di Luca Ricolfi Sole 20 Marzo 2016
Più partenze che arrivi E l’Italia (a sorpresa) è un Paese di emigrati
di Federico Fubini Corriere 20.3.16
Da quando un secolo e mezzo fa l’Italia si è unificata, per due terzi
del tempo le annate si sono infallibilmente chiuse con un saldo dello
stesso segno: erano emigrate dal Paese più persone di quante non ne
fossero arrivate da fuori. Dal 1861 a oggi la popolazione è più che
raddoppiata quasi solo grazie alla sua fertilità. Ora però che le
nascite sono ai livelli più bassi dall’Unità d’Italia, la popolazione
rischia di diminuire in modo sostanziale se è vero che il 2015 è tornato
a essere un po’ come il 1875, il 1912 o il 1960. E sembra proprio che
sia andata così: probabilmente l’anno scorso è stato uno dei cento della
storia unitaria durante i quali le donne e gli uomini partiti oltre
confine sono risultati più numerosi rispetto ai nuovi immigrati arrivati
fin qui.
Era dall’inizio degli anni 70 che non succedeva, non come evento di
massa. In realtà i dati dell’Istat, l’Istituto statistico italiano,
smentiscono che le uscite dal Paese abbiano superato gli arrivi: il
«saldo migratorio» fra persone che si stabiliscono nel Paese e quelle
che lo lasciano è sceso negli ultimi anni, però resta positivo.
Ufficialmente, contando gli sbarcati di Lampedusa, l’anno scorso sono
venute ad abitare in Italia 128 mila persone in più di quante non ne
siano andate altrove.
Resta un dubbio: i dati ufficiali dei Paesi di destinazione dei migranti
italiani raccontano una storia diversa. I deflussi potrebbero essere
almeno due o tre volte più intensi di quanto non si creda: l’Istat non
mente, solo che dispone di informazioni incomplete. Negli ultimi due
anni l’emigrazione fuori dall’Italia potrebbe essere diventata così
rapida da spiegare una buona parte del ritardo nella crescita economica
sul resto d’Europa.
Questo bagaglio di storia e cifre non turbava Livia Rodà, 32 anni,
laureata in Lettere, quando all’inizio dell’inverno si è seduta davanti a
un funzionario del dipartimento del Lavoro a Londra. Dopo un decennio
in un’agenzia pubblicitaria di Padova, doveva sostenere un colloquio per
ottenere il National Insurance Number — il codice fiscale — e poter
così iniziare a lavorare nel Regno Unito.
Durante soggiorni sempre più lunghi nell’ultimo anno, Rodà ha capito che
a Londra le è più facile realizzarsi. Da mesi si è dichiarata alle
autorità locali, vive in affitto con un contratto registrato, ha
rapporti di lavoro regolari. Resta un passaggio che per ora ha rinviato:
avvertire le autorità dell’Italia che non vive più lì. Non è obbligata a
farlo e — spiega — alcuni dei suoi amici lavorano a Londra da cinque
anni ma si sono iscritti all’Associazione italiana dei residenti
all’estero solo da pochi mesi. La burocrazia dello Stato di destinazione
sa da un pezzo che c’è una nuova persona, ma quella dello Stato
d’origine non si è mai accorta che ne ha persa una.
Germania, Gran Bretagna e Svizzera sono le prime mete per gli italiani
che vanno all’estero e, secondo l’Istat, negli ultimi anni hanno
assorbito circa un terzo dei nostri migranti. Sono anche i Paesi con i
dati di migliore qualità sugli afflussi di italiani. Anche se non
cancella la sua vecchia residenza italiana, chi arriva in Germania, nel
Regno Unito o in Svizzera deve registrarsi subito per poter ottenere il
codice fiscale, l’assistenza sociale o il medico di famiglia. E i numeri
sugli immigrati italiani in mano alle amministrazioni di Berlino,
Londra e Berna sono in media tre volte e mezzo più alti di quelli che
registra l’Italia (vedi grafico). La Germania è il caso più estremo:
secondo l’Istat sono poco più di 17 mila le persone trasferitesi verso
la Repubblica federale nel 2014, ma l’omologa agenzia tedesca ne conta
oltre quattro volte di più. Se tutti i migranti italiani si
comportassero come quelli che vanno in Germania, in Svizzera e nel Regno
Unito, l’anno scorso ne sarebbero usciti dal nostro Paese 435 mila. E
se anche fossero stati più disciplinati nel segnalare il cambio di
residenza, potrebbero facilmente essere stati il triplo dei 145 mila
segnalati dall’Istat e dunque ben più dei 273 mila stranieri arrivati.
Ciò significa che l’Italia già oggi sta perdendo forse anche 300 mila
residenti l’anno, se si conta anche il crollo della natalità rispetto ai
decessi. Sarebbe una perdita di circa lo 0,3% del Prodotto interno
lordo solo in consumi, in una sorta di spirale: la crisi spinge i
lavoratori fuori dall’Italia, ma la loro uscita aggrava la crisi e ne
spinge ancora altri verso la porta d’uscita. Non sono migranti con la
valigia di cartone, la loro non è un’epopea di pane e cioccolato e la si
avverte appena come un rumore di fondo in un Paese segnato dal
dibattito sull’«invasione straniera». Intanto Livia Rodà resta con un
dubbio che la logora: dovrebbe cancellare la sua residenza di Padova.
«Ma mi sono data un altro anno di tempo», confessa. «Recidere i legami è
delicato».
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