L’Occidente non può combattere Daesh e nello stesso tempo stringere la mano a Riad. Il jihadismo cresce grazie alla propaganda voluta dai regnanti wahabiti
di Kamel Daoud. Repubblica 30.11.15
Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è vestito meglio ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l’Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l’altra. Questo è un meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica con l’Arabia Saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su un’alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam a cui Daesh si ispira.
Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è vestito meglio ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l’Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l’altra. Questo è un meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica con l’Arabia Saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su un’alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam a cui Daesh si ispira.
Il wahabismo, un radicalismo messianico nato nel Diciottesimo secolo,
spera di ristabilire un fantomatico califfato basato sul deserto, un
libro sacro e due luoghi santi, Mecca e Medina. Nato nel massacro e nel
sangue, si caratterizza per un rapporto surreale con la donna, la
preclusione dei territori sacri ai non musulmani e leggi religiose
spietate. Ciò si traduce nell’odio ossessivo contro l’immagine e la
rappresentazione, quindi l’arte, ma anche il corpo, la nudità e la
libertà. L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come l’Occidente
lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non
notare che è il principale sponsor ideologico della cultura islamica. Le
generazioni estremiste più giovani del cosiddetto mondo arabo non erano
nate come jihadiste. Erano incubate nella Fatwa Valley, una sorta di
Vaticano islamico con un’industria immensa che produce teologi, leggi
religiose, libri, politiche editoriali e campagne media aggressive.
Si potrebbe ribattere: l’Arabia Saudita stessa non è un possibile
bersaglio di Daesh? Sì, focalizzarsi su questo significherebbe
trascurare la forza dei legami tra la famiglia regnante e il clero da
cui dipende la sua stabilità — e anche, sempre di più, la sua
precarietà. I reali sauditi sono costretti in una trappola perfetta:
indeboliti dalle leggi di successione che incoraggiano il ricambio, si
aggrappano a legami ancestrali tra il re e i predicatori. Il clero
saudita produce l’islamismo che minaccia il Paese legittimando al
contempo il regime. Bisogna vivere nel mondo arabo per capire l’immenso
potere dei canali televisivi religiosi di trasformare la società
raggiungendo i suoi anelli più vulnerabili: famiglie, donne, aree
rurali. La cultura islamica è diffusa in molti Paesi — Algeria, Marocco,
Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania. Ci sono migliaia di giornali
islamici e autorità religiose che impongono una visione unitaria del
mondo, le tradizioni e l’abbigliamento in pubblico, le leggi statali e i
costumi sociali che ritengono contaminati.
Vale la pena leggere certi giornali islamici per constatare le loro
reazioni agli attacchi di Parigi. L’Occidente è rappresentato come una
terra di “infedeli”. Gli attacchi sono il risultato dei massacri contro
l’islam. I musulmani e gli arabi sono diventati i nemici dei secolari e
degli ebrei. La questione palestinese è associata alla devastazione
dell’Iraq e al ricordo del trauma coloniale, ed è confezionata in un
discorso messianico volto a sedurre la massa. Quei discorsi vengono
diffusi all’interno della società mentre, esternamente, i leader
politici mandano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un
crimine contro l’umanità. Questa situazione totalmente schizofrenica si
accompagna alla negazione delle aree oscure dell’Arabia Saudita da parte
dell’Occidente.
Questo ci fa diffidare delle altisonanti dichiarazioni delle democrazie
occidentali sulla necessità di combattere il terrorismo. La loro guerra
non può che essere miope, in quanto mira all’effetto piuttosto che alla
causa. Dato che Daesh è anzitutto una cultura, non una milizia, come si
fa a evitare che le generazioni future si uniscano al jihadismo se
rimane intatta l’influenza della Fatwa Valley e del suo clero, della sua
cultura e della sua immensa industria editoriale?
La cura della malattia è dunque semplice? È difficile. L’Arabia Saudita
rimane un alleato dell’Occidente in numerosi scacchieri mediorientali. È
preferita all’Iran, a quel triste Daesh. Ed è qui la trappola. La
negazione crea l’illusione dell’equilibrio. Il jihadismo è denunciato
come il flagello del secolo senza considerare cosa l’abbia creato o
sostenuto. In questo modo si salvano le facce ma non le vite.
Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia
Saudita e il suo apparato religioso- industriale. Finché non si
comprende questo, si possono vincere le battaglie, ma si perderà la
guerra. I jihadisti saranno uccisi, solo per rinascere nelle generazioni
future e crescere sugli stessi libri. Gli attacchi di Parigi hanno
nuovamente evidenziato questa contraddizione, ma questa, come è accaduto
dopo l’11 settembre, rischia di essere cancellata dalle nostre analisi e
coscienze. Traduzione Ettore C. Iannelli © The New York Times
L’Europa e una Turchia islamista
di Roberto Toscano La Stampa 30.11.15
Viviamo in quella che può essere ormai definita come crisi generale del sistema internazionale, globalizzato nelle sfide e nelle minacce ma sempre più carente sul piano della governabilità, e anzi in preda a spinte centrifughe e a contrapposizioni settarie. In questo contesto l’Unione Europea, la più avanzata e più riuscita fra le esperienze di integrazione, dovrebbe rappresentare un modello della capacità di gestire i grandi problemi del nostro tempo superando le limitazioni di orizzonti ristretti all’ormai inadeguato ambito nazionale.
Ebbene, risulta invece che la Ue stenta oggi a mantenere le grandi promesse che avevano ispirato i Padri Fondatori e guidato fin qui il suo percorso di integrazione.
Molte sono le ragioni che contribuiscono a spiegare questa fase sia deludente che preoccupante, in primo luogo il fatto che si è praticamente esaurito lo spazio per quel «metodo funzionale» che si basava su graduali avanzamenti apparentemente economici e tecnico-funzionali ma in realtà mirati a una Unione sempre più politica con un orizzonte federale.
Oggi la natura politica delle scelte da operare è ormai evidente. Sono in gioco vitali questioni di sicurezza che, combinate con gli ancora irrisolti nodi della crisi economica, aumentano le spinte verso la «rinazionalizzazione», in sostanza il tentativo di salvarsi da soli riaffermando la propria sovranità e l’autonomia delle proprie scelte.
Questo è vero in primo luogo nei confronti della sfida dei grandi spostamenti di popolazioni in fuga dalla guerra ma anche dalla miseria. Una sfida rispetto alla quale l’Europa si è rivelata clamorosamente inadeguata soprattutto perché divisa ma anche perché sembra prevalere, in assenza di strategie di ampio respiro, una visione emergenziale del problema.
Non vi è dubbio che il problema sia grave e urgente anche in quanto comporta ormai evidenti ripercussioni sul piano della politica interna dei Paesi membri, dove le spinte della xenofobia e della demagogia della destra populista stanno crescendo in modo preoccupante. Ma cercare di affrontarlo in modo poco coordinato, addirittura scomposto, in chiave di emergenza minaccia di risultare fallimentare, soprattutto nella misura in cui nel farlo si tende a sacrificare non solo i principi, ma anche un realismo che non può essere soltanto quello del breve termine.
Lo vediamo ora nei rapporti con la Turchia, che l’Unione ha incontrato ieri a Bruxelles in un importante ma anche problematico vertice.
Che la Turchia sia per l’Europa un importante interlocutore appare del tutto evidente: per la sua posizione geografica, per la sua realtà e ancora di più il suo potenziale economico. Ed è anche vero che la collaborazione della Turchia risulta oggi importante per cercare di regolare e gestire il problema delle migrazioni. Giusto quindi incontrare la Turchia e dialogare con la Turchia alla ricerca di punti di convergenza. Va bene anche considerare la possibilità di fornire aiuti ad Ankara per aiutarla a strutturare una più adeguata accoglienza ai profughi siriani oltre che negoziare una liberalizzazione dei visti. Dovremmo però evitare di riprodurre lo schema dei rapporti che soprattutto noi italiani avevamo stabilito, per far fronte al problema delle migrazioni, con Mouammar Gheddafi: lui bloccava, anche con metodi indegni, il flusso di migranti verso le nostre coste e noi facevamo finta di non vedere le sue devianze internazionali e la sua repressione interna. I costi di questa politica dovrebbero ormai essere del tutto evidenti.
