giovedì 3 marzo 2016

Marcello De Cecco

Era nato a Lanciano nel 1939, studioso della moneta e dell'industria era molto attento alla realtà e a come i cambiamenti culturali influenzassero l'economia. Era editorialista di Repubblica

Repubblica 03 marzo 2016

Un eretico della globalizzazione 

Economisti. Addio a Marcello De Cecco: è morto a 77 anni lo studioso degli squilibri dei vari capitalismi. Il suo «Money and Empire» analizzò i rapporti tra moneta e potere, senza astrattismi
Emiliano Brancaccio Manifesto4.3.2016, 0:02 
L’economista Marcello De Cecco è morto ieri, a Roma. Nato a Lanciano nel 1939, ha insegnato in vari atenei italiani ed esteri, tra cui Norwich, Siena, la Scuola Normale di Pisa e la Luiss di Roma. Raffinato interprete della storia della moneta e della finanza, De Cecco conquistò uno spazio nella ricerca accademica internazionale per i suoi contributi alla comprensione del funzionamento del «gold standard», il sistema aureo vigente fino alla prima guerra mondiale. Il suo Money and Empire, pubblicato nel 1974 da Basil Blackwell, è considerato un esempio di analisi storico-critica dei rapporti tra moneta e potere economico, fondata su un’interpretazione rigorosa delle fonti documentali ed espressamente scettica verso ogni tentativo di esaminare le relazioni economiche internazionali in base a teoremi astratti e decontestualizzati. 
In quest’ottica De Cecco ha avanzato spesso obiezioni verso la tradizione di pensiero economico dominante, sostenitrice dei cosiddetti «meccanismi di aggiustamento automatico», secondo i quali le forze spontanee del mercato dovrebbero essere in grado di garantire l’equilibrio degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi paesi. Per gli esponenti di questa visione, il funzionamento del gold standard era garantito dal meccanismo spontaneo secondo cui, per esempio, l’eccesso di importazioni di un paese avrebbe dato luogo a un deflusso d’oro tale da generare un calo di domanda interna e quindi dei prezzi nazionali, con conseguente aumento della competitività e riequilibrio tra import ed export. 
Tale meccanismo, per De Cecco, in realtà non ha mai avuto rilevanza concreta. A suo avviso, piuttosto, le relazioni economiche tra paesi sono strutturate su basi perennemente squilibrate, imperialistiche, condizionate dalle scelte politiche e finanziarie dei governi e dipendenti in ultima istanza dai rapporti di forza tra capitalismi nazionali. In questo senso De Cecco ha suggerito che il gold standard prebellico poté sopravvivere solo fino a quando l’Impero britannico fu in grado di imporre uno specifico regime di governo coloniale dei flussi finanziari internazionali, in base al quale l’India avrebbe dovuto assorbire i titoli del debito emessi dalla Gran Bretagna per coprire il proprio disavanzo estero.
Una concezione basata su meccanismi di aggiustamento automatico è stata, in fin dei conti, anche alla base della fiducia con cui molti economisti accolsero la nascita della moneta unica europea. Questa visione semplicistica, potremmo dire «idraulica», del funzionamento dell’Unione monetaria europea, è sempre stata criticata da De Cecco, il quale anche al caso dell’euro ha applicato i suoi complessi schemi di lettura storica dei rapporti economici internazionali. In particolare, egli ha più volte segnalato che la tendenza della Germania ad accumulare surplus commerciali verso l’estero genera il paradosso di un paese egemone che, anziché svolgere il ruolo tradizionale di creatore e diffusore della moneta all’interno del sistema che esso domina, tende piuttosto a risucchiarla presso di sé: una contraddizione che non ha precedenti nella storia dei regimi monetari, e che pregiudica la sostenibilità futura del processo di unificazione europea. 
I dubbi manifesti sull’efficacia dei meccanismi di aggiustamento automatico interni all’Unione monetaria non hanno tuttavia mai indotto De Cecco a contestare il progetto europeo. Membro del consiglio degli esperti economici dei governi Prodi e D’Alema negli anni Novanta, tra i fondatori del Partito Democratico nel 2007, De Cecco ha condiviso fino in fondo il percorso politico che ha legato i destini della sinistra di governo italiana alle speranze di successo dell’integrazione europea. Anche quando nel 2010 fu tra i firmatari di una lettera di trecento economisti che evocava la possibilità di una rottura dell’eurozona, in privato De Cecco contestò ai suoi promotori, tra cui il sottoscritto, una frase finale del documento che esplicitamente contemplava una opzione politica di uscita di uno o più paesi dalla moneta unica. 
La sua estrema sfiducia verso un’opzione del genere era fondata sul timore che un abbandono dell’euro sfociasse semplicemente in un mero deprezzamento del cambio, magari lasciato alle forze erratiche del mercato: una soluzione che a suo avviso avrebbe solo favorito quegli spezzoni di piccolo capitalismo, arretrato e talvolta parassitario, sui quali non riteneva possibile fondare alcuna reale speranza di sviluppo economico ed emancipazione civile del paese. 
Tale conclusione, tuttavia, non colloca l’economista di origine abruzzese tra i rassegnati alle lacrime e al sangue dell’attuale processo di integrazione europea. Sia pure con discrezione e senza clamori, Marcello De Cecco ha sempre portato avanti, in accademia e in campo divulgativo, una tesi assolutamente eretica e controcorrente: vale a dire l’idea di avviare una riflessione critica sugli effetti della indiscriminata apertura ai movimenti internazionali di capitali e di merci, e di immaginare delle ipotesi di ripristino di forme coordinate di controllo degli scambi tra paesi. 
Nella introduzione al suo ultimo libro, nel 2013, egli giunse a scrivere che l’aver screditato e messo da parte per più di un cinquantennio soluzioni come il protezionismo e la regolamentazione degli scambi «come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale, è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga» mentre oggi ci si ritrova a ripristinarle «velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale» (Ma che cos’è questa crisi, Donzelli). La sgradevole sensazione di trovarsi in un periodo di profondo riflusso verso il nazionalismo e il razzismo come eterogenesi dei fini del globalismo e dell’europeismo acritico degli anni passati.
Uno spunto su cui sarebbe utile riflettere, specie a sinistra.

