Intensi perimetri metropolitani JANE JACOBS. L’unica città funzionante è a misura di chi la abita. Contraria ai metodi di pianificazione, un ritratto dell’attivista e teorica critica dell’urbanistica moderna. Il suo saggio del 1961 ha segnato un punto di svolta per la sociologia urbana divenendo un punto di riferimento per accademici e non
Giovanni Campus Manifesto 21.4.2016, 0:06
Chiamato ad aprire il recente European Regional Meeting sugli habitat urbani Jan Gehl, probabilmente l’urbanista e designer di spazi pubblici più importante e rispettato oggi al mondo (o almeno in Europa) ha dedicato quasi interamente il suo intervento a Jane Jacobs. Nel successivo incontro tematico sugli spazi pubblici di Barcellona, il 4 e 5 aprile scorsi, sono stati pochi i relatori che non hanno fatto esplicita menzione del suo nome, o almeno implicito riferimento al suo pensiero.
In entrambi questi appuntamenti, promossi sotto l’egida dell’Onu in preparazione della conferenza Habitat III per scrivere la «Nuova Agenda Urbana» e, nelle intenzioni, le linee guida dello sviluppo futuro delle città del mondo, è sembrato finalmente che a cento anni esatti della sua nascita la sua figura e il suo pensiero, dopo aver conquistato accademici, attivisti e addetti ai lavori, stiano finalmente raggiungendo anche il campo dei «decisori».
Parliamo di Jane Jacobs, nata Jane Butzner a Scranton, Pennsylvania, il 4 maggio del 1916 e vissuta principalmente fra il Greenwich Village di New York – nell’amata casa al 555 di Hudson Street – e Toronto, in Canada, di cui fece la sua seconda patria.
Priva di uno status ufficiale nel mondo accademico, consegnò i suoi interventi critici intorno ad architettura e urbanistica all’autorevole Architectural Forum. Il suo acuto spirito di osservazione e il suo approccio inedito, basato sull’osservazione diretta della vita urbana e del comportamento dei cittadini vincolato alla fisicità degli spazi, la resero presto un’interlocutrice obbligata in tutti i luoghi in cui si discuteva – e se ne discuteva parecchio, nell’America degli anni ‘50 – di ripristino, rinnovo, o «miglioramento» urbano.
Vite insorgenti
Mentre veniva accusata di mancare di basi teoriche («rimedi domestici» aveva definito le sue proposte Lewis Mumford, che pure la stimava, in un celebre articolo sul «New Yorker»), Jane Jacobs non credeva invece nella pretesa scientificità dell’urbanistica moderna, che guardava alla stregua di una serie di «formule magiche» di natura ideologica, dagli esiti non prevedibili quando non notoriamente nefasti. Eppure, oltre che autrice, Jane Jacobs fu anche attivista, lottando dalla parte dei deboli insieme a tutte le comunità urbane con cui entrò in contatto – prima nella sua New York e poi in Canada, dove si trasferì nel 1968 come atto polemico contro la guerra del Vietnam, ma anche subito dopo aver subito un arresto per «incitamento alla sommossa» durante le proteste contro la costruzione di un’autostrada che avrebbe tagliato in due la Lower Manhattan.
Fu un’epica battaglia, di cui non fu l’unica ma certamente la più celebre protagonista, che la vide contrapporsi a Robert Moses, il più influente e potente pianificatore di New York, pari per autorevolezza, e anche per la radicale durezza delle sue soluzioni, a quel Barone Haussmann – cui lui stesso si paragonava – che aveva aperto i boulevard nella Parigi di Napoleone III, spianando interi quartieri della città vecchia considerati malsani, irrazionali e pericolosi. Con lo stesso piglio Moses voleva aprire grandi strade veloci nel cuore di New York, tagliando e spianando aree storiche come appunto una parte del Greenwich Village in cui però, per sua sfortuna, risiedeva Jane Jacobs. Il progetto di Moses procedeva dunque a gonfie vele, finché non si imbatté nell’opposizione di un gruppo di cittadini, e soprattutto cittadine, costituiti nel «Joint Committe to Stop the Lower Manhattan Expressway»: «Non c’è nessuno, nessuno contrario al progetto, tranne un gruppo di mamme», avrebbe gridato in occasione di un incontro uno stupito quanto contrariato Moses proprio all’indirizzo di Jacobs.