Nel caso della Turchia, poi, la posta in gioco è ancora più alta, dato che sul tavolo delle trattative con la Ue vi è anche la questione del rilancio del processo di adesione. Imprudentemente, il ministro per gli Affari Europei turco si è spinto a dare per scontato, prima del vertice, il passaggio al Capitolo 17 del negoziato (questioni economiche), prevedendo anche entro il 2016, l’apertura di altri «6 o 7 capitoli». La smentita europea non si è fatta attendere, ma si tratta di una smentita obbligata, e non necessariamente credibile.
L’Italia è sempre stata favorevole alla prospettiva di un’adesione turca all’Unione, e in questo senso dovremmo solo rallegrarci che anche i partners in precedenza riluttanti stiano cambiando idea, consapevoli dell’importanza della Turchia e del suo ruolo.
Sia i principi che il realismo non ci permettono tuttavia di eludere un cruciale interrogativo politico. Il processo di adesione era stato congelato sostanzialmente perché la Turchia era un Paese a maggioranza musulmana, anche se laico, e per questo motivo da parte della maggioranza dei Paesi membri della Unione si dubitava della sua vocazione europea. Ma come si fa oggi, senza perdere credibilità, essere più indulgenti nei confronti di una Turchia non solo islamica, ma islamista - una Turchia al cui interno si reprime il dissenso politico e si attacca la libertà di stampa, e la cui politica regionale è caratterizzata da una pesante ambiguità sulla questione siriana, con una connivenza di fatto nei confronti del jihadismo più radicale?
Dovremmo invece ascoltare il messaggio che il direttore e un altro giornalista di Cumhuriyet hanno inviato ai leader europei dalla prigione in cui sono stati rinchiusi per «spionaggio», cioè per avere rivelato il ruolo dei servizi turchi nel rifornire di armi il jihadismo radicale. Un messaggio che ci esorta a non dimenticare i nostri principi, a non transigere sui diritti umani e sulla libertà di espressione. Nel nostro interesse e in quello del popolo turco, che dovremmo accompagnare in un processo di consolidamento della democrazia piuttosto che abbandonare a una deriva autoritaria nel nome di una Realpolitik di corto respiro.
di Roberto Toscano La Stampa 30.11.15
Viviamo in quella che può essere ormai definita come crisi generale del sistema internazionale, globalizzato nelle sfide e nelle minacce ma sempre più carente sul piano della governabilità, e anzi in preda a spinte centrifughe e a contrapposizioni settarie. In questo contesto l’Unione Europea, la più avanzata e più riuscita fra le esperienze di integrazione, dovrebbe rappresentare un modello della capacità di gestire i grandi problemi del nostro tempo superando le limitazioni di orizzonti ristretti all’ormai inadeguato ambito nazionale.
Ebbene, risulta invece che la Ue stenta oggi a mantenere le grandi promesse che avevano ispirato i Padri Fondatori e guidato fin qui il suo percorso di integrazione.
Molte sono le ragioni che contribuiscono a spiegare questa fase sia deludente che preoccupante, in primo luogo il fatto che si è praticamente esaurito lo spazio per quel «metodo funzionale» che si basava su graduali avanzamenti apparentemente economici e tecnico-funzionali ma in realtà mirati a una Unione sempre più politica con un orizzonte federale.
Oggi la natura politica delle scelte da operare è ormai evidente. Sono in gioco vitali questioni di sicurezza che, combinate con gli ancora irrisolti nodi della crisi economica, aumentano le spinte verso la «rinazionalizzazione», in sostanza il tentativo di salvarsi da soli riaffermando la propria sovranità e l’autonomia delle proprie scelte.
Questo è vero in primo luogo nei confronti della sfida dei grandi spostamenti di popolazioni in fuga dalla guerra ma anche dalla miseria. Una sfida rispetto alla quale l’Europa si è rivelata clamorosamente inadeguata soprattutto perché divisa ma anche perché sembra prevalere, in assenza di strategie di ampio respiro, una visione emergenziale del problema.
Non vi è dubbio che il problema sia grave e urgente anche in quanto comporta ormai evidenti ripercussioni sul piano della politica interna dei Paesi membri, dove le spinte della xenofobia e della demagogia della destra populista stanno crescendo in modo preoccupante. Ma cercare di affrontarlo in modo poco coordinato, addirittura scomposto, in chiave di emergenza minaccia di risultare fallimentare, soprattutto nella misura in cui nel farlo si tende a sacrificare non solo i principi, ma anche un realismo che non può essere soltanto quello del breve termine.
Lo vediamo ora nei rapporti con la Turchia, che l’Unione ha incontrato ieri a Bruxelles in un importante ma anche problematico vertice.
Che la Turchia sia per l’Europa un importante interlocutore appare del tutto evidente: per la sua posizione geografica, per la sua realtà e ancora di più il suo potenziale economico. Ed è anche vero che la collaborazione della Turchia risulta oggi importante per cercare di regolare e gestire il problema delle migrazioni. Giusto quindi incontrare la Turchia e dialogare con la Turchia alla ricerca di punti di convergenza. Va bene anche considerare la possibilità di fornire aiuti ad Ankara per aiutarla a strutturare una più adeguata accoglienza ai profughi siriani oltre che negoziare una liberalizzazione dei visti. Dovremmo però evitare di riprodurre lo schema dei rapporti che soprattutto noi italiani avevamo stabilito, per far fronte al problema delle migrazioni, con Mouammar Gheddafi: lui bloccava, anche con metodi indegni, il flusso di migranti verso le nostre coste e noi facevamo finta di non vedere le sue devianze internazionali e la sua repressione interna. I costi di questa politica dovrebbero ormai essere del tutto evidenti.
Nel caso della Turchia, poi, la posta in gioco è ancora più alta, dato che sul tavolo delle trattative con la Ue vi è anche la questione del rilancio del processo di adesione. Imprudentemente, il ministro per gli Affari Europei turco si è spinto a dare per scontato, prima del vertice, il passaggio al Capitolo 17 del negoziato (questioni economiche), prevedendo anche entro il 2016, l’apertura di altri «6 o 7 capitoli». La smentita europea non si è fatta attendere, ma si tratta di una smentita obbligata, e non necessariamente credibile.
L’Italia è sempre stata favorevole alla prospettiva di un’adesione turca all’Unione, e in questo senso dovremmo solo rallegrarci che anche i partners in precedenza riluttanti stiano cambiando idea, consapevoli dell’importanza della Turchia e del suo ruolo.
Sia i principi che il realismo non ci permettono tuttavia di eludere un cruciale interrogativo politico. Il processo di adesione era stato congelato sostanzialmente perché la Turchia era un Paese a maggioranza musulmana, anche se laico, e per questo motivo da parte della maggioranza dei Paesi membri della Unione si dubitava della sua vocazione europea. Ma come si fa oggi, senza perdere credibilità, essere più indulgenti nei confronti di una Turchia non solo islamica, ma islamista - una Turchia al cui interno si reprime il dissenso politico e si attacca la libertà di stampa, e la cui politica regionale è caratterizzata da una pesante ambiguità sulla questione siriana, con una connivenza di fatto nei confronti del jihadismo più radicale?
Dovremmo invece ascoltare il messaggio che il direttore e un altro giornalista di Cumhuriyet hanno inviato ai leader europei dalla prigione in cui sono stati rinchiusi per «spionaggio», cioè per avere rivelato il ruolo dei servizi turchi nel rifornire di armi il jihadismo radicale. Un messaggio che ci esorta a non dimenticare i nostri principi, a non transigere sui diritti umani e sulla libertà di espressione. Nel nostro interesse e in quello del popolo turco, che dovremmo accompagnare in un processo di consolidamento della democrazia piuttosto che abbandonare a una deriva autoritaria nel nome di una Realpolitik di corto respiro.
Gli amici-nemici dell’Occidente al fronte
di Claudio Gatti Il Sole 1.12.15
Nel Medio Oriente, si dice, non ci sono amici o nemici permanenti. Dipende dal momento. Ma la categoria più pericolosa è una terza: gli amici-nemici. Il dubbio è che Turchia e Qatar appartengano a quest’ultima categoria. La certezza è che i loro interessi, sia tattici sia strategici, non coincidono con quelli degli Stati Uniti e dell’Europa. In Libia e in Siria in particolare, anziché sulle forze moderate turchi e qatarini hanno scelto di puntare sulle formazioni islamiste.
«Per il Qatar i motivi non sono ideologici, ma geopolitici. Doha riteneva che dalla Primavera araba sarebbero usciti vincenti movimenti islamici come i Fratelli musulmani. E ha deciso di appoggiarli non perché ne condividesse i programmi ma perché erano convinti fossero i cavalli vincenti e speravano di trarre beneficio dal loro successo», spiega Giorgio Cafiero, co-fondatore della società di consulenza Gulf State Analytics. «In più era un modo per innervosire i loro vicini/rivali sauditi, che vedono i Fratelli musulmani come il fumo negli occhi».
