dalle politiche di acculturazione e mobilitazione a quelle di inclusione sociale e culturale fino all'evoluzione del sistema di rappresentanza e di governo, consentendo di individuare in un'ottica comparata le singole specificità. Con un'inedita lettura sulla natura e sugli orientamenti della sinistra italiana, nella matrice socialista, il saggio assume i divaricanti orientamenti delle forze politiche sulla guerra mondiale come chiave interpretativa di una patria divisa, con ripercussioni di lungo periodo.
La grande guerra Della varia neutralità socialista
di Giuseppe Bedeschi Il Sole Domenica 6.12.15
Una volta scoppiata la Grande Guerra, la maggior parte dei partiti
socialisti europei non la considerarono più come un tabù e si mostrarono
sensibili all’idea della “guerra giusta”, incentrata cioè sul principio
patriottico della difesa territoriale e civile. Il 4 agosto i
socialdemocratici tedeschi votarono nel Reichstag a favore dei crediti
di guerra. Il 28 agosto i socialisti francesi assunsero un atteggiamento
analogo, al grido «pour la patrie, pour la republique, pour
l’Internationale». I socialisti italiani, invece, si dichiararono per la
«neutralità assoluta», ma, come ci ricorda Maurizio Degl’Innocenti nel
suo ultimo libro (La patria divisa. Socialismo, nazione e guerra
mondiale), l’atteggiamento dei dirigenti socialisti fu meno monolitico
di quanto si creda, e non mancarono i distinguo.
È assai significativo quello che accadde a Torino, dove alcuni giovani,
già intensamente impegnati nell’attività socialista, assunsero posizioni
assai poco ligie alla «neutralità assoluta». Quando, il 18 ottobre
1914, uscì sull’«Avanti!» il famoso articolo di Mussolini «Dalla
neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante» (in cui si
leggeva fra l’altro: «vogliamo essere […] gli spettatori inerti di
questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne, in qualche modo e in
qualche senso, i protagonisti?»), le reazioni furono discordi. Angelo
Tasca scrisse sul settimanale socialista torinese «Il grido del popolo»,
del 28 ottobre, un articolo decisamente contrario alla nuova posizione
di Mussolini. Ma sullo stesso settimanale, il 31 ottobre, Antonio
Gramsci scrisse a sua volta un articolo assai critico verso Tasca, e
molto aperto e comprensivo verso la nuova posizione di Mussolini. Il
giovane sardo, infatti, criticava la «comoda posizione della neutralità
assoluta», temendo che essa potesse indurre i socialisti «a una troppo
ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei [loro] diritti».
Gramsci sottolineava il «concretismo realistico» del direttore dell’
«Avanti!», e osservava che «i rivoluzionari che concepiscono la storia
come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di
strappi operati sulle forze attive e passive della società […] non
devono accontentarsi della formula provvisoria «neutralità assoluta», ma
devono trasformarla nell’altra, «neutralità attiva e operante».
Gramsci, prima di pubblicare il proprio articolo, l’aveva fatto leggere a
Palmiro Togliatti, che l’aveva approvato interamente. La cosa non può
stupire, perché il giovane Togliatti era decisamente interventista. La
cosa era nota nell’ambiente socialista torinese, e del resto abbiamo a
questo proposito la precisa testimonianza del fratello di Palmiro,
Eugenio (rilasciata a Giorgio Bocca): «Palmiro era stato riformato per
miopia, ma per essere conseguente al suo interventismo si arruolò
volontario nella Croce Rossa, l’unico servizio che gli permettesse di
partecipare da vicino alla guerra. Prestò servizio prima a Torino, poi
negli ospedali da campo delle immediate retrovie fino al 1916, quando la
revisione dei riformati lo fece rientrare nel servizio militare».
Quando poi, in piena guerra, prevalse nel Psi la formula «né aderire né
sabotare», si produsse fra i dirigenti socialisti una netta
differenziazione: i massimalisti si riconoscevano nella prima parte
della formula («non aderire»), i riformisti nella seconda parte («non
sabotare»). Tale differenziazione emerse nel grande discorso che Filippo
Turati pronunciò all’indomani di Caporetto, discorso con cui egli
incitò gli italiani alla resistenza, in difesa della patria invasa. Un
discorso che, come ci ricorda Degl’Innocenti, scandalizzò i
massimalisti, ma suscitò perplessità anche in alcuni compagni di
corrente di Turati: fra questi Giacomo Matteotti. Il quale, già
nell’ottobre 1914, aveva espresso in modo netto la propria posizione su
«La lotta»: «Noi non neghiamo l’esistenza della patria, ma essa non è la
nostra idealità», e ne aveva circoscritto la convergenza solo nel caso
in cui essa si identificasse con la causa della libertà, come nel 1848,
perché priva di volontà di predominio su altri.
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