venerdì 4 dicembre 2015

Salvati ricorda Paolo Sylos Labini

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SYLOS LABINI LA VOCAZIONE DEL RIGORE 
4 dic 2015  Corriere della Sera Di Michele Salvati © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Il 7 dicembre 2005 moriva Paolo Sylos Labini, che oggi viene ricordato in un importante convegno nell’università La Sapienza di Roma. Nato nel 1920, fu uno dei più grandi economisti italiani della seconda metà del secolo scorso, noto internazionalmente per la qualità dei contributi teorici offerti alla sua disciplina e ben conosciuto dal pubblico colto del nostro Paese per gli interventi polemici cui lo spingeva la sua intransigenza morale, quando si applicava alle vicende politiche. Ma non divenne mai un politico — al massimo accettando incarichi di consulenza come economista — e rifiutò sempre le candidature parlamentari. 
Io lo conobbi nel 1962, quando ero già bene avviato in una carriera accademica come giurista, e il suo entusiasmo e il suo fascino personale mi travolsero: se avessi superato certi esami in una prestigiosa università inglese, egli mi avrebbe aiutato a ricominciare da capo come economista. Così avvenne: nel 1966 divenni suo assistente e da lì cominciai la mia carriera accademica. Ancora esistevano, in università, i «maestri», docenti più anziani cui ci si affidava per consigli teorici e di carriera, e io fui così fortunato da trovarne uno dei migliori. Affascinante e generoso com’era, gli «allievi» erano numerosi, e molto diversi: da liberale radicale, Sylos Labini non poneva altre condizioni che l’onestà, la serietà, la capacità di lavorar sodo e di provare con buoni risultati se c’era la stoffa dell’economista. Il rapporto era one way, da lui a noi: non eravamo portaborse, non ci chiedeva di aiutarlo in ricerche bibliografiche o di sostituirlo a lezione, e scherzando ci diceva che non eravamo suoi «assistenti», ma suoi «assistiti». Questo il clima in cui vissi gli anni della mia formazione con lui, dal 1966 al 1970, nella Roma del Sessantotto, anni in cui Sylos Labini non attenuò di un pelo il rigore che pretendeva da assistenti e studenti, perché lo esigeva da se stesso. Nessun complesso di colpa. A un collega che lo invitava a comprendere le proteste degli studenti contro i «professori borghesi», ricordo ancora la sferzante risposta: «Parli per lei stesso, io sono un aristocratico». 
Mi accorsi tardi di essere assai diverso, per carattere, cultura e forma mentis, dal mio maestro e questa diversità provocò un dissenso tra noi che mi ha amareggiato e ho fatto fatica a razionalizzare: ho tentato di farlo in Salveminiani e machiavellici, sul «Mulino», 6/2006. Al di là dei grandi economisti classici — Adam Smith era il suo mito e con Marx passò da un’ammirazione iniziale a un crescente distacco, soprattutto per ragioni morali — i suoi maestri di vita erano i grandi intellettuali italiani vicini al Partito d’Azione: due per tutti, Gaetano Salvemini, che aveva conosciuto ad Harvard negli anni Cinquanta, ed Ernesto Rossi, che conobbe quando rientrò in Italia. Come loro, Sylos Labini non poneva steccati tra etica e politica e la complessità del rapporto tra queste due sfere di valutazione, che Max Weber ha messo mirabilmente in luce, non lo preoccupava più di tanto: comportamenti eticamente sbagliati non potevano dar luogo ad azioni politicamente giuste, e la reazione di un intellettuale politicamente impegnato non poteva essere che quella di stand up and speak out. La lunga battaglia contro Berlusconi — si veda Ahi serva Italia, Laterza, 2006 — non è stata un’ossessione senile, ma la manifestazione di un tratto di carattere e di convinzioni profonde che hanno accompagnato Sylos Labini per tutta la vita.
Caro maestro, anche se razionalmente faccio fatica a crederlo, spero che qualcosa del tuo messaggio possa essere raccolto in questo nostro amato e sfortunato Paese.

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