«La strategia politica dei qatarini è difficilissima da capire, anche perché a Doha non c’è pubblico dibattito e tutto viene deciso da un numero ristrettissimo di persone. Ma a mio parere il finanziamento a formazioni islamiste estere è una sorta di pizzo: il Qatar paga per non avere problemi con terroristi che potrebbero sceglierlo come bersaglio per via della base anglo-americana al Udeid», azzarda Daniel Serwer, ex vice ambasciatore americano a Roma oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington.
La stessa logica, dei finanziamenti in cambio della non-belligeranza, potrebbe valere per la Turchia, che assieme al Qatar è l’unico altro Stato musulmano ad aver aperto il proprio suolo a basi americane o europee. Alcuni pensano che anche per questo Ankara abbia per lungo tempo lasciato che Isis si servisse pressoché liberamente della cosiddetta “Autostrada della Jihad”, e cioè la rotta dalla Turchia alla Siria attraverso la quale il Califfato di al-Baghdadi si è rifornito di armi e combattenti stranieri.
Ma se persino dopo che Isis ha scatenato una serie di attentati in terra turca Ankara non ha scatenato le proprie forze armate contro il Califfato limitandosi ad arginare i flussi delle sue linee di rifornimento e a concedere l’uso delle proprie basi agli americani, è perché in Siria la priorità non è quella di ridimensionare al-Baghdadi bensì i curdi.
«Nonostante gli annunci di rito, Ankara non ha mai assunto un atteggiamento veramente belligerante nei confronti dell’Isis. A parte controlli serrati al confine, ha fatto ben poco», conferma Wolfango Piccoli, direttore della ricerca della società di consulenza strategica Teneo International. «Per i turchi la priorità è combattere gruppi curdi ed evitare che creino una fascia da loro controllata lungo il confine che dalla Siria porti all’Iraq. E comunque Ankara non è disposta ad assumere un ruolo attivo contro Isis se non si risolve prima la questione di Assad. In termini di importanza, per i turchi l’ordine è: curdi, Assad, Isis. E questo significa che con l’Occidente c’è un problema di interessi chiaramente contrastanti».
Non è un contrasto da niente. Perché, come si legge in un recente rapporto del Servizio di ricerca del Congresso americano, «i curdi delle Unità di protezione popolare, o Ypg, sono ritenuti l’unica forza militare in grado di contrastare l’Isis sul campo». E poiché, dopo l’esperienza in Iraq, a Washington c’è scarso appetito per un intervento che preveda l’invio di militari, i curdi offrono l’unica possibile alternativa.
«L’Ypg è legato agli indipendisti del Pkk, il Partito dei lavoratori di Abdullah Öcalan, nemico storico dei turchi. E Ankara teme che se all’Ypg fosse consentito di creare un proto-Stato curdo in Siria, non solo potrebbe dare supporto tattico e strategico alle operazioni del Pkk in Turchia ma anche alimentare indirettamente gli aneliti indipendistici dei curdi della Turchia», osserva Cafiero, secondo il quale neppure dopo Parigi ci si deve aspettare che Ankara o Doha facciano scelte differenti: «A noi la loro strategia può sembrare paradossale, ma dal loro punto di vista non lo è affatto. Anzi, finora è risultata vincente. Perché entrambi i Paesi sono riusciti a promuovere interessi nazionali in diretto contrasto con quelli occidentali senza in alcun modo inimicarsi l’Occidente e pagarne il prezzo».
Basti pensare alla reazione di Usa ed Europa dopo l’abbattimento del Sukhoi-24 russo in volo lungo il confine turco-siriano: nessuno si è azzardato a criticare Erdogan. O alla vendita di elicotteri Apache al Qatar per 11 miliardi di dollari siglata il 14 luglio dell’anno scorso a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì «di importanza critica» la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere «felice che continui a diventare sempre più stretta».
Insomma, la realtà è che gli Stati Uniti non ritengono di avere alternative nel teatro mediorientale. E quindi si tengono stretti amici-nemici come Turchia e Qatar.
di Claudio Gatti Il Sole 1.12.15
Nel Medio Oriente, si dice, non ci sono amici o nemici permanenti. Dipende dal momento. Ma la categoria più pericolosa è una terza: gli amici-nemici. Il dubbio è che Turchia e Qatar appartengano a quest’ultima categoria. La certezza è che i loro interessi, sia tattici sia strategici, non coincidono con quelli degli Stati Uniti e dell’Europa. In Libia e in Siria in particolare, anziché sulle forze moderate turchi e qatarini hanno scelto di puntare sulle formazioni islamiste.
«Per il Qatar i motivi non sono ideologici, ma geopolitici. Doha riteneva che dalla Primavera araba sarebbero usciti vincenti movimenti islamici come i Fratelli musulmani. E ha deciso di appoggiarli non perché ne condividesse i programmi ma perché erano convinti fossero i cavalli vincenti e speravano di trarre beneficio dal loro successo», spiega Giorgio Cafiero, co-fondatore della società di consulenza Gulf State Analytics. «In più era un modo per innervosire i loro vicini/rivali sauditi, che vedono i Fratelli musulmani come il fumo negli occhi».
«La strategia politica dei qatarini è difficilissima da capire, anche perché a Doha non c’è pubblico dibattito e tutto viene deciso da un numero ristrettissimo di persone. Ma a mio parere il finanziamento a formazioni islamiste estere è una sorta di pizzo: il Qatar paga per non avere problemi con terroristi che potrebbero sceglierlo come bersaglio per via della base anglo-americana al Udeid», azzarda Daniel Serwer, ex vice ambasciatore americano a Roma oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington.
La stessa logica, dei finanziamenti in cambio della non-belligeranza, potrebbe valere per la Turchia, che assieme al Qatar è l’unico altro Stato musulmano ad aver aperto il proprio suolo a basi americane o europee. Alcuni pensano che anche per questo Ankara abbia per lungo tempo lasciato che Isis si servisse pressoché liberamente della cosiddetta “Autostrada della Jihad”, e cioè la rotta dalla Turchia alla Siria attraverso la quale il Califfato di al-Baghdadi si è rifornito di armi e combattenti stranieri.
Ma se persino dopo che Isis ha scatenato una serie di attentati in terra turca Ankara non ha scatenato le proprie forze armate contro il Califfato limitandosi ad arginare i flussi delle sue linee di rifornimento e a concedere l’uso delle proprie basi agli americani, è perché in Siria la priorità non è quella di ridimensionare al-Baghdadi bensì i curdi.
«Nonostante gli annunci di rito, Ankara non ha mai assunto un atteggiamento veramente belligerante nei confronti dell’Isis. A parte controlli serrati al confine, ha fatto ben poco», conferma Wolfango Piccoli, direttore della ricerca della società di consulenza strategica Teneo International. «Per i turchi la priorità è combattere gruppi curdi ed evitare che creino una fascia da loro controllata lungo il confine che dalla Siria porti all’Iraq. E comunque Ankara non è disposta ad assumere un ruolo attivo contro Isis se non si risolve prima la questione di Assad. In termini di importanza, per i turchi l’ordine è: curdi, Assad, Isis. E questo significa che con l’Occidente c’è un problema di interessi chiaramente contrastanti».
Non è un contrasto da niente. Perché, come si legge in un recente rapporto del Servizio di ricerca del Congresso americano, «i curdi delle Unità di protezione popolare, o Ypg, sono ritenuti l’unica forza militare in grado di contrastare l’Isis sul campo». E poiché, dopo l’esperienza in Iraq, a Washington c’è scarso appetito per un intervento che preveda l’invio di militari, i curdi offrono l’unica possibile alternativa.
«L’Ypg è legato agli indipendisti del Pkk, il Partito dei lavoratori di Abdullah Öcalan, nemico storico dei turchi. E Ankara teme che se all’Ypg fosse consentito di creare un proto-Stato curdo in Siria, non solo potrebbe dare supporto tattico e strategico alle operazioni del Pkk in Turchia ma anche alimentare indirettamente gli aneliti indipendistici dei curdi della Turchia», osserva Cafiero, secondo il quale neppure dopo Parigi ci si deve aspettare che Ankara o Doha facciano scelte differenti: «A noi la loro strategia può sembrare paradossale, ma dal loro punto di vista non lo è affatto. Anzi, finora è risultata vincente. Perché entrambi i Paesi sono riusciti a promuovere interessi nazionali in diretto contrasto con quelli occidentali senza in alcun modo inimicarsi l’Occidente e pagarne il prezzo».
