Effettivamente, i tempi sono quelli giusti e sufficientemente reazionari [SGA].
La casa del filosofo ora è aperta al pubblico. La sua fede senza divinità è oggi rivalutata da scrittori come Houellebecq
Il Sole Domenica 6.12.15
Al terzo piano di un antico edificio, al 10 di rue Monsieur-le-Prince,
nel cuore di Parigi, si entra nell’appartamento di Auguste Comte
offuscati da qualche lontana reminiscenza liceale sul filosofo del
positivismo: così prosaico nell’immaginario collettivo, l’esaltatore
della scienza. Chissà, forse un uomo con i piedi ben saldi a terra,
“positivo”, proiettato sull’avvenire. Si esce da quelle stanze
dall’atmosfera rarefatta, dove aleggiano feticismo e malinconia, con la
sensazione di un’esistenza fragile, sofferta, poetica, instabile.
Sorprendentemente mistica.
Non solo: più di due secoli fa, Comte aveva già affrontato il dilemma
della Francia degli ultimi anni (tanto più pressante dopo gli
attentati), se si possa vivere solo di laicismo o se una religione sia
alla fine necessaria per strutturare una società. Il pensatore
ottocentesco le sue risposte le dette. Diventò il «pontefice» (come lo
chiamavano i suoi discepoli) di «una religione senza divinità e
trascendenze», ricorda Jean-François Braunstein, docente alla facoltà di
Filosofia della Sorbona, uno dei più grandi specialisti del padre del
positivismo.
«Quando morì, nel 1857, l’entourage di Comte, che considerava queste
stanze come una sorta di santuario – continua Braunstein -, ricomprarono
l’appartamento, che il filosofo affittava, con i soldi che loro gli
davano: lui non aveva un quattrino». Quel cenacolo di fedeli lasciò
tutto intatto. L’appartamento è stato riaperto al pubblico pochi mesi
fa, dopo un restauro per niente invasivo. Alcuni vengono a visitarlo
proprio per ammirare l’ultimo appartamento privato parigino del XIX
secolo, rimasto tale e quale, con la carta da parati blu-grigia e
tonalità sobrie che primeggiano ovunque. Poi ci sono molti turisti dal
Brasile, che agli albori della sua Repubblica, nel 1889, fu influenzato
dal modernismo di Comte. “Ordine e progresso”, il motto della bandiera
del Paese sudamericano, è del filosofo. «Aveva fiducia nella scienza, a
suo modo rivoluzionaria – aggiunge Braunstein -. Ma la rivoluzione non
doveva degenerare: ci voleva ordine. Comte era un conservatore non
retrogrado».
Altri frequentatori assidui dell’appartamento sono i lettori più
appassionati di Michel Houellebecq. Che ha citato Comte in tutti i suoi
romanzi (a parte l’ultimo, Sottomissione) e che non perde occasione per
professarsi «comtiano convinto». Il filosofo trascorse la prima parte
della sua vita a elaborare la legge dei tre stadi (l’ultimo era quello
positivo, liberazione definitiva da qualsiasi inutile metafisica). Ma in
seguito, soprattutto dopo che venne a vivere in rue Monsieur-le-Prince,
concepì una «religione dell’umanità». «Riteneva che la scienza da sola
non fosse sufficiente a tenere insieme una società – osserva Braunstein
-, ma che ci volesse una religione, ma senza il soprannaturale, né
dogmi. Dalla struttura leggera. In questo senso apprezzava l’islam, che
giudicava semplice dal punta di vista teorico, trampolino ideale verso
una religione positivista».
Per Michel Djerzinski, protagonista del romanzo Le particelle
elementari, Comte fu l’unico a capire che «la religione è un’attività
puramente sociale, basata sulla fissazione di riti, di regole e di
cerimonie». Al pari di Houellebecq, anche Régis Debray e altri pensatori
della Parigi di oggi (classificati come néo-réacs, neo-reazionari),
hanno riscoperto il Comte «religioso». E dire che alla fine
dell’Ottocento, il filosofo fu un riferimento per Jules Ferry, il
fondatore della scuola pubblica in Francia, o per lo statista Georges
Clemenceau, che nel positivismo trovarono le radici di una certa Francia
repubblicana, laica e razionale. Senza contare che l’anticolonialismo
di Comte (fu tra i rari intellettuali a opporsi all’occupazione
dell’Algeria) o le sue critiche al razzismo lo hanno fatto apprezzare
anche dalla sinistra.
Complesso Auguste Comte, anche contraddittorio. Arrivò in rue
Monsieur-le-Prince nel 1841. Caroline Massin, sua moglie, vi rimase solo
fino all’anno dopo. Poi si separarono. Comte l’aveva conosciuta nel
1821, alle Tuileries, di notte: era una prostituta. Auguste e Caroline,
donna intelligentissima e dallo spirito indipendente, battagliarono per
vent’anni. Una volta lui cercò addirittura di ucciderla. «Ho raccontato
ad alcuni psichiatri i dettagli della sua vita – sottolinea Braunstein
-. Hanno detto che probabilmente Comte era bipolare». Nel 1844 conobbe a
una cena Clotilde de Vaux, separata dal marito, che tirava su i figli
scrivendo novelle per le riviste. Fu amore a prima vista, almeno per
lui. Ma restò una relazione platonica.
Lei morì l’anno dopo, di tubercolosi. Andava spesso nell’appartamento
del filosofo. Ancora oggi, nel salotto, c’è la poltroncina imbottita
dove sedeva e il suo ritratto (angelico) sopra. Nella camera da letto,
invece, un mazzo di fiori in tessuto che un giorno Clotilde gli portò in
dono. Dopo la morte, diventò una delle divinità della «religione
dell’umanità». Negli ultimi anni della sua vita Comte, sempre più
sacerdotale, cercò di ridurre vino, sesso. E anche il cibo, come
testimonia una vecchia bilancia per pesare gli alimenti, nella sala da
pranzo.
Un dipinto che ritrae Clotilde è visibile pure sull’altare della
Cappella dell’umanità, tempio positivista. Comte ne aveva disegnato la
planimetria e scelto le decorazioni. Ma fu costruito solo dopo la sua
morte, agli inizi del Novecento, quando un pugno di seguaci brasiliani
sbarcò in nave a Marsiglia, la valigia piena di lingotti d’oro. Ci
comprarono la casa dove Clotilde aveva abitato a Parigi, al 5 di rue
Payenne, nel quartiere del Marais, per trasformarla in tempio, quello
che Comte aveva immaginato. Sulle pareti sono raffigurati una serie di
saggi del passato, che secondo il filosofo bisognava venerare, perché «i
morti governano i vivi». Sopra il ritratto di Clotilde, di bianco
vestita, con una bambina tra le braccia, svetta una frase in italiano:
“Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Per Comte l’italiano era
l’idioma dell’amore. Leggeva Petrarca e Dante. Quella lingua, anche
attraverso l’opera, che adorava (Donizzetti, in particolare), portava un
briciolo di serenità nell’esistenza di un uomo travagliato. Alla fine,
per niente positivo.
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