È storia che alla fine la battaglia fu vinta dalle «mamme» e che l’autostrada urbana non si fece, anche grazie a un piano sperimentale, promosso proprio da Jacobs, che andava nella direzione opposta e proponeva di chiudere completamente al traffico delle auto l’area del quartiere attorno al Washington Square Park. Il libro cardine di Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, uscito negli Stati Uniti nel 1961 e relativamente presto tradotto anche in italiano grazie a Einaudi (Vita e morte delle grandi città, 1969) è considerato da alcuni come il singolo libro più importante nella storia della pianificazione urbana, e l’affermazione non è lontana dall’essere vera.
Liberazioni urbane
Esplicitamente polemico: «questo libro è un attacco contro gli attuali metodi di pianificazione e di ristrutturazione urbanistica» recita l’incipit, e primo fra i suoi diretti obiettivi era l’urbanesimo modernista della «Città Radiosa» di Le Corbusier, che aveva proposto una forma urbana, poi diventata canonica, concepita in funzione di una vita isolata (le celebri «unità di abitazione», che non mascheravano troppo il loro intento disciplinare) e dominata dagli spostamenti in auto. Allo stesso modo Jacobs non risparmiava critiche all’idea di «Città Giardino» propugnata da Ebenezer Howard che, apparsa anch’essa come un’utopia possibile per il risanamento materiale e morale delle città, aveva contribuito nella pratica a promuovere la forma dispersa e inefficiente dei moderni suburbi.
Accomunava queste visioni, secondo la lettura di Jacobs, l’idea di separare, insieme con le funzioni degli edifici (con quartieri per negozi, per case, per uffici) e dei collegamenti (strade per le auto, per i mezzi pubblici, per i pochi pedoni rimasti) anche i cittadini, con la falsa pretesa di liberarli, perché la liberazione era intesa solo come liberazione dai loro bisogni.
La presenza di grandi aree verdi – che pure accomunava i due disegni di Le Corbusier e di Howard – non poteva essere – e si rivelò non essere – una soluzione al «problema urbano», perché il tipo di problema che la città rappresentava era del tutto particolare. La città – dice Jane Jacobs – è una complessità auto-organizzata che procede per tentativi ed errori: toglierle con una pianificazione «ideologica» la possibilità di rigenerarsi attraverso scambi e combinazioni anche casuali significava ucciderne la vitalità e minarne il successo. La città funzionante è dunque un intensificatore di vita ed è piuttosto questo tipo di liberazione, tendente verso un incremento delle possibilità per chi le abita, che i pianificatori dovrebbero perseguire; uno dei suoi grandi lasciti da rimeditare oggi, in presenza di un’intensificazione dei fenomeni di urbanizzazione senza precedenti.
Impegno diretto
Certo il suo lavoro non è stato e non è esente da critiche. A partire da quelle originarie sulla debolezza dei suoi presupposti teorici fino ad altre più recenti che le rimproverano una certa fede aprioristica nelle capacità taumaturgiche del mercato. In effetti Jane Jacobs non mise mai in questione le strutture sociali e il predominio dell’economia (dopo The Death and Life of Great American Cities molti dei suoi successivi studi furono dedicati a questioni economiche, e lei stessa riteneva di aver dato in questo campo i suoi migliori contributi), ma valga come attenuante che il suo interesse fu sempre per il piccolo mondo della vita di quartiere, per le botteghe artigiane e un tipo di vita urbana che stimolasse la creatività.
La si è anche accusata di «depoliticizzare» i cittadini, attraverso un’idea di auto-organizzazione che rischiava di apparire meccanicistico-organicista. Ma chi le ha mosso tale critica, come sottolinea bene Carlo Olmo nell’introduzione all’edizione italiana di The Death and Life, lo fa muovendo da una concezione politica che si risolve nel modello della democrazia liberale di tipo rappresentativo. Ben diversa dall’idea – e dalla pratica – di impegno diretto promossa da Jacobs, che mostra di aver retto alla prova del tempo.
Wade Graham, quando affronta la sua figura nel recente Dream Cities, Seven Urban IdeasthatShaped the World (Harper) lo fa in un capitolo intitolato «Corals»: coralli, come le strutture che crescono e si sviluppano per azione collettiva in una forma cangiante e senza direzione.
La sua critica riguarda la possibilità di creare nuove zone urbane – nuove edificazioni – che riprendano la varietà di forme e di funzioni delle città del passato senza cadere nell’artificialità. In effetti però Jacobs non sembra parlare mai di urbanizzazioni nuove, ma sempre del miglioramento o del mantenimento di quelle esistenti, e dunque la critica è da indirizzare non tanto a lei, quanto a una parte del movimento del «New Urbanism» che anche dalle sue idee prese ispirazione.
