Don DeLillo “Cerco di inventare, ma alla fine scrivo di me”Il grande autore americano racconta il nuovo romanzo “Zero K” e le inquietudini del suo Paese “I presidenti deludono sin dal giorno del loro insediamento. Ma guai a non sperare ancora”ANTONIO MONDA Restampa 7 5 2016
NEW YORK
Dei quattro grandi scrittori americani che nel canone di Harold Bloom compongono il pantheon della narrativa contemporanea, Philip Roth, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy e Don DeLillo, quest’ultimo è colui che appare maggiormente interessato a questioni sociali e politiche.
Ogni suo libro nasce da una necessità etica che diventa spesso una riflessione spirituale – DeLillo è stato allevato dai gesuiti – e che in questo suo ultimo, magnifico romanzo, uscito negli Stati Uniti con il titolo “Zero K” si traduce in una speculazione sul senso ultimo dell’esistenza
(Einaudi lo pubblica in autunno). Ancora una volta DeLillo rivela un’imprescindibile tensione morale e uno sguardo eclettico, oltre ad un sentimento dolorosamente anarchico: «Gli scrittori hanno l’obbligo morale di opporsi al sistema» ha dichiarato pochi anni fa. «È importante scrivere contro il potere, le corporazioni, lo Stato e l’intero meccanismo di piaceri debilitanti e decadenti. Ritengo che gli autori per loro natura debbano opporsi a qualunque potere cerchi di imporsi su di noi». Alla soglia degli ottant’anni, ora DeLillo racconta di un miliardario che ha investito in una misteriosa tecnologia che consente di preservare i corpi affinché possano essere riportati in vita quando la scienza lo consentirà. «Chi parla con me in questi giorni» mi racconta nella sua nuova casa dell’Upper East Side «mi dice più o meno garbatamente che questo è il romanzo di una persona anziana, che sente l’avvicinarsi della fine: è innegabile che il libro parli dell’idea di mortalità, come è innegabile la mia età. Ma si tratta di temi ricorrenti sin dall’inizio del mio percorso, e sono temi che dovrebbe avere a cuore ognuno: viviamo al cospetto della nostra fragilità e della nostra finitezza».
Il libro parla anche di “thinness”, sottigliezza, dell’esistenza.
«Ne parla uno dei personaggi, Ben Ezra, che riflette esattamente quello che penso, aggiungendo che in questa sottigliezza, fragilità e mortalità dell’esistenza riesco a scorgere anche meraviglia e incanto».
Lei rifiuta sempre le identificazioni autobiografiche.
«Cerco di inventare sapendo che forse è un’illusione. Posso però confidare che il finale di questo romanzo racconta una scena alla quale ho assistito qualche anno fa in un autobus a New York. E che in Underworld tutti i momenti relativi al quartiere italo- americano del Bronx sono legati a esperienze personali: non ho inventato nulla».
Perché ha deciso di parlare di preservazione crionica?
«È difficile negare che si tratti di un modo per riflettere di vita e morte. L’elemento scatenante è nato quando un grande giocatore di baseball, Ted Williams, ha dichiarato di voler essere preservato in un centro specializzato in Arizona. Ho scoperto l’esistenza di questa realtà inquietante e ho cominciato a riflettere sull’anelito umano all’immortalità, declinato ai tempi nostri: solo i più ricchi possono partecipare a questo progetto. All’interno di questa realtà ho parlato di coloro che desiderano essere conservati pur non essendo vicini alla morte: questo è ancora più inquietante».
Lei scrive: «Nasciamo senza averlo scelto. Dobbiamo anche morire nella stessa maniera? Non fa parte della gloria umana rifiutare di accettare un certo destino?».
«Non ho alcuna simpatia per questi esperimenti: non lo farei neanche se sapessi di avere due settimane di vita. Tuttavia questa affermazione fa parte di una riflessione che porto avanti da molti anni e in molti libri».
Sembra che lei abbia paura della morte quanto ne abbia della vita.
«La pensano così i miei personaggi, non aggiungo altro».
Pensa che la scienza sia in grado di spiegare tutto?
«No, affatto. Ci sono aspetti della nostra mente, della nostra interiorità, che rimangono inspiegati, e a mio avviso sarà sempre così. Per questo si usa spesso la parola “anima”».
Ritiene che tutto quello che è possibile sia anche lecito?
«No, è sempre fondamentale porre dei limiti morali. Quello che la scienza riesce ad ottenere diviene quello che si deve ottenere, con conseguenze spesso inquietanti ».
Lei ha dichiarato il dovere di uno scrittore di opporsi al sistema: il suo Paese sta vivendo un’ondata anti-sistema, a destra con Trump...
«Sembra che il Paese mostri crepe in passato impensabili, che mettono in crisi bisogni e speranze. Si vive la sensazione che gli Usa non abbiano la centralità di un tempo. Questi movimenti “anti-sistema”, peraltro non diversi da altri in diverse parti del mondo, diventano più sorprendenti in un Paese che ha nei suoi geni l’idea di promessa, e nascono per rispondere all’idea di ripristinare – con ricette opposte – quella centralità».
La politica delude sempre?
«Sì: in America qualcosa muore già nel giorno del discorso inaugurale del nuovo presidente, basta vedere la distanza dalle promesse elettorali. Ma guai a non sperare e ad abdicare».
Paul Auster ha in cantiere un libro di mille pagine. Tanti romanzi americani usciti negli ultimi tempi sono lunghissimi. Cosa ne pensa?
«Ogni scrittore ha storia, necessità e ambizioni personali, ma i romanzi sono intrappolati dai rispettivi temi e personaggi: devono seguirli, e non credo sia qualcosa di impostato dall’inizio, sarebbe sbagliato. Esistono capolavori brevi e libri inutilmente lunghi. Io sapevo che il mio non sarebbe stato lungo, anche se ci ho messo quattro anni: avevo bisogno di tutto quel tempo per utilizzare parole da scartare prima di trovare quelle giuste».
C’è qualcosa che la accomuna agli scrittori indicati da Harold Bloom?
«L’ambizione di riflettere su temi imprescindibili, e di realizzare qualcosa di dimensioni grandi, a volte attraverso volumi piccoli ».
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