mercoledì 2 dicembre 2015

Una raccolta di scritti politici di Dossetti

La passione e il disincanto. Dossetti e le «cronache sociali». Alle radici del movimento politico cristianoGiuseppe Dossetti: La Passione e il Disincanto. Dossetti e le «cronache sociali», edizioni Il Settimo Libro

Risvolto
Giurista, politico, docente universitario, vicesegretario della Democrazia cristiana, Dossetti con i suoi amici (i "professorini" Fanfani, La Pira, Lazzati, Baget-Bozzo, Glisenti) ingaggia una battaglia serrata con De Gasperi: richiede con forza un partito "più cristiano", con minori preoccupazioni politiche. De Gasperi prevale, Dossetti si ritira in convento. Ma la sua dottrina, le sue suggestioni, i suoi richiami appassionati, continuano ad echeggiare nel mondo cattolico per decenni, suscitando nostalgie struggenti, acuti rimorsi, e respiri di sollievo. 

L’enigma Dossetti così il monaco scoprì buddismo e induismo 
Ecumenismo e attitudine al dialogo Esce una raccolta di scritti politici del padre costituente

FILIPPO CECCARELLI Repubblica 2 12 2015
Più passa il tempo e più alcuni personaggi che sbrigativamente parevano già belli e dimenticati, riservano in realtà sorprese e addirittura lezioni per il presente. Giuseppe Dossetti, per esempio, che gli amici chiamavano “Pippo”, è una di queste figure; e la meraviglia consiste nell’apprendere, per giunta in una interessante raccolta di scritti politici, La Passione e il Disincanto (edizioni Il Settimo Libro), che nelle sue tre, quattro o forse più vite — professorino proto-democristiano, padre costituente, oppositore di De Gasperi, poi monaco, padre conciliare, biblista ed eremita — fece anche in tempo a cercare punti di incontro tra il cristianesimo, l’induismo e il buddismo.
Non si tratta di un’assoluta rivelazione, l’ecumenismo e l’attitudine al dialogo sono in effetti una costante dell’eredità per così dire ecclesiale di Dossetti. Ma certo fa riflettere la circostanza che in questa ricerca intorno delle religioni dell’estremo oriente gli si rivelò di grande aiuto quella stessa donna, suor Cecilia Impera, che tanti anni prima, quando nemmeno lei aveva ancora preso i voti, era stata la sua segretaria.
Scrive dunque Giuseppe Sangiorgi nella ispirata prefazione a questa antologia di articoli della rivista Cronache sociali che al momento di tagliare i ponti con la politica, nel 1955, Dossetti volle bruciare tutte le sue carte. Fu la futura suor Cecilia a occuparsi per due giorni del rogo, in una caldaia dello studio di via San Vitale a Bologna. Romana, come allora si chiamava, ebbe qualche comprensibile scrupolo. Ma Dossetti rassicurò anche lei che di “cupio dissolvi” certamente si trattava, ma in nome di un puro e ardente misticismo.
Non così diverso, viene da pensare, da quello che in seguito portò la donna a studiare sul campo l’induismo vivendo per 15 anni in India, dove pure accompagnò Dossetti in un viaggio di studio — giacché “studiare” fu per lui fino all’ultimo la pre-condizione di ogni vitale slancio ecumenico.
Così molti dei fili che in una biografia ricca e complessa sembravano apparentemente recisi, oppure contraddetti, per non dire dimenticati o addirittura rimossi, con il trascorrere degli anni si scoprono intrecciati in un unico ordito che tiene assieme cielo e terra, coscienza e conoscenza, fede e partecipazione.
E la lontananza aiuta semmai a riconoscere non solo l’originalità di quel fenomeno che il suo stesso fondatore volle battezzare — in un promemoria del 1951 destinato a Rumor — con il suo stesso cognome: “dossettismo”; ma anche il valore e lo spessore del gruppo che di quella rivista, tanto povera nella sua forma quanto fertile di argomenti, fece parte: Fanfani, Lazzati, La Pira, Moro, Ardigò, Baget Bozzo, Leopoldo Elia.
E se la rilettura di Cronache sociali conferma ciò che Sangiorgi definisce “l’enigma Dossetti”, è anche vero che il destino dei grandi sconfitti si chiarisce secondo tempi, modi, codici e significati che partono dall’avventura umana per arrivare là dove in genere l’uomo si ferma per cogliere il senso delle cose ultime.