L’urbanistica per Jane Jacobs non opera mai nel vuoto, e se dovessimo applicare il suo metodo all’espansione futura delle megalopoli dovremmo invece guardare a quella fascia di slums e insediamenti informali che le caratterizza come vita sorgente – verrebbe da dire: come potere costituente – con la sua dignità e le sue formazioni sociali spesso inedite, la cui energia e i cui equilibri sono l’energia e gli equilibri della città stessa,e non una sorta di tumore da debellare tramite l’uso ideologico della ruspa.
Ma se queste sono lezioni utili per urbanisti, per politici e studiosi di fatti urbani, cosa possiamo imparare invece tutti e tutte da Jane Jacobs? Per esempio a guardare le città con i nostri stessi occhi, ad altezza d’uomo – e più ancora di donna – e a valutare con il nostro buon senso, perché non sempre i professori hanno ragione.
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RICORRENZE. Il mondo festeggia i cento anni di Jacobs con iniziative da New York a Roma
Per i cento anni di Jane Jacobs sono tante le iniziative in giro per il mondo pensate per ricordare il suo pensiero e la sua azione. Conformemente, si tratta per lo più di iniziative a carattere partecipativo e aperto. Il «Center for The Living City», fondato nel 2005 a New York per promuovere e continuare il suo lavoro ha lanciato «Gifts to Jane», una raccolta di contributi delle comunità alla vita delle città. L’iniziativa è legata all’Urban Acupunture Network, rete per l’agopuntura urbana: come nell’agopuntura bastano infatti piccolissimi interventi per migliorare la vita di un vicinato, di una strada o un quartiere (www.janes100th.org).
Sempre a New York La Municipal Arts Society si è mobilitata con «Celebrating the City: Jane Jacobs at 100». Il tutto ruota attorno a un sito: www.jj100.org, un aggregatore in cui è possibile inserire o ricercare gli eventi. La stessa Municipal Arts Society è anche partner della «Jane Jacobs Medal» assegnata annualmente dalla Fondazione Rockfeller (che finanziò la ricerca alla base di The Death and Life of Great American Cities) a studiosi, attivisti o politici che hanno introdotto nuove visioni o strategie urbane. Per la prima volta nel 2016 le candidature saranno aperte anche al di fuori dagli USA.
In Canada, patria di adozione della Jacobs, il contenitore si chiama «Jane100» (www.janejacobs100.ca) e fra le proposte spicca il New Urbanism Film Fest di Toronto, ma anche qui la formula – non potrebbe essere altrimenti – è aperta a nuovi contributi.
In Europa la Facoltà di Architettura dell’Università di Delft organizza una più tradizionale conferenza dal titolo Jane Jacobs 100: her legacy and relevance in the 21st Century, che si svolgerà fra Delft e Rotterdam il 24 e 25 maggio.
In Italia da un anno sono approdate anche a Roma le Jane’s Walk: passeggiate guidate alla scoperta della città, degli angoli dimenticati e delle storie dei quartieri. L’appuntamento è per il 7 e 8 maggio (http://janeswalk.org)
Un monumento chiamato paesaggio A Torino mille architetti si interrogano sui rapporti mutevoli tra natura e umanità Busiarda 21 4 2016
«Tasting the Landscape», assaggia il paesaggio. E poi sognalo, ammiralo e pensalo. Sono le idee dell’edizione numero 53 del Congresso internazionale dell’Ifla, l’International Federation of Landscape Architects, della quale fa parte l’Associazione italiana degli architetti del paesaggio (l’Aiapp) che ha organizzato l’evento a Torino. Fino a domani sono mille gli specialisti: non soltanto architetti, ma agronomi, sociologi e filosofi. Tutti per confrontarsi sul significato degli interventi nei paesaggi e, quindi, su come «modificare» la natura, tenendo conto dell’uomo e dell’ambiente. «L’architetto del paesaggio nel nostro Paese ha difficoltà a trovare committenti - ha osservato Anna Letizia Monti, presidente dell’Aiapp - e il suo lavoro è affidato ad altri professionisti». Le aree urbane e le periferie, come pure l’agricoltura, sono al centro della discussione. «Il paesaggio italiano è un monumento di cui troppo spesso ci si dimentica», ha osservato il sottosegretario alla Cultura Ilaria Borletti Buitoni. La strada da fare è ancora tanta.
