venerdì 4 dicembre 2015
Ricerca e terapia genica: speranze, paure, necessità di un controllo sociale
Usa contro Ue: chi entrerà per primo nelle nostre teste?
I due progetti concorrenti per l’esplorazione del cervello Obiettivo: battere l’epidemia di malattie mentali e neurodegenerative
di Fabio Di Todaro La Stampa TuttoScienze 2.12.15
Un secolo è servito per studiare la forma e le funzioni dei neuroni. Molto meno - giura Emilio Bizzi, professore di neurofisiologia al Massachusetts Institute of Technology di Boston - servirà, fortunatamente, per trovare le prime cure a malattie ancora oggi incurabili: dall’Alzheimer all’autismo fino alla schizofrenia. «La risposta potremmo trovarla nella terapia genica, con “pezzi” di Dna utilizzati al posto dei farmaci», racconterà lo scienziato durante il forum «Un viaggio di cento anni nelle neuroscienze», in programma domani a Roma, all’Accademia Nazionale dei Lincei.
Sarà l’occasione per discutere le sfide che attendono i ricercatori al lavoro sul sistema nervoso e sulla mappatura del cervello. Gli obiettivi sono tanti, tra cui mettere a punto cure in grado di arginare le malattie mentali che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono sempre più diffuse e colpiscono ormai un europeo su quattro.
È noto che la complessità del cervello sta nei suoi numeri: 96 miliardi di cellule, 100 mila in un millimetro cubo della corteccia e nello stesso spazio 100 milioni di contatti sinaptici. Ma, se finora è mancata «la conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei singoli gruppi cellulari», grazie a cui le intenzioni vengono tradotte in «comandi dettagliati», oggi - aggiunge Bizzi - «possiamo studiare i circuiti neurali in vivo: ecco perché servirà molto meno tempo per capire come agiscono le fibre nervose superiori».
Balzo in avanti
A fornire l’opportunità di questo balzo in avanti sono due scoperte che si candidano a diventare decisive: l’optogenetica e la metodologia «Crispr». La prima è la tecnica che, sfruttando la luce, permette di sondare i circuiti neuronali all’interno di cervelli sani nell’arco di pochi millisecondi. La seconda, invece, è una metodologia di «editing» del genoma, con cui si identificheranno i geni da «tagliare» o da «aggiungere», una volta completata la gamma di associazioni a diverse malattie, sia neurodegenerative sia psichiatriche. Il futuro, quindi, in questo campo come nell’oncologia, è affidato alla nuova dimensione della «medicina di precisione». Prevenzione, diagnosi e terapie saranno ridisegnate attorno alla personalizzazione dei trattamenti. Non si classificheranno più le malattie a carattere generale, ma si discuterà delle loro concrete manifestazioni in ciascun paziente.
È così che ci si potrà orientare nel labirinto del cervello. Un vero e proprio «groviglio» che ha fatto sì che le prime scoperte che lo riguardano partissero sempre da un approccio rigorosamente riduzionista. Prendendo un singolo neurone - oppure gruppi ristretti - è stata studiata l’anatomia e si è riconosciuto il ruolo dei neurotrasmettitori e quello dei meccanismi per il trasferimento delle informazioni. Se oggi - per dirla con le parole di Bizzi - «conosciamo quasi completamente la fisiologia dei neuroni», il merito è da ascrivere a Camillo Golgi, che per primo li riconobbe nel 1873, e al collega spagnolo Ramon Y Cayal. A entrambi, nel 1906, fu assegnato il Nobel per la Medicina «per il lavoro svolto sulla struttura del sistema nervoso»- Grazie a loro - al contrario di quanto era stato ritenuto fino a quel momento - sappiamo che ogni neurone costituisce un’unità a sé stante e che le cellule nervose sono contigue, ma non continue.
La prima metà del 900 è poi servita per analizzare i meccanismi alla base della conduzione nervosa: funzione delle sinapsi e ruolo dei mediatori chimici, cruciali per la definizione dei primi farmaci antidepressivi. Dagli Anni 50 in poi, invece, la comunità scientifica si è concentrata sullo sviluppo del sistema nervoso centrale, anche grazie alle ricerche di un altro Nobel come Rita Levi Montalcini. E ora, a inizio XXI secolo, le prospettive si sono di colpo ampliate con i grandi progetti di mappatura del cervello umano: quello statunitense e il «concorrente» europeo. Finanziati complessivamente con quattro miliardi di euro, rappresentano gli strumenti con cui si punta a ideare e a trasformare in realtà le prime cure davvero personalizzate.
