domenica 26 febbraio 2017

Botteghe e copie d'arte tra Cinque e Seicento



Il gioco delle copie è un’arte 
Perché il Seicento è il secolo del falso d’autore e delle riproduzioni in serie

FRANCESCA CAPPELLETTI Rep 25 2 2017
Viaggiando dalla Francia all’Italia, da Nizza verso Loano e Genova, nell’agosto del 1606 Vincenzo Giustiniani e il suo seguito si fermano a Genova, dove visitano, come avevano fatto nel resto delle mete europee che avevano toccato, chiese e palazzi. Nel palazzo di Orazio Del Negro, uno dei più belli di Genova, fra gli originali di Raffaello, Tiziano e Correggio, Bernardo Bizoni, cui è affidato il diario, annota «una copia del San Tomaso del signor Vincenzo, di Caravaggio». Il 28 maggio dello stesso anno, durante le celebrazioni e incontrollate “allegrezze” per l’anniversario dell’elezione di Paolo V, Caravaggio aveva ucciso una sua vecchia conoscenza, Ranuccio Tomassoni, nel corso di una rissa, in una
notte di «festeggio e gara». Il pittore aveva abbandonato la città in una fuga che da lì a poco lo avrebbe portato a Napoli.
La pratica della copia era legata, da sempre e con notevoli testimonianze già nel secolo precedente, all’esercizio del mestiere artistico e all’apprendistato. Nelle incisioni di accompagnamento al trattato di Cristoforo Sorte sull’arte della pittura, una classe di ragazzini si esercita a copiare dalle statue fino a notte fonda e nella commovente serie di disegni che Federico Zuccari, pittore e accademico, consacra alla vita del fratello Taddeo, questi viene raffigurato mentre è intento a studiare i capolavori antichi in giro per la città e a copiare dalle logge della Farnesina gli affreschi di Raffaello e della sua scuola. Copiare serviva ad appropriarsi di un linguaggio e ad avvicinarsi così ai grandi maestri, comprendendone lo stile, ma qualche volta anche ad assicurarsi un guadagno stabile, specializzandosi in copie da opere famose o tentando delle avventurose truffe. La produzione e la circolazione di copie, così come il loro uso fraudolento, sembrano intensificarsi nel Seicento con la diffusione su larga scala delle collezioni, delle loro esigenze di gusto, di allestimento, di documentazione e anche grazie all’atteggiamento ambivalente dei primi proprietari, a volte gelosissimi dei loro originali, a volte disposti a farli replicare, per ragioni talvolta difficili da spiegare.
Ancora una volta questo fenomeno, come altri legati al nascente mercato dell’arte, si intreccia all’attività di Caravaggio e ai suoi soggiorni a Roma e a Napoli, un contesto nel quale la produzione e l’esportazione di copie continuarono per tutto il Seicento, come mostrato dal recente convegno «La copia pittorica a Napoli», a cura di Andrea Zezza e David Garcia Cueto, svoltosi presso le Gallerie d’Italia di palazzo Zevallos di Stigliano. Altro elemento emerso dal convegno è l’esplodere della produzione di copie di Caravaggio subito dopo la sua partenza dalla città, come era capitato a Roma un anno e mezzo prima; come se non si osasse, finché il pittore era in circolazione, copiarne i dipinti.
Dal racconto del viaggio di Vincenzo Giustiniani, è evidente che fin da un’epoca molto precoce venissero tratte copie dalle composizioni di Caravaggio, sia per l’ammirazione di cui queste godevano presso i giovani pittori, sia per il suo successo presso i collezionisti. I documenti raccontano di continue richieste di copiare i dipinti da parte di “gentiluomini” e di principi stranieri, personaggi ai quali, forse, non si poteva negare questa possibilità, anche perché le avrebbero esposte lontano da Roma.