[a. mar. ]
“Dobbiamo costruire sintonizzandoci sempre con i luoghi” Antonella Mariotti
«Io sono un sognatore in ogni senso: un sognatore nella vita e quindi un architetto paesaggista sognatore». Jordi Bellmunt ha 61 anni (è direttore della Biennale del Paesaggio a Barcellona), è professore di Pianificazione Urbana e Progetti di Paesaggio alla Escuela de Arquitectura di Barcellona ed è considerato tra i più grandi paesaggisti al mondo. Lui è un convinto sostenitore di una progettazione sostenibile e condivisa. Racconta la sua idea di paesaggio come elemento vivo, che ospita, sì, la natura, ma anche l’uomo, mettendoci anima e cuore, perché «noi siamo mediterranei e questo paesaggio l’abbiamo fatto noi con la fame».
Cosa vuol dire disegnare un paesaggio, essere un architetto che modifica un luogo della natura?
«Una volta Michel Corajoud (paesaggista francese; ndr) mi disse “quando devi fare un lavoro vai nel luogo, l’idea ce l’hai dentro e stando nel luogo capirai se è una buona idea”. Ecco io ora faccio così e nei luoghi trovo le risposte».
Durante il congresso si è parlato anche di rapporti con le popolazioni.
«Sì, ma senza cadere nel populismo. Il paesaggio è una religione l'architetto paesaggista può fare del bene intervenendo sui luoghi. Quando interviene un architetto non so se fa del bene, forse lo pensa ma se lo pensa si sbaglia. E così mi sono fatto molti amici...»
Cosa vuol dire che l’architetto, non paesaggista spesso commette errori ?
«Le faccio un esempio. Qualche anno fa alla Biennale di Venezia erano esposti plastici di lavori di architetti famosi, molto belli. Erano però idee di opere prive del contesto, del paesaggio che le avrebbe circondate, galleggiavano nel nulla. Nelle sale sono arrivate centinaia di studenti, ho pensato: cosa impareranno questi ragazzi? A fare opere che non sono collegate con i luoghi. Che senso ha?».
Quindi le grandi opere di architettura sono inutili?
«Non dico questo, dico che di Torre di Bilbao ce ne può essere una, non centinaia. Sono eccezioni».
Si pensa al paesaggio solo come natura, mentre qui si è detto che i paesaggi naturali sono opere umane. Cosa vuole dire?
«Io amo moltissimo la Camargue, è stupenda. Uno se la guarda dall’altro dice “che splendida opera della natura”. E sbaglia. La Camargue è un’opera di alta ingegneria, sono tutti canali artificiali, tutto è stato modificato dall’uomo e dalla sua fame, dalle sue esigenze di sopravvivenza».
Dalla fame? Dall’agricoltura allora?
«Attenzione. L’agricoltore non guarda il paesaggio ma ai suoi guadagni, è un industriale del paesaggio. Ma sì a volte anche l’agricoltore è un paesaggista, a modo suo».
Il futuro delle città, dei luoghi è nelle mani degli architetti paesaggisti?
«Lo scopriremo alla Biennale del paesaggio che stiamo organizzando a Barcellona. Il titolo è “Tomorrow Landscapes”, ci interrogheremo su cosa interessa di più alla gente».
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“La nuova estetica si ispira alle città del Rinascimento” Busairda
Architetto, come valuta l’urbanizzazione forzata di milioni di contadini cinesi, che hanno dovuto abbandonare villaggi e campagne per essere trasferiti dalle autorità in megalopoli nuove di zecca?
«La rilocalizzazione è un grosso problema. Ora è un po’ meno accentuata ma prosegue, anche se il governo comincia a capire che è problematico distruggere le culture locali, la memoria del passato. Oggi tutti vogliono andare in città, ma natura e paesaggio hanno giocato un ruolo fondamentale nella cultura cinese, vanno tutelate e rivalutate».
La Cina è dunque davanti a una riflessione politica sull’importanza della natura, del paesaggio e della sostenibilità?
«Certo. Non è facile, ma un dialogo esiste. Chi decide però sono sempre i politici. Il nostro è un lavoro più umile, non è facile essere ascoltati, a meno di avere una grande credibilità internazionale».
Lei vive tra Cina, Usa ed Europa, ha avuto tanti riconoscimenti internazionali (tra cui 9 Asla Honor Awards dell’American Society of Landscape Architects), a quali modelli si ispira?