È morto Marcello De Cecco Economista critico dell’austerity 

Ha insegnato alla Normale di Pisa e alla Luiss 
Stefano Lepri Busiarda 4 2 2016
Di rado gli economisti possiedono il senso dell’umorismo. Ne aveva parecchio Marcello De Cecco, mancato l’altra notte a Roma a 77 anni. Era sempre un piacere ascoltare i suoi discorsi o leggerlo su Repubblica, anche quando trattava argomenti complicati di banche o di storia delle monete. E se doveva criticare qualche potere costituito, non si risparmiava.
Uomo del Mezzogiorno, né la vasta cultura internazionale né la pratica dell’inglese – lingua in cui ha anche insegnato – gli avevano tolto il caratteristico accento d’Abruzzo. Prima aveva studiato legge a Parma, poi economia a Cambridge. Ha insegnato in parecchie università, tra cui la Normale di Pisa, da ultimo la Luiss di Roma. 
Si divertiva ad andare controcorrente. Quando nel 2002 si passò dalla lira all’euro la maggior parte degli italiani ritenne di percepire un forte aumento dei prezzi, mentre economisti e statistici lo negavano. De Cecco senza esitare dette ragione alla gente e torto ai suoi colleghi; ne attribuì la colpa al governo Berlusconi.
Collaborava con le istituzioni, come la Banca d’Italia e il Fondo monetario internazionale, non nascondeva le sue idee di sinistra. Scrivendo per i giornali interveniva spesso su questioni politiche, però in politica non volle mai entrare; tra l’altro, rifiutò l’offerta di candidarsi a presidente della Regione Abruzzo per il centro-sinistra nel 2005.
Contrario alle dottrine dell’austerità, aveva dedicato a combatterle il suo ultimo libro Ma che cos’è questa crisi (Donzelli 2013). Ritenne peraltro inevitabile la stretta del governo Monti benché meglio di altri ne prevedesse le conseguenze negative sull’Italia; per tempo avvertì su quanto le magagne delle banche tedesche complicavano la crisi dell’euro, questione che resta d’attualità.

