I grillini così mentecatti da crederci sul serio e da essere duri e
puri cominciano finalmente a sentire la puzza di merda della politica
vera. I grillini sautini e realisticamente opportunisti fanno i salti di
gioia, perché è scattato il liberi tutti e può cominciare il magna
magna [SGA].
Primarie a fine aprile, Renzi deve cedere e il governo va avanti
Democrack. Mediazione in extremis nel Pd, a un soffio da una nuova rottura. L’ex premier dagli Usa: «Visto? Non c’è stata nessuna forzatura»
Daniela Preziosi Manifesto 25.2.2017, 23:59
Sulla data delle primarie è pax democratica, o quasi. Ieri una lunga riunione della commissione che sembrava destinata a finire in gloria ha trovato l’accordo in extremis: le primarie del Pd si terranno il 30 aprile, che non è luglio come proponeva Gianni Cuperlo (che infatti alla fine vota no al dispositivo), ma neanche il 9 aprile che i renziani hanno tentato fino all’ultimo di portare a casa. Ed è anche una settimana più tardi di quel 23 aprile che sembrava essere l’ultima concessione degli uomini del segretario. La disputa del calendario nascondeva, e neanche troppo, la questione fondamentale della durata del governo Gentiloni.
Il voto anticipato a giugno esce definitivamente di scena, dunque. Lo sottolinea con attenzione – c’è lo streaming, è sempre meglio essere chiari – Piero Fassino: «Questo calendario trancia la discussione, non c’è più tempo», ora sarà chiaro che il governo Gentiloni ha un carattere «non transitorio e non temporaneo». «È prevalso il buon senso», sospira Cesare Damiano, schierato con Orlando. Ma è un sospiro di sollievo che tirano anche molti parlamentari che formalmente aderiscono alla maggioranza Pd. Va detto al Nazareno non tutti la vedono così: «I tempi tecnici in teoria ci sono ancora», ma sarebbero così stretti da rendere necessaria un crisi di governo in piene primarie. La data del 30 aprile butta acqua sul fuoco nei conflitti interni al Pd. Ma scatena l’ironia dei 5 stelle: «Il Pd ha appena annunciato le ’primarie per la pensione’ impedendo il voto a giugno per arrivare almeno a settembre. Miserabili», attacca il vicepresidente della camera Luigi Di Maio.
Finisce win win, dunque, il braccio di ferro fra Renzi (contumace, dalla Silicon Valley dov’è in viaggio-studio tornerà domani) e gli sfidanti Michele Emiliano e Andrea Orlando. Renzi porta a casa un congresso comunque a tappe forzate disegnato apposta per lui, e il voto quasi all’unanimità della direzione (che aspetta due ore che i commissari si mettano d’accordo). L’ex segretario smette di essere «divisivo», almeno per un giorno. «Visto? Non c’è stata nessuna forzatura, nessuna corsa, anzi. Il congresso durerà così un mese di più», commenta via sms l’ex segretario con i suoi. Dalla Sicilia Orlando fa buon viso: «Nelle condizioni date è una scelta giusta». Il candidato riapre anche un vecchio fronte, quello della «separazione delle carriere» fra premier e segretario: «Io, per i limiti che mi riconosco, non sarei in grado di fare le due cose contemporaneamente. Penso sia giusto pensare ad altre figure in grado non solo di guidare il governo, ma anche di tenere insieme la coalizione». È una scelta politica in continuità con quella di Gianni Cuperlo. Ma la modifica dello statuto del Pd non è all’ordine del giorno.
Un «contentino» all’indirizzo del guardasigilli arriva dalla proposta di Roberto Morassut in commissione, poi approvata da tutti: l’inclusione di una versione ultra light della «conferenza programmatica» da lui proposta – e bocciata dall’assemblea nazionale – nella road map del congresso. Lo annuncia Guerini: «Le convenzioni provinciali si terranno il 5 aprile, la convenzione nazionale il 9 aprile e questo appuntamento sarà un’occasione per un approfondimento programmatico che vada oltre la presentazione delle candidature». Un gesto di cortesia formale. Infatti nell’agenda di Orlando resta la «sua» conferenza programmatica, che sarà convocata nei prossimi giorni a Napoli.
Renzi, per mano dell’instancabile mediatore Lorenzo Guerini, vince senza sconti sulla data della chiusura del tesseramento, che resta il 28 febbraio. In direzione il braccio destro di Michele Emiliano Francesco Boccia denuncia «la forzatura» e chiede una «riflessione seria». Ma senza successo.
Al presidente pugliese avrebbe fatto gioco qualche giorno in più per rafforzare il tesseramento dei suoi, ma se ne dovrà fare una ragione. Comunque le primarie restano «aperte»: per votare ai gazebo basterà dichiararsi elettore del Pd e pagare 2 euro. Il nuovo segretario del Pd, e cioè quasi certamente il ’vecchio’ – Renzi insomma – verrà proclamato dall’assemblea convocata per il 7 maggio. Se i gazebo gli dovessero fare lo scherzetto di non tributargli almeno il 50 per cento dei consensi, l’assemblea potrebbe contenere qualche colpo di scena, per sempio l’alleanza ’contro’ dei due perdenti. Ma sono eventualità teoriche e improbabili.