«Non alle megalopoli americane come Los Angeles o Las Vegas, disegnate male e cresciute peggio, piuttosto alle teorie, ad esempio, di Jane Jacobs, che molto ha scritto sulle città americane a misura d’uomo. Credo sia necessaria una nuova estetica basata sulla sostenibilità e l’ambiente. In Cina esisteva, ma negli ultimi 30 anni l’abbiamo persa. Ora la stiamo recuperando. Mi ispirano molte città italiane medievali e rinascimentali, a misura d’uomo come Firenze, Venezia, Bergamo, Torino stessa».
Ha creato un’azienda che si chiama Turenscape, cosa significa?
«Tu significa terra, Ren gente, essere umano. Bisogna ricreare l’armonia fra la terra e le persone. La applico ai miei progetti, ai materiali: spesso reperiti in loco come le impalcature di bambù, materiale economico, componibile, sostenibile, a volte sono moderni come il vetro e l’acciaio; bisogna comunque adattarsi ai luoghi, mai stravolgere la natura, dobbiamo lasciarla fare».
Italia e Cina hanno qualcosa in comune, per dialogare?
«Sicuro, condividono una profonda estetica del paesaggio, amano la bellezza, le nostre culture si sono sviluppate dalla natura. Siamo differenti ma entrambi abbiamo un’alta densità di popolazione, molti dialetti, cibi, climi, tecniche di costruzione diversificate. Le culture possono incontrarsi, imparare l’una dall’altra, lo fanno da millenni».
Quali tecniche può introdurre in Occidente?
«Nuovi modi di fertilizzare i giardini, ad esempio, tecniche agricole ormai dimenticate in Occidente con l’agricoltura meccanizzata».
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La civiltà oltre la cartolina Cesare Martinetti Busiarda
Il bosco dei Paduli, laggiù nel Salento, da uliveto secolare, era diventato un abbandono di polvere ed erba secca. Ora grazie a un gruppetto di professionisti prima emigrati e poi tornati a casa è diventato il più vasto parco agricolo d’Europa. A Bagno di Romagna, invece, intorno alla ricostruzione di una mulattiera crollata s’è innescato un processo sociale che ha portato alla rinascita non solo del paesaggio ma di lavoro e mestieri perduti. In Iraq il progetto di un’italiana, Elena Cattarossi, ha permesso il recupero dell’ecosistema paludoso tra Tigri ed Eufrate, spianato a suo tempo da Saddam, secondo il vizio comune dei dittatori di voler dominare la natura, oltre agli uomini.
Queste ed altre storie si apprendono al congresso mondiale degli specialisti dell’architettura del paesaggio che si è aperto ieri a Torino. Non si pensi ad un club di esteti illuminati e nostalgici del tempo che fu. Negli Stati Uniti Frederick Law Olmsted, che a metà dell’Ottocento ha disegnato Central Park a Manhattan, ha codificato la «Landscape architecture» con il moderno e democratico concetto di «diritto». Non un appannaggio aristocratico (com’era nella vecchia Europa) ma un qualcosa che deve servire a migliorare la vita di tutti.
Ed è questo il messaggio del congresso: il paesaggio ha un ruolo sociale, economico, biologico. Non è una cartolina, è il lavoro dell’uomo espresso nelle geometrie delle vigne, nell’equilibrio tra boschi e pascoli, nei terrazzamenti che strappano terra da coltivare dove non ce n’è. È l’alternarsi di viali, campi, mulini, boschi e bialere della pianure. Tutti codici sapienti e secolari della storia d’Italia spesso rovesciati e violentati. Basti pensare alle centinaia di capannoni cresciuti senza regole nel boom del Nord-Est, e ora abbandonati, che assediano il dolce paesaggio intorno alle Ville Venete.
A Matera si è riusciti a recuperare uno dei «Sassi» e ora uno dei suoi promotori, Pietro Laureano, è impegnato nel recupero di villaggi rurali cinesi secondo il precetto confuciano del «mutamento» e nella costruzione di un’oasi negli Emirati. Il mondo si muove. E l’Italia? Anna Letizia Monti, presidente dell’Associazione architettura del paesaggio che ha organizzato il congresso, parla della necessità di una conservazione «attiva»: il paesaggio è vita e tra Tigri ed Eufrate, per esempio, sono tornati gli «arabi delle paludi» con la loro tradizionale economia. Nel sistema Italia si dovrebbe disboscare la moltitudine di leggi e leggine, semplificare, assumere la concretezza come metodo. Non altre norme, ma meno norme che consentano una sostenibilità reale di un paesaggio multiforme e unico.
