Da Dante agli induisti guida all’oltremondo per sapere come saremo
La costruzione di una realtà dopo la morte nasce con noi e attraversa miti, letteratura e religioni
Inferno
ALBERTO MANGUEL Rep 27 2 2017
Altri hanno immaginato paradiso e inferno come il frutto delle nostre aspettative. Ne La leggenda dei secoli di Victor Hugo, ognuno di noi crea l’inferno partendo dal proprio senso di colpa: «La tenebra è uno specchio scuro nel quale il dannato vede i suoi misfatti; dappertutto si erge il suo rimorso; lungo il tetro cammino ognuno vede il suo crimine; lo stesso spettro fa dire a Nerone: “Madre mia!” e gridare a Caino: “Fratello!”».
In questo spirito, non è difficile immaginare paradiso e inferno come una sorta di prêt- à- porter.
«Il paradiso», ha detto Sant’Agostino, «è ovunque siamo felici». Aldous Huxley ha risposto che nella nostra vita quotidiana siamo così malati e stanchi che la maggior parte di noi si immagina il paradiso come una casa di riposo.
E l’inferno? Per le notti in cui vi rigirate nel letto, inveendo contro i presidenti che vi raccontano bugie, i ministri che negano un’istruzione ai vostri figli, i finanzieri che vi derubano dei vostri guadagni, gli estremisti che vogliono farvi subire i capricci della loro follia blasfema, gli industriali che inquinano l’aria che respirate e l’acqua che bevete, i mercanti che minano i vostri valori artistici ed etici, vi offro questa consolazione: l’inferno esiste. In questo luogo meraviglioso, i mercanti cadranno sotto una pioggia di fuoco, costretti ad ascoltare per l’eternità brani interminabili di best seller spazzatura; gli industriali siederanno, con sudiciume fino agli occhi, sul fondo di una cloaca velenosa fabbricata da loro; gli estremisti saranno costretti a vagare all’infinito e in solitudine dentro gli incubi che essi stessi hanno creato; i finanzieri, con i loro completi costosi e attillati, patiranno la fame e la sete, mentre produttori di foie gras li ingozzeranno a forza di banconote; i ministri, trasformati in scarabei stercorari, saranno costretti a spingere enormi palle dei loro stessi escrementi fino alla cima di montagne colossali; e i nostri leader politici… be’, mi fermo qui. Come osservava Delepierre, perfino l’inferno ha i suoi limiti.
La nostra difficoltà a concepire il mondo senza di noi, e il nostro bisogno di immaginare alternative alla nostra assenza, ci ha trasformato in cartografi, che disegnano regni splendidi e prodigiosi in cui trascorreremo il futuro. Ma la verità è che il nostro unico futuro possibile è il nostro passato. Noi siamo, e saremo, nelle menti di coloro che verranno dopo di noi, quello che siamo stati e quello che abbiamo fatto, come le iscrizioni degli ossari ci ricordano. Niente ci definirà, se non le persone che un tempo eravamo, e le parole che un tempo abbiamo pronunciato, e le cose belle e le cose brutte che un tempo abbiamo fatto. Dal primo momento in cui abbiamo capito di essere vivi, abbiamo iniziato a costruire il luogo che ci conserverà da morti nella memoria altrui, e a scrivere l’epitaffio con cui saremo riconosciuti quando non saremo più qui. La verità è che siamo già i nostri fantasmi. Ecco perché questi regni ultraterreni ci sono così familiari.
( Traduzione di Fabio Galimberti)
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Immaginando alternative alla nostra assenza sogniamo regni splendidi e prodigiosi
I PECCATORI
Un’incisione di Gustave Doré per il XXIV canto dell’Inferno di Dante
L’unica certezza di questo mondo era incisa sopra l’ingresso dei molti ossari antichi: «Voi siete ora come noi eravamo un tempo; noi siamo ora come voi sarete». Però questa fine ci sembra inconcepibile. Immaginare il mondo senza di noi è immaginare una fase senza la nostra presenza, uno spazio senza i nostri occhi, le nostre mani, la nostra voce. Com’è possibile? Che senso può avere una vita in cui noi non viviamo? Probabilmente è questo il motivo per cui abbiamo deciso, molto tempo fa, che per
noi non ci sarebbe stata una fine definitiva e irrimediabile. Al contrario: abbiamo deciso che,dopo che gli occhi avrebbero smesso di vedere e le mani avrebbero smesso di toccare e la voce sarebbe rimasta senza parole perché il respiro sarebbe cessato, saremmo continuati a esistere in una sospirata eternità. In un regno al di là di questo mondo, in un’altra geografia differente, avremmo continuato a vedere e a tastare e a risplendere nei secoli dei secoli.