Il nuovo segretario avrà anche il tempo di firmare le liste e le alleanze per le amministrative, il cui termine scade l’11 maggio. Ma andranno organizzate prima, in piena campagna gazebaria, e qualche baruffa è una profezia fin troppo facile. La direzione scivola via senza intoppi. Il regolamento è un papello poggiato sul banco della direzione. Scritto, rassicura Guerini, «in sostanziale conformità con quello precedente». L’emiliano Massimo Iotti, che come tutti è stato convocato in fretta solo 22 ore prima della direzione, nel suo piccolo si irrita: «Leggere il regolamento prima di votarlo non sarebbe male». Anche Roberto Giachetti dalla platea si agita. Il reggente Matteo Orfini si spazientisce: «Se qualcuno ha piacere di leggerlo prima di votarlo, il regolamento sta qui». Non si alza nessuno, si vota, finisce con 104 sì, 2 astenuti e 3 no.
Renzi cede, primarie il 30 aprile Tramonta l’ipotesi voto a giugno
Minacce di carte bollate, poi arriva l’accordo e la Direzione dà il via libera Ai gazebo si potrà votare versando due euro. Critiche del M5S: “È una farsa”
Carlo Bertini Stampa
Dopo tanto dibattere e litigare, la data delle primarie del Pd viene partorita: si terranno il 30 aprile. Una decisione che segna un punto a favore degli sfidanti di Renzi e dei capicorrente del Pd come Franceschini: perché toglie dal tavolo l’arma di elezioni anticipate a giugno, che al leader non dispiaceva tenere carica. Al segretario, che fa sapere di gradire una scelta che evita lacerazioni, votata in Direzione con 104 sì, 3 no e 2 astenuti, non piacerà di sicuro l’eccessiva dilazione sui tempi. Anche perché presta il fianco all’accusa dei grillini, subito gettatagli addosso da Di Maio, che il Pd abbia messo la pietra tombale sul voto a giugno per salvare i vitalizi dei parlamentari.
«La data decisa risolve un problema non banale: si chiude così definitivamente il dibattito sul voto politico a giugno», si compiace Fassino, pensando di stemperare le tensioni nel Pd. E i grillini si scatenano: «Applausi al Pd che è riuscito nel suo piano: rinviare le elezioni a dopo agosto per intascarsi le pensioni d’oro!». In ogni caso, non si potrà più votare l’11 giugno per una questione di calendario: tanto più che il leader vincente ai gazebo sarà proclamato segretario il 7 maggio dall’assemblea nazionale del Pd, che voterà un eventuale ballottaggio tra i primi due concorrenti, qualora nessuno superasse il 50% dei voti alle primarie del 30 aprile.
In Direzione tanti assenti
Ma la tensione nel Pd rischiava di esplodere, anche per la scarsità di presenze in una Direzione convocata di venerdì pomeriggio. Raccontano i beninformati del giro renziano, che dopo ore di guerriglia in commissione congresso i loro stessi esponenti hanno evitato di forzare sulla convocazione dei gazebo il 23 aprile, data su cui avevano battuto e ribattuto come segno di massima disponibilità rispetto al 9 aprile voluto dal leader: e questo dopo essersi accorti che nella sala della Direzione - che avrebbe dovuto ratificare con un voto la decisione - mancava il numero legale. Assicurato dai delegati orlandiani, divenuti quindi decisivi per l’ok finale. Una circostanza che non farà contento Renzi («quando scenderà dall’aereo sarà difficile spiegarglielo e tenerlo calmo»), il quale avrebbe comunque preferito una data che tenesse aperta la finestra del voto a giugno: come minaccia e per tenere a freno le polemiche grilline.
Uno a zero per gli sfidanti
Raccontano pure che il compromesso sia stato raggiunto grazie al pressing telefonico di Orlando e di Emiliano (che è arrivato a minacciare di fare ricorso sulla data ex articolo 700 del codice di procedura civile per bloccare la decisione della direzione). I due sfidanti incassano pure la conferma dei due euro come obolo per votare ai gazebo, invece dei dieci temuti, che avrebbero ridotto le code per votare. Ma all’ex pm non va giù che sia chiuso il tesseramento il 28 febbraio, «quattro giorni è poco per chi parte svantaggiato», fa notare Francesco Boccia. Emiliano avrebbe preferito tenere le primarie il 7 o il 14 maggio «per avere più tempo per farsi conoscere in tutta Italia». Guerini respinge l’accusa di un congresso lampo, ricordando che nel 2013 dalla data del sì al regolamento alla conclusione passarono 71 giorni, stavolta saranno 66 giorni, «in linea con quei tempi». Orlando invece si mostra conciliante, «se fossero state fissate le primarie a maggio, con la proclamazione del segretario si sarebbe arrivati troppo a ridosso delle amministrative». E annuncia che se vincerà farà il segretario del Pd e non il candidato premier, una rinuncia al doppio incarico che rovescia un cardine dello statuto del partito a vocazione maggioritaria.
Tolta la minaccia delle urne, il governo è obbligato a un cambio di marcia, «uno scatto che metterà in difficoltà gli scissionisti, costretti a dimostrare di garantire la stabilità dell’esecutivo, almeno fino a settembre, ma più probabilmente fino al 2018», si consolano i renziani che hanno ormai abbandonato il sogno del blitz.
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