Basti pensare alla reazione di Usa ed Europa dopo l’abbattimento del Sukhoi-24 russo in volo lungo il confine turco-siriano: nessuno si è azzardato a criticare Erdogan. O alla vendita di elicotteri Apache al Qatar per 11 miliardi di dollari siglata il 14 luglio dell’anno scorso a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì «di importanza critica» la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere «felice che continui a diventare sempre più stretta».
Insomma, la realtà è che gli Stati Uniti non ritengono di avere alternative nel teatro mediorientale. E quindi si tengono stretti amici-nemici come Turchia e Qatar.
di Claudio Gatti Il Sole 1.12.15
Nella lotta all’Isis tutto sembra chiaro: da una parte la civiltà
moderna, dall’altra il terrore oscurantista. Nessuna via di mezzo. Ma è
veramente così? Per esempio ci si può fidare fino in fondo delle
intenzioni di Turchia e Qatar? E non è che gli stessi Stati Uniti
abbiano in qualche modo concorso ad armare formazioni terroristiche in
Siria?
Per ora nessuno si azzarda a fare queste domande ad alta voce. Ma i dubbi circolano. E per buone ragioni. Da un’inchiesta del Sole 24 Ore risulta infatti evidente che Turchia e Qatar non solo hanno interessi in contrasto con chi vuole sconfiggere il terrorismo islamista, ma hanno probabilmente armato formazioni estremiste associate a quel terrorismo. Sono inoltre emersi indizi che portano a pensare che anche gli Stati Uniti possano aver agevolato spedizioni di armi a militanti islamisti in Siria, la terra del Califfato.
Da anni Washington teme che Ankara e Doha diano armi a formazioni islamiste sia in Libia sia in Siria. Ma a far pensare che gli stessi Stati Uniti li abbiano aiutati a farlo è una serie di voli di aerei da trasporto militare denunciata dal New York Times e oggetto di un’inchiesta dell’Onu.
Il sospetto che quegli aerei trasportassero armi non è finora stato suffragato da prove concrete, ma alcuni dati sono stati accertati. Si sa per esempio che i C-17 utilizzati per la spedizione erano qatarini, che i destinatari dei carichi trasportati erano turchi e che a fornire pianificazione e logistica per quei voli sono stati degli americani. Ma non americani qualsiasi, bensì funzionari di una società che tempo fa è stata chiamata dai media statunitensi «l’agente di viaggio della Cia». La qual cosa porta ovviamente a dedurre che il carico di quegli aerei non consistesse in beni umanitari.
Per capire la fondatezza di questo scenario occorre conoscere meglio il ruolo, o i ruoli giocati da Ankara e Doha.
Formalmente Turchia e Qatar stanno dalla parte nostra. La prima è uno storico partner commerciale, il secondo investe da tempo un fiume di petrodollari negli Usa e in Europa, Italia inclusa. Ed entrambi continuano a consentire quello che nessun altro Paese musulmano consente: l’uso del proprio territorio alle forze armate occidentali. Della Nato per quel che riguarda la Turchia, degli Stati Uniti e Gran Bretagna per il Qatar.
Nella lotta al terrorismo Turchia e Qatar non sono però semplicemente negligenti. Hanno interessi opposti a quelli del mondo occidentale. E lo stanno dimostrando concretamente in tre dei grandi punti caldi del momento: Israele-Gaza-West Bank, Libia e Siria. Il tutto sotto gli occhi preoccupati ma anche accondiscendenti dell’intelligence americana. E qui è inquietante il parallelo con al Qaeda, l’organizzazione creata da alcuni dei militanti islamici che Washington aveva aiutato nel combattere l’invasore sovietico in Afghanistan negli anni ’80.
Nel 2009, in un messaggio classificato “segreto” ma reso pubblico da Wikileaks, il dipartimento di Stato definiva il grado di collaborazione del Qatar nell’anti-terrorismo «il più basso della regione». Nell’ottobre dell’anno scorso, l’allora sottosegretario al Tesoro Usa David Cohen ha chiamato il Qatar «permissivo» in materia di finanziamento al terrorismo.
Nell’elenco dei «agevolatori finanziari del terrorismo» redatto dal dipartimento del Tesoro si trovano ben 16 qatarini, e cinque cittadini di altri Paesi arabi che operano in Qatar. Tra questi ultimi spicca il tunisino Tariq Al-Awni Al-Harzi, che il Tesoro americano definisce «un funzionario di alto livello di Isis (…) responsabile del reclutamento di cittadini nordafricani ed europei (…) il quale, nel settembre del 2013, ha fatto in modo che lo Stato islamico ricevesse due milioni di dollari da un finanziatore di base in Qatar con istruzioni specifiche di usare quella somma in operazioni militari».
E poi c’è Hamas, la formazione palestinese che Usa e Unione europea hanno incluso nell’elenco dei gruppi terroristici. Nel 1999, quando il vertice di Hamas fu espulso da Amman su ordine del re giordano, il suo leader supremo, Khaled Meshaal, salì a bordo di un jet dell’Aeronautica militare del Qatar diretto a Doha, dove ha risieduto fino al 2001, quando si è trasferito a Damasco. Nel 2012, subito prima che Hamas decidesse di schierarsi con i ribelli sunniti insorti contro Assad, Meshaal è tornato a Doha. E nel 2013, quando Hamas ha deciso di riaprire un quartier generale distaccato all’estero, lo ha fatto a Istanbul, dove è stato accolto a braccia aperte dal vertice dell’Akp, l’attuale partito governativo del presidente Recep Tayyip Erdogan.
A dirigere la sede di Istanbul è Saleh al-Aruri, uno dei fondatori dell’ala militare dell’organizzazione palestinese. Secondo i servizi di sicurezza israeliani, da Istanbul, al-Aruri avrebbe coordinato il rapimento e l’omicidio di tre giovani ebrei, pianificato la defenestrazione del presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen e organizzato un piano terroristico che prevedeva un attacco allo stadio di Gerusalemme.
Veniamo a un altro punto caldo del momento, la Libia. Nel rapporto consegnato nel marzo del 2013 al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dal cosiddetto “Gruppo di esperti” si legge che il Qatar ha giocato «un ruolo fondamentale» nelle forniture di materiale bellico – armi e munizioni – alle forze ribelli libiche. E che nonostante le smentite delle autorità qatarine, «il Qatar ha violato l’embargo sui materiali militari».
La Turchia non sembra essere stata da meno, e secondo alcuni ha continuato ad armare le forze islamiste di Tripoli fino all’inizio di quest’anno. «La Turchia sta continuando a esportare armi in Libia», ha denunciato nel febbraio scorso Abdullah al-Thinni, allora primo ministro del Governo di Tobruk, quello riconosciuto a livello internazionale. Il mese prima era stato il presidente del Parlamento di Tobruk a sostenere che «la Turchia ancora supporta le milizie terroristiche in Libia».
Non è facile stabilire se dalla Turchia continuino ad arrivare armi in Libia in violazione dell’embargo previsto dalla Risoluzione 1970, approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu il 26 febbraio 2011. Ci sono però evidenze che siano state spedite tra il 2013 e la fine del 2014.
In un suo rapporto il Gruppo di esperti dell’Onu ha confermato che il 20 febbraio 2013 armi e munizioni sono state trovate dalla polizia doganale greca a bordo di una nave proveniente dalla Turchia, diretta in Libia e appartenente a un armatore siriano condannato per traffico d’armi.
Così come ha confermato che a bordo del mercantile Nour M, diretto a Tripoli e perquisito dai doganieri greci nel novembre del 2013, sono stati trovati 55 container con 1.103 tonnellate di munizioni dirette a Tripoli. Dalla documentazione sequestrata in quell’occasione è emerso che il cargo proveniva dalla Ukrinmash, società di armamenti ucraina e che a fare da broker era stata la Tss Silah, una società turca che in una nota interna resa pubblica da Wikileaks il Dipartimento di Stato definisce «broker di armi turco».
Il Gruppo di esperti ha inoltre riportato al Consiglio di Sicurezza di aver ricevuto informazioni riguardanti il trasporto di materiale militare su un Airbus A320 della linea aerea libica Afriqiyah che il 17 settembre 2014 è volato da Istanbul a Tripoli: «Il Gruppo ha intervistato un passeggero di quel volo che ha confermato di aver visto casse di materiale militare scaricate dall’aereo. Un tipico Airbus A320 può accomodare 150 passeggeri ma il testimone ha spiegato che solo 15 bagagli sono stati scaricati e quando i passeggeri si sono lamentati perché i loro bagagli erano stati lasciati a Istanbul, i miliziani hanno ordinato loro di lasciare l’aeroporto».