Ma, al là del «tema» comune, i due programmi sono in realtà molto diversi. Quello coordinato dal Politecnico di Losanna - che al convegno di domani sarà rappresentato da Ferah Kherif, direttore del laboratorio di ricerca sulle neuroscienze cliniche - punta a realizzare un «super-cervello» artificiale in grado di riprodurre il funzionamento di quello umano. Una scelta tuttavia contestata attraverso le colonne della rivista «Nature» da oltre 700 neuroscienziati europei, convinti che le simulazioni di laboratorio non siano affatto fedeli e non siano in grado di riprodurre le proprietà operative della «macchina» umana. «In effetti la metafora cervello-pc non sempre vale: i chip sono tutti uguali, i neuroni no», sottolinea Bizzi
Nuove terapie
Diversa è l’idea che descriverà il neuroscienziato Rafael Yuste della Columbia University. L’obiettivo oltreoceano è infatti quello di creare una mappa del cervello da cui estrarre una riserva di informazioni utili per lo sviluppo di terapie del tutto nuove. Della sfida, nei prossimi anni, punta a far parte anche l’Italia, con il nuovissimo progetto dello «Human Technopole» - coordinato dall’Iit, l’Istituto Italiano di Tecnologia - che nelle neuroscienze dovrebbe avere uno dei suoi punti di forza. Secondo Bizzi, «la strada da percorrere è ormai individuata: soltanto attraverso la conoscenza completa del genoma dei neuroni si potranno mettere a punto terapie efficaci contro le malattie neurologiche e psichiatriche».
Il rovello della tecnologia Crispr
Scienza. Tra richieste di moratorie e inviti a procedere con cautela nella ricerca. Si è chiuso il summit internazionale sulle modificazioni geniche
Andrea Capocci e Luca Tancredi Barone Manifesto 4.12.2015, 0:20
«Prima di occuparci di scienza, dobbiamo metterci d’accordo sulla politica». L’affermazione di Catherine Bliss, sociologa della scienza dell’Università di San Francisco intervenuta nella giornata conclusiva dell’incontro, riassume bene il summit internazionale sulle modificazioni genetiche, tenutosi a Washington dal 1 al 3 dicembre. La scienza, per la verità, non è mancata. Al summit c’erano tutti i principali studiosi che si occupano della rivoluzionaria tecnologia Crispr: in primo luogo Jennifer Doudna, Emmanuelle Charpentier (che l’hanno inventata) e Feng Zhang (che l’ha brevettata), che hanno condiviso il palco con accademico fair play. Ma gli applausi per le grandi possibilità terapeutiche si sono alternati con i moniti giunti da storici, giuristi, sociologi della scienza e dalle associazioni di pazienti invitati a dire la loro. La possibilità di modificare le linee germinali umane agita lo spettro dell’eugenetica, soprattutto per la grande facilità di esecuzione e da un quadro legislativo ancora frammentario.
La sensazione è quella di una corsa contro il tempo, perché la ricerca procede velocissima. Sollevare un dibattito nell’opinione pubblica e stabilire un quadro normativo internazionale, invece, richiede tempi più lunghi. Tutti, a parole, vogliono evitare il «far west». Ma in gioco ci sono enormi interessi, legati alla possibilità di correggere in provetta eventuali difetti genetici degli embrioni e, magari, aggiungere qualche «aiutino». Nel dubbio, molti relatori si sono dichiarati favorevoli a una moratoria di due anni sulle sperimentazioni cliniche embrionali, concentrandosi sulla ricerca di base e sulle terapie geniche per individui adulti.
La dichiarazione finale del summit, però, si limita a dichiarare l’attuale «irresponsabilità» di tali pratiche, insieme alla necessità di valutare periodicamente il bilancio tra rischi e potenziali benefici. Prima di usare Crispr per «migliorare» la specie umana, serve un dibattito aperto a tutta la società. Come ha ricordato lo storico David Kevles, dal rischio eugenetico nessuno può dirsi immune. «Gli Stati Uniti e altri paesi hanno una lunga tradizione, iniziata ben prima della Seconda Guerra Mondiale e del nazismo: dal 1927, si contarono trentamila sterilizzazioni coatte made in Usa». Bliss ha ricordato anche che in genomica sta rinascendo, sotto una veste più neutra, il concetto di razza. «Prima era un tabù, oggi le ricerche su specifici gruppi etnici sono premiate dai finanziamenti». Più radicale ancora il «no» di Marcy Darnovsky, rappresentante del Center for Genetics and Society, che al summit ha chiesto un bando definitivo alla modifica delle linee germinali. Come Sharon Terry, presidente della Genetic Alliance (rete di oltre diecimila associazioni di difesa dei diritti dei malati) teme che molte caratteristiche umane siano trasformate in difetti da correggere.
Ma sull’efficacia di una moratoria internazionale è affiorato qualche dubbio. Crispr non richiede grandi attrezzature, se un solo paese si sfilasse il divieto verrebbe vanificato. Qualcuno allora ha proposto strumenti soft. Philip Campbell, direttore della rivista Nature, ha il suo: «Finora abbiamo rifiutato di pubblicare ricerche sulla modifica degli embrioni».
Al summit c’era anche Luigi Naldini, dell’Ospedale San Raffaele, entusiasta per il dibattito su una tecnica che può rivoluzionare il campo di cui è esperto, quello della terapia genica. «È stato molto interessante. Per i tanti i paesi rappresentati e per gli interventi di bioetici, sociologi, imprenditori». Qualche allarmismo è stato esagerato. «Sulla terapia genica le linee guida ci sono già. E sulle sperimentazioni sulla linea germinale, c’è qualche dubbio sulla fattibilità». Per quanto riguarda, l’applicazione a piante e animali, e il loro impatto sull’ecosistema, «c’è un altro comitato che ci sta lavorando». Una moratoria sarebbe stata esagerata? «Come membro di uno dei comitati, non posso ancora esprimere il mio parere. Ma presto potremo proporre raccomandazioni ai governi».
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