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L’intervento a Battersea Park, Londra Architettura che s’interroga Coerenza e libertà di GehryCorriere della Sera 21 Apr 2016 Di Vittorio Gregotti
ALondra, oltre agli ormai famosi 123 grattacieli i cui progetti attendono l’approvazione per essere realizzati, è in avanzata costruzione il grande triangolo di circa 330 mila metri quadrati che affaccia sul Tamigi, a est di Battersea Park, attorno alla Battersea Power Station, monumento della prima era industriale, per molti anni difeso dall’attacco speculativo. Oggi però la speculazione è vincitrice e l’interpretazione praticistica del linguaggio della modernità, oltre alle previsioni di un aumento di due milioni di nuovi abitanti nei prossimi cinque anni per Londra, ha offerto il sostegno decisivo.
All’interno di questo ampio e centralissimo nuovo contesto, uno degli edifici diversamente concepiti sarà costruito su un progetto, noto da qualche tempo, di Frank Gehry, la cui prospettiva viene utilizzata sui quotidiani come materiale di propaganda per la vendita degli appartamenti.
Le qualità del disegno di Gehry sono come sempre, anche se collocate in un discutibile contesto, di grande interesse, forse anche proprio per gli interrogativi delle speciali soluzioni rappresentative dello stato delle cose proposto dal celebre architetto. Si tratta di interrogativi diversi piuttosto che proposte di indicazioni fondate sul difficile futuro della pratica artistica dell’architettura dei nostri anni, ma certo, nel caso di Frank Gehry, assai più interessanti, proprio perché dubitative, e soprattutto lontane dalle proposte che sono oggetto della notorietà televisiva di alcune delle archistar sempre alla ricerca di novità formali, provvisorie e mercantili.
Ho conosciuto Frank Gehry
una quarantina di anni fa negli Stati Uniti, e poi a Milano in occasione del concorso delle aree di Pirelli Bicocca; è stato mio ospite a Venezia, poi ci siamo rivisti a Bilbao, a Roma e ancora nel suo studio negli Stati Uniti. Ho seguito sempre con grande interesse l’evoluzione del suo lavoro e la sua complicata relazione con la tradizione della modernità che si era divisa, dopo il convegno Ciam del 1951, in due parti: una che guardava ad una nuova relazione, senza imitazioni, con il contesto e la storia, l’altra che pensava alle supertecniche come unico futuro per l’architettura.
Queste complicate riflessioni intorno a una diversa concezione delle sequenze spaziali trovarono una prima riposta compiuta nel museo di Bilbao e con la sua tesi di una distinzione tra spazi di uso e libere forme esterne di ciò che appare della costruzione, forse una nuova interpretazione dell’idea di decorazione. Poi il suo lavoro è divenuto un’intelligente variazione continua e coerente di quei principi. A quel punto la critica alle convenzionalità di alcune interpretazioni praticistiche del movimento moderno è ciò che caratterizzerà il suo lavoro. Si tratta di un lavoro di architettura che cerca la libertà, sovente operato con talento e misurate eccezioni anche rispetto alla consolidata tradizione della qualità delle opere stesse di Gehry.
Tutto questo mentre alcune altre archistar, con motivazioni assai diverse, sembravano volersi aprire a nuove modalità di linguaggio come illustrazione del globalismo finanziario compiuto. Tutti cercavano, specie a partire dagli anni Ottanta, punti di riferimento anche nelle arti visive, anch’esse in crisi e a loro volta disperatamente alla ricerca di ogni originalità stilistica assai incerta nelle indicazioni di un futuro possibile e necessario di fronte alle contraddizioni del presente.
La soluzione proposta da Frank Gehry nel caso di Battersea Park sembra, o meglio potrebbe essere interpretata, pur nella grande qualità e astuzia del disegno, piuttosto come un ritratto del tremblement de terre a cui la cultura, ed in particolar modo le arti, sono sottoposte nei nostri anni, e di un caos inutilmente alla ricerca della diversità temporanea che attraversa anche la pratica artistica dell’architettura.
Un ritratto certamente di grande qualità della nostra condizione quello di Gehry, che offrirà anche suggerimenti futuri, ma destinato però a descrivere una condizione di crisi senza alcuna indicazione per il possibile necessario per risolverla.
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