Ancora più recente la segnalazione riguardante un volo operato da un’altra linea aerea libica che il 13 novembre 2014 da Istanbul è arrivato a Misurata e che gli esperti sospettano abbia trasportato materiale militare.
In uno dei suoi rapporti il Gruppo di esperti dell’Onu ha insinuato che la Turchia ha doppiamente violato la Risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza, la quale vieta sia l’importazione di armi in Libia sia l’esportazione dalla Libia. «A detta di fonti attendibili, dalla Libia sono state trasportate armi in Siria con voli decollati dall’aeroporto Mitiga di Tripoli o da quello di Benina a Bengasi e atterrati ad Ankara o Antakya e con navi approdate a Mersin e Iskenderun. Da lì il materiale sarebbe stato trasferito su camion che avrebbero attraversato la frontiera con la Siria a Reyhanli e Kilis. Membri dell’opposizione siriana e combattenti libici reduci della Siria ascoltati dal Gruppo hanno detto che a supervisionare il trasferimento e la consegna delle armi a elementi dell’opposizione siriana sono stati funzionari turchi».
Agli esperti dell’Onu il Governo di Ankara ha negato «di essere a conoscenza di trasferimenti di armi dalla Libia alla Turchia». Ma la vicenda del peschereccio libico al-Entisar smentisce la smentita. Nel settembre del 2012 il New York Times aveva riportato che quel peschereccio era salpato da Bengasi e aveva trasportato un carico di armi a Iskenderun, sulla costa meridionale turca, poco a nord del confine con la Siria. Il Gruppo ha chiesto dettagli alle autorità turche e si è sentito rispondere che «trattandosi di beni umanitari, non è stata condotta alcuna ispezione del carico». Ma pochi mesi dopo, il 21 aprile 2013, lo stesso peschereccio è arrivato nel porto di Istanbul con un carico diretto in Libia che di umanitario non aveva proprio nulla. Come si legge nel rapporto degli esperti Onu, il cosiddetto “manifesto di carico” includeva infatti «due maschere antigas, 199 pistole da 7,65 millimetri, 214 pistole da 9 millimetri, 1.000 fucili a pompa, 5.000 munizioni da 7,65 mm e 251mila cartucce per fucili».
Chi abbia orchestrato quella spedizione non è stato mai stabilito. Il sospetto è che sia stato il Mit, il servizio di intelligence di Ankara che secondo il quotidiano di opposizione Cumhuriyet sarebbe responsabile di un convoglio di camion casualmente intercettato dalla polizia al confine con la Siria nel gennaio del 2014 con un carico di casse piene di armi e munizioni. Per quello scoop, il 26 novembre scorso il direttore di Cumhuriyet Can Dundar e il capo della redazione di Ankara Erdem Gul sono stati arrestati su richiesta del Tribunale di Istanbul. A innescare la reazione giudiziaria era stato lo stesso presidente Erdogan, il quale ha prima promesso che i due avrebbero «pagato un duro prezzo» e poi presentato di persona una denuncia per tradimento e divulgazione di segreti di Stato. Se in quelle casse ci fossero stati beni umanitari, come Ankara ha sostenuto con poca convinzione, quelle accuse non si spiegherebbero. E adesso i due giornalisti non rischierebbero l’ergastolo.
Al di là dell’origine di quello specifico convoglio è certamente impensabile che la cosiddetta “autostrada della Jihad”, la rotta che il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi ha per anni usato per portare jihadisti stranieri e rifornimenti dalla Turchia in Siria, non fosse monitorata dalle forze di sicurezza di Ankara.
Come è difficile credere che tutte queste iniziative turco-qatarine in Libia e Siria siano passate inosservate agli americani. Al contrario, ci sono elementi tangibili che portano a sospettare che Washington le abbia assecondate.
Dopo aver scritto di una direttiva presidenziale segreta di Barack Obama che agli inizi del 2011 autorizzava la Cia ad armare i ribelli anti-Gheddafi, il New York Times ha rivelato che, «poche settimane dopo aver patrocinato l’invio di armi dal Qatar in Libia nella primavera del 2011, la Casa Bianca ha cominciato a ricevere informazioni che quelle armi stavano andando a militanti islamisti». Nello stesso articolo si diceva che in Siria le cose erano o meno andate nello stesso modo: «Quando il Qatar ha cominciato a inviare aiuti militari a gruppi dell’opposizione siriana, l’amministrazione Obama non ha fatto obiezioni. Ma adesso ci sono crescenti preoccupazioni che, come in Libia, i qatarini stiano equipaggiando i combattenti “sbagliati”».
Queste preoccupazioni non sembrano aver spinto gli americani ad attivarsi per contrastare i traffici di armi dalla Libia alla Siria. Semmai è vero il contrario. A farlo pensare è un episodio particolare in cui il possibile trasferimento di materiale militare ha una triplice impronta: qatarina, turca e americana. Ci riferiamo a una serie di voli di C-17, aerei da trasporto militare del Qatar denunciata il 21 marzo 2013 sempre dal New York Times.
I soliti esperti dell’Onu hanno indagato anche su questo. Dopo aver ottenuto i piani di volo dei C-17 volati dalla Libia in Qatar, gli esperti hanno appurato che Doha non era la loro destinazione finale. «I dati dei voli in questione indicano che in ogni singola occasione, dopo essere atterrati a Doha, i C-17 sono ripartiti per Ankara», si legge nel rapporto. Quest’ultima rotta è risultata in verità trafficatissima: «Tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2013, l’Aeronautica militare del Qatar ha operato 28 voli tra Doha e Ankara e uno tra Doha e Gaziantep, un aeroporto turco nei pressi del confine con la Siria», scrivono gli esperti.
Il Gruppo ha inoltre scoperto che ai voli da Tripoli e Bengasi a Doha era stato concesso uno speciale nullaosta diplomatico-militare, solitamente utilizzato per il trasporto di armi o equipaggiamento bellico. Poiché, come si legge nel rapporto, «per ottenere il numero di nullaosta diplomatico-militare il richiedente deve generalmente fornire dettagli precisi sulla natura dei voli e sul carico trasportato», gli esperti hanno chiesto chiarimenti e dettagli alle autorità di tre Paesi i cui spazi aerei erano lungo la rotta percorsa - Grecia, Egitto e Arabia Saudita - e alla società responsabile dei piani di volo.
Ma con scarsi risultati. «La Grecia ha risposto di non aver traccia di alcuna richiesta o concessione di nullaosta diplomatico-militare per quei voli, comunicando però che il 14 e 15 gennaio un aereo della Aeronautica militare qatarina è volato ai margini dello spazio aereo greco», si legge nel rapporto. «L’Egitto ha risposto che il Qatar ha richiesto un numero di nullaosta diplomatico-militare al fine di procedere alla rotazione del personale di guardia dell’ambasciata qatarina a Tripoli. L’Arabia Saudita non ha risposto».
Più reticente di tutti è risultata la società responsabile dei piani di volo. Gli esperti hanno chiesto i dettagli sui nullaosta diplomatici per i voli in questione, i manifesti di carico e l’elenco di tutti i voli operati dall’Aeronautica militare qatarina da e verso la Libia a partire dal luglio 2012. Ma non hanno ricevuto risposta su nulla. «La società ha detto di non aver partecipato alle procedure per l’ottenimento dei nullaosta e di non conoscere il carico di quei voli. Né ha fornito l’elenco dei voli richiesti dal Gruppo», hanno scritto gli esperti.
Che dei C-17 probabilmente carichi di armi potessero passare inosservati agli americani è di per sé improbabile. Ma a renderlo ancora più improbabile è la tappa intermedia fatta da quegli aerei da trasporto. La base di Al Udeid è infatti il cosiddetto “quartier generale avanzato” del comando mediorientale delle Forze armate americane, il Central Command, e oltre a ospitare il 379° Stormo dell’Usaf è sede anche dell’83° Stormo della Raf, l’Aeronautica britannica. Insomma, è una base anglo-americana quasi più che qatarina.