L’eredità morale di Dossetti

di Marzio Breda in “Corriere della Sera” del 30 novembre 2015
«Inizia la carriera universitaria, lascia per la Resistenza. È capo partigiano, lascia per la politica. È  dirigente della Democrazia cristiana, è costituente, è parlamentare, lascia per la scelta religiosa.  Fonda una comunità monastica a Bologna, lascia per andare a Gerico». Si ritira in un eremo, ma  quando, nel 1994, Berlusconi vince le elezioni, si fa sentire invocando Isaia: sentinella, quanto  durerà la notte? «Indossava il saio, aveva la croce sul petto e citava la Bibbia, ma la sua non era  l’esortazione di un religioso, era l’invettiva del politico». 
È una catena di nette — ma non incoerenti — discontinuità, quella che Giuseppe Sangiorgi  riassume nella prefazione al doppio volume La passione e il disincanto (Edizioni Il Settimo Libro, pagine 510, e 36), nel quale si ridà voce a Giuseppe Dossetti, un uomo tra i più carismatici del  movimento politico cristiano, un grande rimosso che non può essere però considerato un caso  chiuso. Non ancora. E lo si ricava da quanto è sopravvissuto della sua eredità morale, nonostante gli scatti in avanti che hanno segnato la sua parabola. 
Dossetti, vicesegretario della Dc, eletto alla carica a furor di congresso, ingaggia subito una  battaglia con Alcide De Gasperi: vuole un partito «più cristiano», meno legato alle «necessità» della politica quotidiana. Ma quando De Gasperi sgancia dal governo Pci e Psi, si ribella: questi, con la  Dc, sono i partiti radicati nel Paese, pensare di governare estromettendoli è una bestemmia contro la democrazia. L’impegno sociale è ciò che spiega tutto, di lui. Scrive: «Sono le esigenze che  impongono di incentrare la nostra politica economica, sociale e internazionale, intorno ad un  supremo sforzo per dare lavoro al maggior numero possibile di italiani». 
La passione e il disincanto raccoglie anche i preziosi articoli, ormai introvabili, comparsi tra il 1946 e il 1951 sulla rivista della corrente, «Cronache sociali», e firmati dai «professorini» di Dossetti.  Gente come Moro, Fanfani, Elia, La Pira, Lazzati, Mortati, cui si aggiungono «esterni» di peso: i  socialisti Basso e Vittorelli, gli ex azionisti Garosci ed Ernesto Rossi, il socialdemocratico  Tremelloni, il repubblicano Boeri, e i sacerdoti impegnati in quel confronto, Mazzolari e Turoldo.  Rivelatrice delle sue scelte, la lettera scoperta da Sangiorgi, che, alla vigilia del ritiro dalla politica,  Dossetti scrive a Mariano Rumor: sei tu il mio erede, tu solo ce la puoi fare. E Fanfani, il supposto  numero due, Dossetti non lo nomina neppure: l’ex pupillo era entrato nel governo De Gasperi,  contro la volontà del suo «capo». D’altra parte, erano destini diversi: Fanfani viaggiava verso la  presidenza del Consiglio, Dossetti verso il saio. 
E infatti, nello scontro con De Gasperi, sente di aver perso la sua lotta per il cristianesimo sociale e  si chiude nell’isolamento. Ma cala davvero un’eclissi su di lui? No, perché per quarant’anni, anche  senza Dossetti, la politica dc è dominata dall’influenza del dossettismo: il partito rastrella voti a  destra (salvo la testimonianza politicamente irrilevante del Msi) per realizzare un modello che di  destra ha poco, forse niente. Non a caso la cassa integrazione, la lotta all’inflazione, il taglio della  disoccupazione connesso al boom, la Cassa per il Mezzogiorno, insomma l’edificazione dello Stato  sociale sono quanto di più «dossettiano» lo stesso Dossetti avrebbe immaginato. Quando si ritira in  convento, Dossetti si sente sconfitto, anche se il dossettismo vince e governa a lungo. Non solo  attraverso gli ex professorini, ma attraverso le sue suggestioni e certe sue follie. Scrive Gian Luigi  Capurso, curatore del saggio: «La dottrina di Dossetti continua a echeggiare nel mondo cattolico per decenni, suscitando acuti rimpianti, dolorosi rimorsi, e sospiri di sollievo».

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