L’inventario di Philippe de Béthune, alto dignitario della corte francese, elenca già nel 1608, al suo ritorno a Parigi, due dipinti, un’altra volta l’Incredulità di San Tommaso e poi una Cena in Emmaus, attribuiti a Caravaggio, che, se devono essere identificati con le tele recenti clamorosamente rinvenute qualche anno fa a Loches, non sono che due copie degli originali.
Non sempre la copia veniva eseguita con il consenso del proprietario, ma racconti molto vivaci mostrano l’usanza di corrispondere una mancia al guardarobiere per consentire l’accesso al palazzo durante l’assenza del padrone di casa e l’esistenza di pittori specializzati in questo genere di attività. Le proporzioni del fenomeno forse dovrebbero far riflettere sulle numerose attribuzioni allo stesso Caravaggio di seconde e terze versioni dei suoi originali: Ottavio Costa, il committente della Giuditta ora alla Galleria di Palazzo Barberini, aveva fatto eseguire una copia di uno degli altri suoi dipinti di Caravaggio, il San Francesco con l’angelo. Avendo infatti deciso di lasciarlo in eredità all’abate Ruggero Tritonio nel suo testamento del 1597, una volta riavutosi dalla malattia che lo aveva spinto a dettare le sue volontà, regalò al destinatario una copia del dipinto e tenne per sé l’originale, che ingannò a lungo l’abate e i suoi eredi. Costa non fece mai copiare la stupefacente Giuditta, alla quale teneva immensamente e allo stesso modo il marchese Giustiniani impedì di copiare l’Amore vincitore, oggi a Berlino, la straordinaria immagine del fanciullo nudo, un Cupido contemporaneo e irridente. Di questo celeberrimo dipinto, coperto nel palazzo da una tenda verde e di cui evidentemente si parlava molto vedendolo poco, molti pittori restituirono immagini affini, ma mai copie, come invece accadde, e da molto presto, per l’Incredulità di San Tommaso. Oltre che a Genova e a Parigi, una copia si trovava ben più vicino, nel palazzo Mattei di Roma e venne forse pagata a Prospero Orsi, pittore di grottesche amico del Caravaggio, nel 1607, traendo in inganno persino il pittore e biografo Giovanni Baglione, che nel 1642 la elencò fra gli originali di Caravaggio in palazzo Mattei.
Che fosse difficile distinguere gli originali dalle copie è evidente dagli scritti dell’epoca: Giulio Mancini, che di copie ne aveva fatte eseguire per la sua collezione, parla di «una copia che sia tanto ben fatta che inganni, quasi intercambiabile con l’originale » e Vincenzo Giustiniani, raccomandando pazienza all’esecutore della copia, sostiene che questa, se ben eseguita, «non sarà conosciuta dall’originale, e talvolta anco lo supererà». Dai trattati d’arte alle botteghe e al tribunale, una vicenda del 1621, che ancora una volta riguarda un’opera di Caravaggio,
I bari, il cui originale si trova a Fort Worth, mescola molti degli elementi citati. Il marchese Sannesio aveva dato il permesso di copiare I bari su richiesta di un gentiluomo e aveva concesso al pittore una stanza per eseguire il compito. Ma al termine entrambi i dipinti, originale e copia, erano stati rubati. La vicenda è difficile da sbrogliare anche per il giudice del tribunale, ma dalle testimonianze sappiamo che un mercante aveva cercato di rivendere in una bottega di un calzolaio la copia, facendola passare per un originale. A giudicarla era stato chiamato proprio Giulio Mancini, il collezionista ed erudito, che l’aveva considerata una copia, ma di buona fattura. Dubbi e proteste continuavano; Caravaggio era morto da più di un decennio e intorno alle sue opere, che non poteva più proteggere con l’ironia feroce, con il temperamento insofferente, in definitiva con la sua stessa presenza, l’ammirazione si trasformava in infinita e quasi indistinguibile riproduzione, in illusione ed inevitabile inganno.
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