A far pensare che Washington non solo sapesse di quei voli e del loro carico ma li avesse assistiti, è un dettaglio notato dal Sole 24 Ore: la società responsabile della pianificazione dei voli di quei C-17 era la Jeppesen. Non è una società qualsiasi, bensì la controllata di Boeing, un colosso industriale che deve il 30% del suo fatturato al Pentagono, scelta dalla Cia per una delle delicate operazioni degli ultimi 15 anni: la campagna di extraordinary rendition, cioè la cattura extragiudiziaria di soggetti che dopo la strage dell’11 settembre erano sospettati di rapporti con al Qaeda.
Come emerso da un’inchiesta del Sole 24 Ore sulla rendition di Kessim Britel, un italiano di origine marocchina, a occuparsi della preparazione ed esecuzione dei piani di volo del jet privato usato per trasferirlo segretamente in un carcere del Marocco era infatti stata proprio la Jeppesen.
Contattata dal Sole 24 Ore, la sussidiaria della Boeing non ha voluto né smentire né confermare di aver dato supporto logistico a quei voli, mentre la Cia ci ha detto di «non poter fare commenti».
Il fatto rimane che a fornire assistenza a quei C-17 qatarini è stata una società nota come Il Sole 1.12.15“l’agente di viaggio della Cia”.
Per ora nessuno si azzarda a fare queste domande ad alta voce. Ma i dubbi circolano. E per buone ragioni. Da un’inchiesta del Sole 24 Ore risulta infatti evidente che Turchia e Qatar non solo hanno interessi in contrasto con chi vuole sconfiggere il terrorismo islamista, ma hanno probabilmente armato formazioni estremiste associate a quel terrorismo. Sono inoltre emersi indizi che portano a pensare che anche gli Stati Uniti possano aver agevolato spedizioni di armi a militanti islamisti in Siria, la terra del Califfato.
Da anni Washington teme che Ankara e Doha diano armi a formazioni islamiste sia in Libia sia in Siria. Ma a far pensare che gli stessi Stati Uniti li abbiano aiutati a farlo è una serie di voli di aerei da trasporto militare denunciata dal New York Times e oggetto di un’inchiesta dell’Onu.
Il sospetto che quegli aerei trasportassero armi non è finora stato suffragato da prove concrete, ma alcuni dati sono stati accertati. Si sa per esempio che i C-17 utilizzati per la spedizione erano qatarini, che i destinatari dei carichi trasportati erano turchi e che a fornire pianificazione e logistica per quei voli sono stati degli americani. Ma non americani qualsiasi, bensì funzionari di una società che tempo fa è stata chiamata dai media statunitensi «l’agente di viaggio della Cia». La qual cosa porta ovviamente a dedurre che il carico di quegli aerei non consistesse in beni umanitari.
Per capire la fondatezza di questo scenario occorre conoscere meglio il ruolo, o i ruoli giocati da Ankara e Doha.
Formalmente Turchia e Qatar stanno dalla parte nostra. La prima è uno storico partner commerciale, il secondo investe da tempo un fiume di petrodollari negli Usa e in Europa, Italia inclusa. Ed entrambi continuano a consentire quello che nessun altro Paese musulmano consente: l’uso del proprio territorio alle forze armate occidentali. Della Nato per quel che riguarda la Turchia, degli Stati Uniti e Gran Bretagna per il Qatar.
Nella lotta al terrorismo Turchia e Qatar non sono però semplicemente negligenti. Hanno interessi opposti a quelli del mondo occidentale. E lo stanno dimostrando concretamente in tre dei grandi punti caldi del momento: Israele-Gaza-West Bank, Libia e Siria. Il tutto sotto gli occhi preoccupati ma anche accondiscendenti dell’intelligence americana. E qui è inquietante il parallelo con al Qaeda, l’organizzazione creata da alcuni dei militanti islamici che Washington aveva aiutato nel combattere l’invasore sovietico in Afghanistan negli anni ’80.
Nel 2009, in un messaggio classificato “segreto” ma reso pubblico da Wikileaks, il dipartimento di Stato definiva il grado di collaborazione del Qatar nell’anti-terrorismo «il più basso della regione». Nell’ottobre dell’anno scorso, l’allora sottosegretario al Tesoro Usa David Cohen ha chiamato il Qatar «permissivo» in materia di finanziamento al terrorismo.
Nell’elenco dei «agevolatori finanziari del terrorismo» redatto dal dipartimento del Tesoro si trovano ben 16 qatarini, e cinque cittadini di altri Paesi arabi che operano in Qatar. Tra questi ultimi spicca il tunisino Tariq Al-Awni Al-Harzi, che il Tesoro americano definisce «un funzionario di alto livello di Isis (…) responsabile del reclutamento di cittadini nordafricani ed europei (…) il quale, nel settembre del 2013, ha fatto in modo che lo Stato islamico ricevesse due milioni di dollari da un finanziatore di base in Qatar con istruzioni specifiche di usare quella somma in operazioni militari».
E poi c’è Hamas, la formazione palestinese che Usa e Unione europea hanno incluso nell’elenco dei gruppi terroristici. Nel 1999, quando il vertice di Hamas fu espulso da Amman su ordine del re giordano, il suo leader supremo, Khaled Meshaal, salì a bordo di un jet dell’Aeronautica militare del Qatar diretto a Doha, dove ha risieduto fino al 2001, quando si è trasferito a Damasco. Nel 2012, subito prima che Hamas decidesse di schierarsi con i ribelli sunniti insorti contro Assad, Meshaal è tornato a Doha. E nel 2013, quando Hamas ha deciso di riaprire un quartier generale distaccato all’estero, lo ha fatto a Istanbul, dove è stato accolto a braccia aperte dal vertice dell’Akp, l’attuale partito governativo del presidente Recep Tayyip Erdogan.
A dirigere la sede di Istanbul è Saleh al-Aruri, uno dei fondatori dell’ala militare dell’organizzazione palestinese. Secondo i servizi di sicurezza israeliani, da Istanbul, al-Aruri avrebbe coordinato il rapimento e l’omicidio di tre giovani ebrei, pianificato la defenestrazione del presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen e organizzato un piano terroristico che prevedeva un attacco allo stadio di Gerusalemme.
Veniamo a un altro punto caldo del momento, la Libia. Nel rapporto consegnato nel marzo del 2013 al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dal cosiddetto “Gruppo di esperti” si legge che il Qatar ha giocato «un ruolo fondamentale» nelle forniture di materiale bellico – armi e munizioni – alle forze ribelli libiche. E che nonostante le smentite delle autorità qatarine, «il Qatar ha violato l’embargo sui materiali militari».
La Turchia non sembra essere stata da meno, e secondo alcuni ha continuato ad armare le forze islamiste di Tripoli fino all’inizio di quest’anno. «La Turchia sta continuando a esportare armi in Libia», ha denunciato nel febbraio scorso Abdullah al-Thinni, allora primo ministro del Governo di Tobruk, quello riconosciuto a livello internazionale. Il mese prima era stato il presidente del Parlamento di Tobruk a sostenere che «la Turchia ancora supporta le milizie terroristiche in Libia».
Non è facile stabilire se dalla Turchia continuino ad arrivare armi in Libia in violazione dell’embargo previsto dalla Risoluzione 1970, approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu il 26 febbraio 2011. Ci sono però evidenze che siano state spedite tra il 2013 e la fine del 2014.
In un suo rapporto il Gruppo di esperti dell’Onu ha confermato che il 20 febbraio 2013 armi e munizioni sono state trovate dalla polizia doganale greca a bordo di una nave proveniente dalla Turchia, diretta in Libia e appartenente a un armatore siriano condannato per traffico d’armi.
Così come ha confermato che a bordo del mercantile Nour M, diretto a Tripoli e perquisito dai doganieri greci nel novembre del 2013, sono stati trovati 55 container con 1.103 tonnellate di munizioni dirette a Tripoli. Dalla documentazione sequestrata in quell’occasione è emerso che il cargo proveniva dalla Ukrinmash, società di armamenti ucraina e che a fare da broker era stata la Tss Silah, una società turca che in una nota interna resa pubblica da Wikileaks il Dipartimento di Stato definisce «broker di armi turco».
Il Gruppo di esperti ha inoltre riportato al Consiglio di Sicurezza di aver ricevuto informazioni riguardanti il trasporto di materiale militare su un Airbus A320 della linea aerea libica Afriqiyah che il 17 settembre 2014 è volato da Istanbul a Tripoli: «Il Gruppo ha intervistato un passeggero di quel volo che ha confermato di aver visto casse di materiale militare scaricate dall’aereo. Un tipico Airbus A320 può accomodare 150 passeggeri ma il testimone ha spiegato che solo 15 bagagli sono stati scaricati e quando i passeggeri si sono lamentati perché i loro bagagli erano stati lasciati a Istanbul, i miliziani hanno ordinato loro di lasciare l’aeroporto».