De Cecco, l’economista che amava la Storia Addio allo studioso italiano apprezzato in tutto il mondo. Collaboratore di “Repubblica” dal 1976MARCO PANARA Repubblica 4 3 2016
Era un economista, ma il suo strumento principale non era la matematica, era la storia. Marcello De Cecco — morto a Roma nella notte di mercoledì, all’età di 77 anni — non credeva nella capacità delle formule di sciogliere la complessità. Considerava la storia, le istituzioni, il flusso degli interessi, fondamentali nel determinare i destini, e il suo metodo era di partire da quelli per capire. Un metodo che gli consentiva non di rado di anticipare gli accadimenti.
Un esempio recente: in un articolo pubblicato da questo giornale il 12 ottobre scorso affermava che la Cina avrebbe utilizzato un possente riarmo per aumentare la domanda interna e rilanciare la sua pericolante economia. Tre settimane dopo arrivò proprio questo annuncio di Pechino. De Cecco non aveva informatori nella Città Proibita, sapeva però leggere gli avvenimenti.
Aveva studiato giurisprudenza a Parma ed economia a Cambridge. Furono quegli anni a formarlo. A Cambridge allora dominavano gli eredi di Keynes, ma ospiti frequenti erano i monetaristi della scuola di Chicago. Grandi discussioni, serate interminabili. Keynesiani contro monetaristi, teorici puri ed economisti matematici da una parte e i pragmatici, quelli attenti ai meccanismi della realtà dall’altra. De Cecco prese questa seconda strada diventando uno dei massimi esperti mondiali del ruolo della moneta, di storia della moneta, del potere che c’è dietro. Il suo Money And Empire: The International Gold Standard 1890- 1914, pubblicato nel 1979, è un classico internazionale.
Ma la sua curiosità ha portato le sue ricerche in molte direzioni. Dalle banche e i sistemi finanziari all’evoluzione dell’asfittico capitalismo italiano, all’evoluzione della borghesia, all’industria pubblica. Conosceva in profondità l’industria dell’acciaio come il sistema bancario tedesco, aveva analizzato il ruolo dei commercialisti nell’impresa familiare italiana e raccontato il passaggio all’euro partendo dal prezzo delle mele esposte in un banchetto di fruttivendolo.
Era nato a Lanciano, in provincia di Chieti, nel 1939. Era onnivoro, leggeva di tutto, aveva una memoria prodigiosa e la capacità di collegare mondi distanti e offrire letture degli eventi tanto affascinanti quanto inattese. Da Lanciano, sempre nel suo cuore, a Cambridge e poi a insegnare nelle università del mondo, da Harvard a Berkeley a Princeton, da Parigi a Berlino. A Hong Kong a studiare le economie dell’Estremo Oriente, alle università di Siena, alla Sapienza, alla Normale di Pisa e in molte altre.
Mai provinciale: non c’è analisi di un fenomeno — diceva — che non richieda una lettura sistemica degli interessi internazionali. E infatti era un maestro nel vedere i condizionamenti alla libertà di azione degli stati. Attraverso questa chiave spiegava, tra le altre cose, la fine della grande industria italiana.
Non era propenso ad assumere incarichi pubblici, che — tranne una parentesi nel consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi, quando era ancora solidissimo — non ha avuto mai. Era libero e sanamente scettico. Amava l’Europa ma vedeva senza illusioni tutta la complessità del progetto e non metteva mai a tacere il suo spirito critico.
Aveva scritto il suo primo articolo per Repubblica nel 1976, poche settimane dopo la fondazione del giornale, e ne ha accompagnato il percorso per tutti questi quarant’anni.

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