Uno dei cartografi di questi regni senza fine era Octave Delepierre, avvocato belga, collezionista di libri, diplomatico e scrittore del Settecento. La sua curiosità era onnivora. I soggetti dei suoi numerosi libri spaziano dai significati simbolici della rosa alle biografie di pittori fiamminghi, dal concetto di parodia nell’antica Grecia al Roman de Renart e alla leggenda di Till Eulenspiegel. Tre anni prima di morire in Inghilterra, nel 1879, Delepierre pubblicò a Londra, in un’edizione limitata di 25 copie, un trattato filosofico intitolato L’Enfer décrit par ceux qui l’ont vu (L’inferno descritto da chi l’ha visto), in cui passa in rassegna una serie di visioni meno note dell’inferno, e una in particolare (la Visio Tnugdali, scritta a Ratisbona da Marcus, un monaco irlandese del XII secolo) che Delepierre immagina come antesignana di quella di Dante. Il libro di Delepierre è una cronaca affascinante, divertente ed erudita di varie visioni infernali che derivano, come suggerisce l’erudito belga, da un’idea di Aristotele per cui «l’eternità è uno degli appetiti della nostra anima e uno dei concetti verso cui le passioni sono attratte con più forza».
Nelle nostre prime storie, l’Aldilà è semplicemente un luogo, né migliore né peggiore dei luoghi che abbiamo conosciuto da vivi. Nell’Epopea di Gilgamesh, per esempio, il luogo in cui andiamo dopo il nostro passaggio sulla Terra non è altro che la Terra dei Morti, un luogo al di là del mare che nessuno può attraversare due volte. Gli esseri immortali e gli spettri dei nostri morti vivono lì, ma non ci dicono nulla su ciò che fanno durante la loro eternità forzata.
Più di duemila anni dopo, Esiodo immagina che in quell’Aldilà, che lui chiama Isole dei Beati, eroi e uomini buoni vivono immuni al dolore, godendo tre volte l’anno dei frutti più dolci della terra. Omero era più dettagliato: la Terra dei Morti sta sotto la terra, non sopra, e lì le anime volteggiano nell’aria come le foglie d’autunno, e a volte si fermano a parlare con quei rari esploratori che, come Odisseo, si recano lì per incontrarle. La vita ultraterrena, però, non le rende felici: quando Odisseo racconta all’anima di Achille che tra i vivi è onorato come un dio, Achille risponde con rabbia che preferirebbe essere uno schiavo vivo, che si spezza la schiena per un altro uomo, piuttosto che regnare nell’Ade tra i morti senza respiro.
Per i nostri antenati inquieti, questo luogo mal definito non era abbastanza. Forse pensavano che dopo una vita di buone o cattive azioni ci meritavamo qualcosa di meglio (o di peggio) di un atrio riccamente decorato in attesa di un treno che non arriverà mai. E così cominciammo a escogitare categorie e sottocategorie dell’aldilà, con da una parte quartieri privilegiati e zone residenziali dove le anime che sono state brave cantano in coro celeste, e dall’altra quartieri malfamati e baraccopoli dove gli autobus vengono dati alle fiamme e la gente presa a sprangate.
Per gli induisti, ai beati viene assegnato uno spazio presieduto dalla divinità che hanno debitamente adorato e che li inonderà di piaceri; i peccatori, che sanno di aver sbagliato, dovranno sopportare una tortura particolare per ogni parte del corpo, inferta con il ferro, con il fuoco, con creature velenose, con animali selvatici, con uccelli carnivori. Secondo i taoisti, premi e castighi esistono ma sono illusori, perché tutto è illusione: i beati non hanno bisogno di ricompense e il peccatore, ingannato dalle apparenze, crede che il dolore sia reale.
Per gli Inca, il paradiso era un luogo privo delle sofferenze sopportate sulla terra, e l’inferno un luogo in cui queste sofferenze venivano patite, ma senza tregua né speranza. L’Islam crede che i fedeli godranno di foreste verdi e pascoli ameni, e il loro cuore sarà appagato; ma l’infedele brucerà in un fuoco eterno. Nell’XI secolo al-Ghazali descrisse l’inferno non come un luogo, ma come un mostro gigantesco divoratore di anime, e scrisse che quando Allah gli chiede se è sazio a sufficienza, l’inferno risponde sempre: «Come, non ce n’è più?». Dante descrisse l’inferno come il regno in cui i peccatori costruiscono e soffrono le proprie pene, e il paradiso come un luogo di felicità uguale per tutte le anime, qualunque sia il loro grado di beatitudine. A questi, come sappiamo, aggiunse il purgatorio, dove versioni differenti delle pene dell’inferno sono tollerate di buon grado, con la consapevolezza che non è più possibile peccare.
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