Ancora più recente la segnalazione riguardante un volo operato da un’altra linea aerea libica che il 13 novembre 2014 da Istanbul è arrivato a Misurata e che gli esperti sospettano abbia trasportato materiale militare.
In uno dei suoi rapporti il Gruppo di esperti dell’Onu ha insinuato che la Turchia ha doppiamente violato la Risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza, la quale vieta sia l’importazione di armi in Libia sia l’esportazione dalla Libia. «A detta di fonti attendibili, dalla Libia sono state trasportate armi in Siria con voli decollati dall’aeroporto Mitiga di Tripoli o da quello di Benina a Bengasi e atterrati ad Ankara o Antakya e con navi approdate a Mersin e Iskenderun. Da lì il materiale sarebbe stato trasferito su camion che avrebbero attraversato la frontiera con la Siria a Reyhanli e Kilis. Membri dell’opposizione siriana e combattenti libici reduci della Siria ascoltati dal Gruppo hanno detto che a supervisionare il trasferimento e la consegna delle armi a elementi dell’opposizione siriana sono stati funzionari turchi».
Agli esperti dell’Onu il Governo di Ankara ha negato «di essere a conoscenza di trasferimenti di armi dalla Libia alla Turchia». Ma la vicenda del peschereccio libico al-Entisar smentisce la smentita. Nel settembre del 2012 il New York Times aveva riportato che quel peschereccio era salpato da Bengasi e aveva trasportato un carico di armi a Iskenderun, sulla costa meridionale turca, poco a nord del confine con la Siria. Il Gruppo ha chiesto dettagli alle autorità turche e si è sentito rispondere che «trattandosi di beni umanitari, non è stata condotta alcuna ispezione del carico». Ma pochi mesi dopo, il 21 aprile 2013, lo stesso peschereccio è arrivato nel porto di Istanbul con un carico diretto in Libia che di umanitario non aveva proprio nulla. Come si legge nel rapporto degli esperti Onu, il cosiddetto “manifesto di carico” includeva infatti «due maschere antigas, 199 pistole da 7,65 millimetri, 214 pistole da 9 millimetri, 1.000 fucili a pompa, 5.000 munizioni da 7,65 mm e 251mila cartucce per fucili».
Chi abbia orchestrato quella spedizione non è stato mai stabilito. Il sospetto è che sia stato il Mit, il servizio di intelligence di Ankara che secondo il quotidiano di opposizione Cumhuriyet sarebbe responsabile di un convoglio di camion casualmente intercettato dalla polizia al confine con la Siria nel gennaio del 2014 con un carico di casse piene di armi e munizioni. Per quello scoop, il 26 novembre scorso il direttore di Cumhuriyet Can Dundar e il capo della redazione di Ankara Erdem Gul sono stati arrestati su richiesta del Tribunale di Istanbul. A innescare la reazione giudiziaria era stato lo stesso presidente Erdogan, il quale ha prima promesso che i due avrebbero «pagato un duro prezzo» e poi presentato di persona una denuncia per tradimento e divulgazione di segreti di Stato. Se in quelle casse ci fossero stati beni umanitari, come Ankara ha sostenuto con poca convinzione, quelle accuse non si spiegherebbero. E adesso i due giornalisti non rischierebbero l’ergastolo.
Al di là dell’origine di quello specifico convoglio è certamente impensabile che la cosiddetta “autostrada della Jihad”, la rotta che il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi ha per anni usato per portare jihadisti stranieri e rifornimenti dalla Turchia in Siria, non fosse monitorata dalle forze di sicurezza di Ankara.
Come è difficile credere che tutte queste iniziative turco-qatarine in Libia e Siria siano passate inosservate agli americani. Al contrario, ci sono elementi tangibili che portano a sospettare che Washington le abbia assecondate.
Dopo aver scritto di una direttiva presidenziale segreta di Barack Obama che agli inizi del 2011 autorizzava la Cia ad armare i ribelli anti-Gheddafi, il New York Times ha rivelato che, «poche settimane dopo aver patrocinato l’invio di armi dal Qatar in Libia nella primavera del 2011, la Casa Bianca ha cominciato a ricevere informazioni che quelle armi stavano andando a militanti islamisti». Nello stesso articolo si diceva che in Siria le cose erano o meno andate nello stesso modo: «Quando il Qatar ha cominciato a inviare aiuti militari a gruppi dell’opposizione siriana, l’amministrazione Obama non ha fatto obiezioni. Ma adesso ci sono crescenti preoccupazioni che, come in Libia, i qatarini stiano equipaggiando i combattenti “sbagliati”».
Queste preoccupazioni non sembrano aver spinto gli americani ad attivarsi per contrastare i traffici di armi dalla Libia alla Siria. Semmai è vero il contrario. A farlo pensare è un episodio particolare in cui il possibile trasferimento di materiale militare ha una triplice impronta: qatarina, turca e americana. Ci riferiamo a una serie di voli di C-17, aerei da trasporto militare del Qatar denunciata il 21 marzo 2013 sempre dal New York Times.
I soliti esperti dell’Onu hanno indagato anche su questo. Dopo aver ottenuto i piani di volo dei C-17 volati dalla Libia in Qatar, gli esperti hanno appurato che Doha non era la loro destinazione finale. «I dati dei voli in questione indicano che in ogni singola occasione, dopo essere atterrati a Doha, i C-17 sono ripartiti per Ankara», si legge nel rapporto. Quest’ultima rotta è risultata in verità trafficatissima: «Tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2013, l’Aeronautica militare del Qatar ha operato 28 voli tra Doha e Ankara e uno tra Doha e Gaziantep, un aeroporto turco nei pressi del confine con la Siria», scrivono gli esperti.
Il Gruppo ha inoltre scoperto che ai voli da Tripoli e Bengasi a Doha era stato concesso uno speciale nullaosta diplomatico-militare, solitamente utilizzato per il trasporto di armi o equipaggiamento bellico. Poiché, come si legge nel rapporto, «per ottenere il numero di nullaosta diplomatico-militare il richiedente deve generalmente fornire dettagli precisi sulla natura dei voli e sul carico trasportato», gli esperti hanno chiesto chiarimenti e dettagli alle autorità di tre Paesi i cui spazi aerei erano lungo la rotta percorsa - Grecia, Egitto e Arabia Saudita - e alla società responsabile dei piani di volo.
Ma con scarsi risultati. «La Grecia ha risposto di non aver traccia di alcuna richiesta o concessione di nullaosta diplomatico-militare per quei voli, comunicando però che il 14 e 15 gennaio un aereo della Aeronautica militare qatarina è volato ai margini dello spazio aereo greco», si legge nel rapporto. «L’Egitto ha risposto che il Qatar ha richiesto un numero di nullaosta diplomatico-militare al fine di procedere alla rotazione del personale di guardia dell’ambasciata qatarina a Tripoli. L’Arabia Saudita non ha risposto».
Più reticente di tutti è risultata la società responsabile dei piani di volo. Gli esperti hanno chiesto i dettagli sui nullaosta diplomatici per i voli in questione, i manifesti di carico e l’elenco di tutti i voli operati dall’Aeronautica militare qatarina da e verso la Libia a partire dal luglio 2012. Ma non hanno ricevuto risposta su nulla. «La società ha detto di non aver partecipato alle procedure per l’ottenimento dei nullaosta e di non conoscere il carico di quei voli. Né ha fornito l’elenco dei voli richiesti dal Gruppo», hanno scritto gli esperti.
Che dei C-17 probabilmente carichi di armi potessero passare inosservati agli americani è di per sé improbabile. Ma a renderlo ancora più improbabile è la tappa intermedia fatta da quegli aerei da trasporto. La base di Al Udeid è infatti il cosiddetto “quartier generale avanzato” del comando mediorientale delle Forze armate americane, il Central Command, e oltre a ospitare il 379° Stormo dell’Usaf è sede anche dell’83° Stormo della Raf, l’Aeronautica britannica. Insomma, è una base anglo-americana quasi più che qatarina.
A far pensare che Washington non solo sapesse di quei voli e del loro carico ma li avesse assistiti, è un dettaglio notato dal Sole 24 Ore: la società responsabile della pianificazione dei voli di quei C-17 era la Jeppesen. Non è una società qualsiasi, bensì la controllata di Boeing, un colosso industriale che deve il 30% del suo fatturato al Pentagono, scelta dalla Cia per una delle delicate operazioni degli ultimi 15 anni: la campagna di extraordinary rendition, cioè la cattura extragiudiziaria di soggetti che dopo la strage dell’11 settembre erano sospettati di rapporti con al Qaeda.
Come emerso da un’inchiesta del Sole 24 Ore sulla rendition di Kessim Britel, un italiano di origine marocchina, a occuparsi della preparazione ed esecuzione dei piani di volo del jet privato usato per trasferirlo segretamente in un carcere del Marocco era infatti stata proprio la Jeppesen.
Contattata dal Sole 24 Ore, la sussidiaria della Boeing non ha voluto né smentire né confermare di aver dato supporto logistico a quei voli, mentre la Cia ci ha detto di «non poter fare commenti».
Il fatto rimane che a fornire assistenza a quei C-17 qatarini è stata una società nota come Il Sole 1.12.15“l’agente di viaggio della Cia”.
La strategia della paura
di Lucio Caracciolo Repubblica 1.12.15
I TERRORISTI che fanno strage in Europa non sono religiosi. Hanno una conoscenza superficiale, selettiva ed estremamente manipolata del Corano e delle tradizioni islamiche. Talvolta nemmeno questa. Lo pseudo- islam decostruito e riadattato da chi li guida nel processo di radicalizzazione volto a trasformarli in automi sterminatori è un breviario di somministrazione della violenza. Un’ortoprassia — non un’ortodossia — di segno totalmente apocalittico. Lo schema, elementare quanto magnetico, è il seguente: siamo vicini alla fine dei tempi; nel giorno del giudizio conviene farsi trovare sulla sponda dei seguaci del vero Dio, il nostro; perché noi siamo i soli detentori della Verità, tutti gli altri esprimono diverse gradazioni dell’errore, del cedimento alle seduzioni diaboliche. In questo universo paranoico l’umanità è spartita in cinque famiglie. Dal Bene al Male, dal puro all’impuro: noi giusti; i “cattivi musulmani” — sunniti deviati; gli eretici — sciiti e seguaci di altre correnti islamiche; gli ebrei; i crociati, ovvero gli occidentali identificati con un cristianesimo aggressivo.
Chi fa strage di civili nelle metropoli europee si considera in stato di legittima difesa contro noi “cani arrabbiati” che vorremmo indurlo alla perdizione. Si intitola quindi il rango di eletto destinato a redimere l’umanità. Quanto di più gratificante e mobilitante per un “soldato di Dio”. Secondo Dounia Bouzar, l’antropologa francese che ne studia sul campo la mentalità e i comportamenti, ciò che noi classifichiamo terrorismo è per i jihadisti un meccanismo di «purificazione interna» attraverso lo «sterminio esterno». Siamo di fronte a «persone senza emozioni pronte a uccidere gli impuri non per quello che fanno ma per quello che sono». Senza provare alcun senso di colpa.
L’ossessione per l’apocalisse — tema tipico di sette para-religiose lontanissime dall’islam, incluse alcune variazioni sul cristianesimo assai diffuse nelle Americhe — spiega perché l’irradiamento dello Stato Islamico superi le barriere confessionali e di classe. E perché il “califfato”, che dell’apocalisse imminente fa il cuore della sua propaganda, sia un cult anche per chi non parrebbe contiguo al jihadismo, tanto che nell’agosto del 2014 un francese su sei simpatizzava per lo Stato Islamico.
Non sono solo musulmani, o secredenti tali, a ingrossare le file del “califfo”, ma anche atei, agnostici, cristiani, ebrei — fra cui centinaia di donne e diversi minorenni — convertiti all’ideologia della fine dei tempi. Né sono solo spostati maghrebini delle derelitte periferie metropolitane ad imbracciare il kalashnikov “purificatore”. Stando a uno studio svolto in Francia dall’Unità di coordinamento della lotta al terrorismo, i giovani candidati al jihad, per il 63% compresi fra i 15 e i 21 anni, provengono in maggioranza (67%) dai ceti medi, seguiti a distanza dai rampolli delle categorie socioprofessionali superiori (17%) e dagli “ambienti popolari” (16%). Il 40% di costoro ha conosciuto la depressione, a conferma che lo stato d’animo non è meno rilevante dell’indottrinamento pseudoreligioso nella metamorfosi di un adolescente in macchina da strage.
C’è infine un’interpretazione opportunistica del fenomeno: i terroristi che hanno colpito a Parigi sono dei nichilisti per i quali il salafismo rozzo e violento è copertura di comodo della loro ribellione individuale o di piccolo gruppo. Spiega Olivier Roy, studioso dell’islam: «In breve, questa non è la “rivolta dell’islam” o dei “musulmani”, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani, in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione della radicalità».
di Lucio Caracciolo Repubblica 1.12.15
I TERRORISTI che fanno strage in Europa non sono religiosi. Hanno una conoscenza superficiale, selettiva ed estremamente manipolata del Corano e delle tradizioni islamiche. Talvolta nemmeno questa. Lo pseudo- islam decostruito e riadattato da chi li guida nel processo di radicalizzazione volto a trasformarli in automi sterminatori è un breviario di somministrazione della violenza. Un’ortoprassia — non un’ortodossia — di segno totalmente apocalittico. Lo schema, elementare quanto magnetico, è il seguente: siamo vicini alla fine dei tempi; nel giorno del giudizio conviene farsi trovare sulla sponda dei seguaci del vero Dio, il nostro; perché noi siamo i soli detentori della Verità, tutti gli altri esprimono diverse gradazioni dell’errore, del cedimento alle seduzioni diaboliche. In questo universo paranoico l’umanità è spartita in cinque famiglie. Dal Bene al Male, dal puro all’impuro: noi giusti; i “cattivi musulmani” — sunniti deviati; gli eretici — sciiti e seguaci di altre correnti islamiche; gli ebrei; i crociati, ovvero gli occidentali identificati con un cristianesimo aggressivo.
Chi fa strage di civili nelle metropoli europee si considera in stato di legittima difesa contro noi “cani arrabbiati” che vorremmo indurlo alla perdizione. Si intitola quindi il rango di eletto destinato a redimere l’umanità. Quanto di più gratificante e mobilitante per un “soldato di Dio”. Secondo Dounia Bouzar, l’antropologa francese che ne studia sul campo la mentalità e i comportamenti, ciò che noi classifichiamo terrorismo è per i jihadisti un meccanismo di «purificazione interna» attraverso lo «sterminio esterno». Siamo di fronte a «persone senza emozioni pronte a uccidere gli impuri non per quello che fanno ma per quello che sono». Senza provare alcun senso di colpa.
L’ossessione per l’apocalisse — tema tipico di sette para-religiose lontanissime dall’islam, incluse alcune variazioni sul cristianesimo assai diffuse nelle Americhe — spiega perché l’irradiamento dello Stato Islamico superi le barriere confessionali e di classe. E perché il “califfato”, che dell’apocalisse imminente fa il cuore della sua propaganda, sia un cult anche per chi non parrebbe contiguo al jihadismo, tanto che nell’agosto del 2014 un francese su sei simpatizzava per lo Stato Islamico.
Non sono solo musulmani, o secredenti tali, a ingrossare le file del “califfo”, ma anche atei, agnostici, cristiani, ebrei — fra cui centinaia di donne e diversi minorenni — convertiti all’ideologia della fine dei tempi. Né sono solo spostati maghrebini delle derelitte periferie metropolitane ad imbracciare il kalashnikov “purificatore”. Stando a uno studio svolto in Francia dall’Unità di coordinamento della lotta al terrorismo, i giovani candidati al jihad, per il 63% compresi fra i 15 e i 21 anni, provengono in maggioranza (67%) dai ceti medi, seguiti a distanza dai rampolli delle categorie socioprofessionali superiori (17%) e dagli “ambienti popolari” (16%). Il 40% di costoro ha conosciuto la depressione, a conferma che lo stato d’animo non è meno rilevante dell’indottrinamento pseudoreligioso nella metamorfosi di un adolescente in macchina da strage.
C’è infine un’interpretazione opportunistica del fenomeno: i terroristi che hanno colpito a Parigi sono dei nichilisti per i quali il salafismo rozzo e violento è copertura di comodo della loro ribellione individuale o di piccolo gruppo. Spiega Olivier Roy, studioso dell’islam: «In breve, questa non è la “rivolta dell’islam” o dei “musulmani”, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani, in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione della radicalità».
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